Canova, 16 marzo 2007
(don Marcello Farina)
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1) Introduzione

Il quarto degli incontri dedicati alla conoscenza della Dottrina sociale della Chiesa (DSC) ci per-mette, da una parte, di mettere in evidenza «l’eredità» che essa ha affidato alla comunità cristiana all’inizio del terzo millennio e, dall’altra, di cogliere anche «i limiti» storici, nel suo mostrarsi ora profetica, ora appiattita su mentalità correnti e prassi non sempre fedeli alla radicalità evangelica.
A guardare, oggi, con «distacco» (con oggettività) e «serietà» quel complesso di riflessioni elaborato in più di cent’anni, dalla Rerum Novarum fino ai nostri giorni, si può riconoscere che gli «elementi costitutivi» della DSC possono essere riconosciuti:
a) nell’affermazione del primato della persona umana, definita come « primo principio e, si può dire, il cuore e l’anima dell’insegnamento sociale della Chiesa» e, successivamente, nel mettere in evidenza alcuni «concetti», divenuti ormai, almeno in teoria, patrimonio della ricerca morale:
b) il bene comune del genere umano (fine specifico della comunità politica),
c) la destinazione universale dei beni (e l’opzione preferenziale dei poveri che tale finalità comporta),
d) il principio di sussidiarietà (che protegge persone e gruppi dagli abusi delle istanze superiori e sollecita i più forti ad aiutare i deboli: a non distruggere, cioè, i «corpi interme-di»),
e) la partecipazione e la solidarietà (intese nel loro significato più pregnante di condivisio-ne, di riconoscimento dell’alterità e della reciprocità).
Certo, come si diceva sopra, la DSC è anche figlia del suo tempo, di questi cento e più anni che sono stati, come tutti noi sappiamo cogliere, straordinari per i mutamenti e le novità da essi determinate e, insieme carichi di insidie, di violenze immani, di contraddizioni e di ambiguità spaventose. La storia della DSC è «anche» la storia di queste vicende, che spesso sono diventate addirittura come «il motore» e lo stimolo per la sua rielaborazione tra «punti fermi» e le costanti e le svolte che non sono mancate. Si può perfino dire che non mancano in essa delle «posizioni ideologiche» legate all’assunzione di visioni del mondo precostituite e solo successivamente ci si è lasciati guidare dalla Parola evangelica, come autentica radice della interpretazione cristiana della vita e della storia.
Ci si potrebbe a questo punto chiedere, retoricamente, «che cos’è vivo e che cos’è morto» della DSC. Ma, forse, può premerci di più il cercare di indagare quale sia stata in questi ultimi anni la «nuova» comprensione dell’etica economica, cui la stessa DSC appartiene, nella sistemazione dottrinale voluta da papa Giovanni Paolo II. Da essa possiamo ricavare tre grandi domande:
a) qual è il senso «aggiornato» del comandamento «Non rubare»?;
b) qual è il rapporto tra uomo e ricchezza nella Parola di Dio?;
c) che cosa significa, infine, che «i poveri li avete sempre con voi» (Giovanni 12, 8)?
2) «Non rubare»: qual è il contenuto del comandamento?

È qui interessante fare un piccolo passo indietro e prendere in esame i testi di morale cattolica prima del Concilio Vaticano II. Lì il furto è definito come un «prendere il suo di altri contro la loro volontà». Il «suo» è la proprietà privata, che a partire dal sec. XIV e poi con John Locke, viene riconosciuta come un diritto sacro e inviolabile, con la conseguenza, in termini di morale, di sganciare la giustizia dalla carità. Lo Stato, a sua volta, deve tutelare il diritto di proprietà e la legge non può imporre il dovere di carità. Le tasse sono nate «solo» come pagamento delle spese della macchina dello Stato (amministrative e militari) e le tariffe sono il costo dei servizi goduti effettivamente dal privato cittadi-no.
Scrive Enrico Chiavacci: “La teologia morale cattolica, in tutti i testi e i manuali degli ultimi quattro secoli, ha sempre sostenuto il diritto naturale, e perciò inviolabile, di proprietà privata. Nessuno può togliere a un altro ciò che è stato legittimamente acquisito. Per questo motivo si elencano i vari modi di legittima acquisizione di beni terreni: compravendita, eredità, donazione, occupatio rei nullius (occupazione delle cose di nessuno), ecc. L’ultimo citato ha una sua importanza concettuale: nelle imprese coloniali. I popoli colonizzati erano considerati selvaggi, senza ordina-mento interno, e perciò si potevano tranquillamente occupare terre, beni, miniere e altro. Dato che in molte aree culturali non esisteva la proprietà privata, ma quella della comunità (clan, tribù, area territoriale), e di una comunità non concepita come Stato sovrano nel nostro senso occidentale, praticamente tutto era da considerarsi res nullius. Questa fu in particolare la logica della conquista dell’America, logica benedetta con apposita bolla pontificia, ma lo fu anche per le altre aree colonizzate. Così miniere, pozzi di petrolio, ma anche aree campestri o boschive furono incamerati. Non potendo le famiglie o le tribù presentare titoli giuridici di proprietà se non il possesso tradizionale, esse sono state – e sono tutt’oggi in alcune zone – legittimamente acquisite da Enti occidentali e oggi da multinazionali o da signorotti locali da queste finanziati o sostenuti.
Questo concetto di proprietà privata, sacra e inviolabile, è di fatto l’unico contenuto del «non rubare» in tutti i testi di morale cristiana e nei documenti pontifici fino agli anni ’50 del XX secolo. L’unica eccezione è la «estrema necessità», dove estrema, in pratica, indica che chi ti sta davanti stia per defungere. Se infatti, dicono i manuali correnti, il povero ha ancora tempo e fiato per elemosinare, allora la necessità non è estrema. Alcuni autori parlano di necessità «quasi-estrema»: è da apprezzare la loro moderazione, ma non si sa che cosa voglia dire. In ogni caso, deve essere ben chiaro che si tratta di un dovere generico di carità, non di giustizia. Questo è anche il pensiero di Leone XIII, che nella Rerum Novarum parla del dovere di dare al povero come un dovere di carità, non di giustizia: cita Tommaso, ma erroneamente. Per Tommaso il dovere di dare al povero è dovere di giustizia. E l’idea di Leone XIII è anche l’idea di Pio XII: alla richiesta diffusa di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda, risponde che non si tratta di un diritto, perché la proprietà dell’azienda (edifici, macchinari e altro) è proprietà privata dei padroni, e quindi intangibile. È però da rilevare un’importante eccezione vista da Pio XI nella Quadragesimo anno (1931): è l’epoca delle conseguenze della grande depressione americana, e Pio XI afferma che, qualora la ricchezza privata accumulata sia tale da compromettere il bene comune, allora lo Stato può espropriarla. È da rilevare anche che alla nascita della Comunità economica europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), negli anni ’50, fu introdotta una qualche forma di partecipazione dei dipendenti alla gestione dell’azienda. Ma i buoni padroni tedeschi si affrettarono a introdurre anche la produzione di prodotti lavorati, così da sfuggire alla norma” (su Rivista teologia morale, n. 153, 2007, pp. 19-20).
Ma né i Padri della Chiesa, né S. Tommaso, né tanto meno i Profeti e il Vangelo, avevano questa concezione del «suo» (della proprietà privata). Non si conosce neppure da parte loro l’idea di un diritto di proprietà naturale, e perciò sacro e inviolabile. L’unico vero signore dei beni terreni è Dio (‘la terra è di Dio’), che li ha creati per il bene di tutti. Così afferma S. Tommaso, il quale ricorda che è bene che la comunità garantisca a ciascuno un legittimo possesso, ma solo allo scopo del bene comune (della pace sociale). Per lui il diritto non è mai naturale, ma è frutto di statuti umani e nasce dal consenso degli uo-mini, sempre però con la clausola del dovere di dare «de facili» (con semplicità) a chi è nel bisogno. Tutto questo per giustizia e non per benevolenza occasionale. (Anche Ambrogio aveva affermato che prima del dovere di «non-rubare» veniva quello di «dover dare» secondo le proprie possibilità!).
È stato faticoso per la Chiesa ritrovare la dottrina e lo spirito del Vangelo, dei Padri e dello stesso S. Tommaso. La vera svolta si è avuta soltanto con la Gaudium et Spes (GS), la grande costituzione conciliare del 1965, preceduta dall’enciclica Pacem in terris del 1963, con l’ampia e quasi puntigliosa elencazione, nella prima parte, dei diritti dell’uomo.

La Gaudium et Spes sottolinea alcuni punti significativi dal punto di vista teorico:

– Ad esempio, che il lavoro è sempre espressione della persona; ma i lavoratori sono troppo spesso asserviti alla propria attività. Di qui nasce l’invito ai cristiani di non accettare passivamente le cosiddette leggi dell’economia (del mercato); anzi va promossa «la partecipazione di tutti» alla gestione dell’impresa (n. 67 e 68 della GS).
La Laborem exercens di papa Woytjła ripete questi stessi concetti, affermando che il lavoratore deve mantenere la propria dignità e la responsabilità umana. Ma ci si può chiedere: perché questi nobili e appassionati discorsi sono svuotati di valore da ciò che accade nella realtà? Oggi il lavoro non è per principio a servizio dell’uomo, ma il lavoratore è al servizio della massimizzazione degli utili a qualunque costo umano. Non si continua così a «rubare»?

– Ancora, la Gaudium et Spes sottolinea la destinazione universale dei beni della terra per tutti gli esseri umani. Ma anche qui, chi è che non vede le miserabili condizioni di vita della maggior parte della famiglia umana e le enormi ricchezze di pochi? Non è questo un vero «furto» del necessario ai miseri? Chi aveva profeticamente visto l’attuale logica della globalizzazione è stato Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio (1967). Le seguenti encicliche di Giovanni Paolo II richiamano in vari modi il problema incombente, ma non ne sottolineano la drammaticità, né denunciano apertamente e severamente le cause profonde (n. 69 della GS).

– Infine, la Gaudium et Spes sponsorizza, se così si può dire, una forma di proprietà privata come condizione indispensabile per l’esercizio di un minimo di libertà nell’esistenza del singolo e della famiglia. Ma non è detto che dove c’è più proprietà privata ci sia anche il massimo rispetto per la vita delle persone!

Comunque un dato risulta certo: se rubare significa per la Bibbia «rubare la persona dell’altro», nel nostro tempo si continua a rubare senza vergogna. Non solo, ma l’egoismo di singoli e di gruppi, l’individualismo oggi imperante, distruggono ogni anno milioni di esseri umani e riducono in condizioni di miseria la grande maggioranza della famiglia umana, togliendo forzosamente il «suo» dell’altro, cioè ai popoli della terra.
“Oggi, poi, nel tempo della progressiva globalizzazione, il dovere di «non rubare» al povero, cioè il dargli ciò che per volere divino è già suo, va oltre le limitate unità politiche e commerciali cui un San Tommaso poteva pensare, e va oltre anche all’interesse o vantaggio economico di un singolo Stato per sovrano e potente che sia. Le grandi Corporations e le Finanziarie, le vere centrali operative che controllano il flusso dei capitali ovunque sulla terra, sono transnazionali: non dipendono dai poteri politici di singoli Stati, ma generano o condizionano o ricattano o corrompono tutti i poteri politici. Le grandi imprese, che sono nate e si sono sviluppate in un paese, oggi hanno bisogno di sempre maggiori capitali richiesti dal rapido sviluppo tecnologico e dai nuovi flussi del mercato mondiale. Così nessuno, o ben pochi, sa chi realmente detenga il controllo azionario delle grandi imprese e, soprattutto, delle grandi finanziarie. La nazionalizzazione, o il controllo azionario dello Stato tramite la golden share, può essere necessaria per i Paesi poveri o per i servizi essenziali di un qualsiasi Paese, ma spesso uno Stato è costretto in vari modi a vendere o a cedere a poco prezzo il proprio prodotto alle condizioni imposte dall’esterno o da poteri transnazionali che controllano l’operato dello Stato. In questo quadro, per il cristiano l’obbedienza al comandamento «non rubare» diviene dovere di impegno sociali e politico a livello sopranazionale” (op. cit., p. 25).
Scrive Paolo Ricca, pastore valdese: “Il comandamento del «non rubare» è il più rivoluzionario di tutti i comandamenti», ricordandoci che «quelli che rubano di più non sono i ladri di professione. Se accadesse un giorno, per miracolo, che coloro che rubano occultamente non rubassero più, la faccia della società cambierebbe profondamente. Si vedrebbe allora che molti ricchi sono solo dei ladri, e quindi diventerebbero poveri, e molti poveri sono solo dei derubati, e quindi diventerebbero ricchi. Sarebbe una vera rivoluzione!”. Anche le forme di furto si sono, a suo parere, moltiplicate e hanno assunto forme del tutto nuove. Egli scrive ancora: “È impossibile naturalmente fare un elenco completo di tutte le forme di furto oggi. Possiamo solo azzardare qualche esempio: intanto, partendo da una abitudine molto comune, alzando arbitrariamente i prezzi delle merci, si ruba. Si ruba anche sottopagando le materie prime dei Paesi che le producono: questo è un furto che noi, Primo Mondo, abbiamo praticato e continuiamo a praticare. Poi si può rubare sul lavoro. Frodare il fisco, che è quasi un’arte nel nostro Paese. Tassare selvaggiamente i cittadini, per cui anche lo Stato può diventare un grande ladrone. Pagare meno del dovuto chi lavora. Negare il lavoro a qualcuno. Oppure, qualche volta, esercitare due lavori. Insomma, è vero che si può rubare a partire da qualunque posizione, dall’alto e dal basso” (in Le dieci parole, pag. 168).
Per concludere, si possono ricordare i due «grandi» princìpi generali per l’etica economica, che se-condo Enrico Chiavacci hanno carattere normativo e non di puro consiglio di perfezione:

– non cercare di arricchirti;

– se hai, hai per dare.

Scrive il noto moralista: “Riteniamo che questi due precetti generali rispondano bene all’idea che cercare o mantenere gelosamente ricchezze è idolatria: i due precetti si contrappongono rispettivamente ad «avidità» il primo, e ad «avarizia» il secondo. Più in generale crediamo che in questi due precetti trovi la sua espressione più esatta l’idea di «sobrietà» (povertà) e giustizia come virtù: la disponibilità ad appartenere al Regno di Dio diventa attitudine costante nei confronti dei beni terreni”.

3) La Bibbia e l’uso dei beni: alcune osservazioni

C’è un’immagine immediata, facile da cogliere, che ci introduce in questo ambito immenso di riflessione: “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire Dio e il denaro” (Matteo 6, 24; Luca 16, 13). Questo forte avvertimento non è un avvertimento isolato: è il punto di arrivo di un discorso più volte ribadito, che ha radici nell’Antico Te-stamento e che il Nuovo Testamento riprende e precisa.
Va subito detto che il punto di partenza biblico è sempre di natura religiosa: l’uso dei beni ha a che fare con una certa visione di Dio e del prossimo, in una triplice direzione: in rapporto a Dio la ricchezza diventa sempre idolatria; in rapporto all’uomo con se stesso che si affanna ad accumularla, la tentazione della ricchezza diventa «vanità» (cioè assurdità, stupidità, inutilità e delu-sione); in rapporto agli altri uomini la tentazione della ricchezza diventa ingiustizia e oppressione.
Ma c’è di più. La Bibbia (i profeti e il vangelo in particolare) mette in evidenza che la passione dell’accumulo (con i suoi risvolti di idolatria, vanità e ingiustizia) può benissimo convivere anche con la religiosità, con la puntigliosa osservanza delle pratiche religiose, persino con la ricerca della gloria di Dio.
Si legge nel vangelo di Marco (12, 38-40): “Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere i saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti: divorano le case delle vedove e ostentano lunghe preghiere”. E in Luca (16, 14), proprio a commento delle parole programmatiche di Gesù «non potete servire Dio e il denaro»: “i farisei, che erano attaccati al denaro ascoltavano queste cose e si facevano beffe di Lui”. Nella tipologia evangelica lo scriba e il fariseo non è l’incredulo, non è l’uomo mondano, ma l’uomo religioso e praticante.

Nell’Antico Testamento ci sono almeno tre linee di riflessione:

– quella sapienziale, secondo la quale l’ideale dell’uomo è la ricchezza, non la povertà. Nello stesso tempo anche la ricchezza ha dei limiti: non si trova la felicità nella sola ricchezza, ma in una ric-chezza accompagnata dall’amore di Dio, dalla giustizia e dalla concordia;

– quella degli uomini pii («i poveri di Jahwè) che riconoscono che la vera ricchezza è in Dio: solo in lui trova rifugio la precarietà e la povertà dell’uomo (un atteggiamento spirituale);

– quella dei profeti, unanimi nel condannare ogni pratica religiosa che trascuri la giustizia. Nel popolo, secondo loro, non c’è posto per una divisione tra ricchi e poveri. Per questo i profeti sperano in un tempo messianico in cui i poveri avranno finalmente giustizia e gli emarginati un posto. Si ricordino le invettive di Amos, di Isaia, di altri grandi profeti.

Per l’Antico Testamento c’è una ricchezza da cercare, nel contempo benedizione di Dio e frutto della solidarietà tra gli uomini, e qui per ricchezza si intende benessere, libertà, giustizia e sicurezza; contemporaneamente c’è, anche, una ricchezza da fuggire, come l’accumulo che spesso nasce dall’ingiustizia e dall’oppressione, dalla insensibilità morale e dal fraintendimento del rapporto con Dio.
Nel Nuovo Testamento tutto si incentra sulla persona di Gesù di Nazareth.
Sulla scorta di quanto scrive don Bruno Maggioni, vale la pena qui di mettere in evidenza quattro ri-lievi significativi:

a) A un tale che gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada», Gesù rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9, 58-58; Mt 8, 19-20). La vita di Gesù fu povera e nomade. Non c’è dubbio che le ragioni di questa scelta vadano cercate in un atteggiamento di incondizionata fiducia nel Padre (che nutre i fiori e i passeri) e nella volontà di possedere la maggior libertà possibile per dedicarsi completamente alla propria missione (volontà di cui troviamo le tracce nelle parole rivolte ai discepoli: «non procuratevi né oro né argento, né bisaccia da viaggio, né bastone»: Mt 10, 9-19).

b) Nello svolgimento della sua opera messianica Gesù ha costantemente rifiutato tutte le sollecitazioni che gli suggerivano di servirsi del prestigio, della potenza e del dominio. Fu una tentazione che lo accompagnò tutta la vita, proveniente da Satana (Mt 4, 1-11), dalle folle (Gv 6, 15), dagli scribi e dai farisei (Mc 8, 11; 15, 31-32), e persino dagli stessi discepoli (Mc 8, 32-33). Gesù oppose a questa tentazione almeno due ragioni. Anzitutto, la ferma fiducia nella Parola di Dio che apparentemente sembra debole (al punto che gli uomini sono sempre stati tentati di rafforzarla), ma che in realtà è forte. Gesù non è caduto nell’equivoco di introdurre nella debolezza di Dio la forza della potenza degli uomini. E poi la lucida percezione che denaro, potenza e dominio non si lasciano ridurre a strumenti: ben presto si trasformano in padroni, ed esigono adorazione. Così dice, e giustamente, Satana nel deserto: «tutto questo ti darò, se mi adorerai». Una conseguenza a cui non si sfugge.

c) Gesù ha frequentato i poveri di ogni genere (gente del popolo e contadini, ammalati, stranieri e peccatori) e a loro ha annunciato il Regno. In un certo senso li ha privilegiati. È questo uno dei tratti più stori-camente sicuri del suo ministero. Gesù sa che Dio non fa differenze di persone, non segue le valutazioni e le emarginazioni che invece gli uomini – anche a nome suo – si ostinano a costruire: al contrario, Dio è dalla parte del povero e dell’escluso, per difenderlo. Ecco perché Gesù privilegia costoro, per rivelare il vero volto di Dio e del suo Re-gno. Gesù ha certamente frequentato anche uomini ricchi, uomini detentori della cultura e dell’autorità, e anche a costoro ha annunciato il Regno. Ha accettato l’invito a pranzo di Simone il fariseo (Lc 7, 36ss) e di un altro capo dei farisei (Lc 14, 1), ha guardato con simpatia il giovane ricco (Lc 18, 18ss), è entrato nella casa di Zaccheo «capo dei pubblicani e ricco» (Lc 19, 1). Gesù ha dunque accolto anche i ricchi, ma sempre per aprire loro il cuore e le mani. Ed è chiaro che li ha incontrati in quanto uomini, e come tali amati da Dio e invitati al Regno. In nessun modo Gesù ha considerato la loro posizione un luogo privilegiato per l’annuncio del Regno: come se, una volta convertiti, essi fossero, appunto per la loro posizione e per la loro capacità di influenza, la via più rapida per la diffusione della Parola. Gesù non ha mai considerato il denaro, né coloro che lo possiedono, né le molte cose che con il denaro si possono fare come una via favorevole alla instaurazione del Regno.

d) Denunciando il rischio dell’idolatria che la ricchezza porta con sé, Gesù conduce l’analisi a quel profondo livello di coinvolgimento che possiamo indicare come «il cuore dell’esistenza». Gesù sa benissimo che il problema è di riorientare il cuore dell’uomo. È di qui che scaturisce l’attaccamento al denaro e tutte le sue sopravvalutazioni: dal cuore scaturiscono le «cupidigie» (pleonexia: avidità, passione dell’accumulo), come si legge in Marco 7, 22. Un duplice riorientamento: da una ricerca di sicurezza fondata su se stessi e sull’accumulo a una sicurezza fondata sulla fiducia nel Padre; da un’esistenza concepita e gestita come conservazione a un’esistenza concepita come dono, condivisione e servizio.
Come dice Bonhöffer: «Gesù, uomo per gli altri». E la Chiesa degli Atti degli Apostoli, così come viene descritta dall’evangelista Luca, abituata a convivere in un mondo di ricchi e di poveri, di lusso e di miseria, è continuamente sollecitata (anche da Paolo, da Giacomo…) a guardare alla vita buona, bella e beata di Gesù di Nazareth per testimoniarlo nella storia delle donne e degli uomini di ogni tempo.

4) «I poveri li avete sempre con voi» (Giovanni 12, 8)

Alla fine del nostro itinerario sulla DSC trovo provocante questa frase di Gesù di Nazareth pronun-ciata in casa di Simone, il lebbroso guarito, durante la cena a cui è invitato anche lo stesso Gesù. A parti-re, però, dalla constatazione che i nostri non sono tempi favorevoli per i poveri. È vero che, da un lato, c’è un forte apprezzamento per il servizio al povero, delle forme di aiuto da prestare, delle figure di volontariato e di dedizione, del compito anche dei cristiani in questo campo, ma, dall’altro, c’è una cultura dell’identità che rifiuta il diverso, che lo sente come una minaccia, che lo marginalizza dai circuiti della vita quotidiana; e, soprattutto, c’è una cultura del benessere che non vuole mettere in discussione i criteri e i comportamenti di una società dell’accumulo, della crescita, del progresso, dell’ottimizzazione… E se vuol raccomandare l’attenzione al povero (si pensi solo a chi viene da fuori) deve far risultare che è una «risorsa», che senza di lui non potremo svolgere alcuni lavori… È lo stesso atteggiamento che abbiamo nei confronti della sofferenza e della malattia; trattiamo solo quella di cui riusciamo a venirne a capo, che pensiamo di superare e guarire. Prima di «far del bene» ai poveri, occorre riconoscere che essi sono anzitutto un «appello» a noi, al nostro stile di vita, ai criteri del nostro vivere sociale. Essi sono un invito ai credenti e ai cercatori di Dio a cercare quell’unico bene che sazia il desiderio dell’uomo e a condividere gli altri beni, affinché nessuno resti fuori dalla sala del convito. E dunque indicano anche il «compito» di vivere la esperienza cristiana come uno spazio che sente i poveri, i piccoli, e tutte le altre forme di emarginazione nel grembo della propria casa, al centro della comunità. Stando con i poveri, condividendo la loro esistenza, le loro fatiche e le loro lotte, anche lo stesso Vangelo acquisterebbe autenticità e rilevanza.
Una cura dei bisogni intesa in modo solo materiale, senza leggere in essi una domanda più radicale, senza ascoltare l’appello a un bene più grande, di cui a sua volta il credente è solo testimone e non proprietario, non apre né il singolo, né la società alla ricerca di quel bene che solo riempie il cuore dell’uomo. Questo è l’appello che viene dai poveri e che bisogna ascoltare! Esso ci dice che il povero non ha bisogno solo di aiuto, ma di comunione, che egli non è solo un essere di bisogno, ma è una libertà che chiede relazione e prossimità. I poveri sono il libro dove io leggo che anche la mia vita, così piena di cose e di beni, manca dell’unica cosa necessaria che è la capacità di relazione, di condivisione, di amore, di affetto, di dedizione, di vocazione. I poveri sono un frammento dell’evangelo, che rimanda all’evangelo in pienezza; essi ci chiedono di accoglierlo nella sua integralità, di introdurli nella casa della libertà fraterna, nello spazio della comunione, ci chiedono di fare la Chiesa come comunità fraterna.
Un tempo l’elenco dei poveri della comunità era conservato gelosamente sull’altare, accanto all’Eucaristia e ai libri della preghiera: da queste tre realtà nasceva ogni giorno la comunità cristiana. Forse si potrebbe ricostruire quella quotidiana «trinità», per cooperare con tutte le donne e gli uomini, interessati a costruire insieme l’accoglienza e la condivisione, un mondo di giustizia, di libertà, di pace.

ALLEGATO

La Chiesa è veramente di tutti se è veramente Chiesa dei poveri.
Restituire la Parola di Dio ai poveri secondo il Vangelo sarà per la Chiesa e i credenti la possibilità di rileggerla nella fatica e nella responsabilità di restituire la parola «umana» a tutti gli uomini defraudati di intelligenza, di coscienza, di libertà. E la Parola di Dio sarà per loro anche l’immenso, sorprendente dono di riscoprirla sempre come sorgente, verifica, compimento di tutte le parole umane.
Alla resa finale dei conti, secondo Bernanos, Dio interpellerà i credenti: «Restituitemi la mia Parola». Per giungere meno indegni a quell’appuntamento ultimo non ci resta che restituirla ai poveri ad ogni appuntamento della nostra storia.
È bene allora che «adesso» ascoltiamo insieme questo appello che ci giunge da una terra maledetta dagli uo-mini e benedetta da Dio.
Dalla lettera inviata dagli indios boliviani a Giovanni Paolo II in visita nel Perù, Venezuela, Ecuador: “Noi indiani d’America e delle Ande abbiamo deciso di servirci della visita del Papa per restituirgli la sua Bibbia, visto che in cinque secoli non ci ha portato né amore né pace né giustizia. In cambio della colonizzazione abbiamo ricevuto la Bibbia che è stata un’arma ideologica di attacco; la spada spagnola, usata di giorno per attaccare e uccidere gli indios, di notte diveniva una croce per attaccare l’anima degli indios. La preghiamo di riprendersi la sua Bibbia e regalarla ai nostri oppressori, i cuori e le menti dei quali hanno più bisogno dei nostri del suo insegnamento morale” (6 febbraio 1985).
Se noi, vecchie Chiese e vecchi popoli di civiltà cristiana, sapremo restituire la Parola di Dio ai poveri del mondo, essi ci restituiranno una Parola di Dio “risuscitata a nuova vita”.