a cura di don MARCELLO FARINA

Le riflessioni sono state tenute presso la Parrocchia S. Pio X di Canova (Gardolo – Trento)
Canova, 17 dicembre 2010
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1. Introduzione

Tre immagini possono accompagnarci in questo primo incontro su un tema che è di per sé provocatorio: perché il cristianesimo è divenuto estraneo alle donne e agli uomini del nostro tempo.
La prima ce la offre Heinrich Heine, grande poeta tedesco dell’Ottocento. Egli scrive: «Suona la campanella. In ginocchio! Si stanno portando gli ultimi sacramenti a un dio che muore!». Il Dio cristiano soffre oggi di una grave crisi di credibilità, almeno per il modo con cui egli viene presentato alla sensibilità delle donne e degli uomini di oggi. «Dire Dio» oggi è diventato difficile.
La seconda immagine ci viene da un’osservazione del teologo Hermann Häring, che scrive, ancora qualche anno fa: «Se non andiamo errati, pare proprio che la Chiesa cattolica abbia iniziato una delle fasi più difficili della sua storia. Anch’essa, infatti, viene coinvolta da problemi, nuovi e incalcolabili, che investono il nostro futuro. Ma più che altrove, in essa che si qualifica come Chiesa universale, oggi esplodono dei gravi contrasti di natura culturale, geopolitica e sociale» (in Diritti e limiti del dissenso, p. 151).
La terza immagine fa da prologo al bel testo di don Armando Matteo, da cui ricaviamo la profonda analisi sul cristianesimo di oggi, che si intitola appunto Come forestieri (Rubbettino, 2008). È un’immagine che si trasforma in invito: quello di «diventare», ciascuno di noi, come i Magi del racconto di Matteo. Essi sono segno di un mondo estraneo, lontano, che reca omaggio a un piccolo bambino, che un astro celeste indica come re. Da uomini di prestigio e potenti, si trasformano in ricercatori, prendendo distanza dalla loro agiatezza e dalla situazione di sicurezza, per tenere il passo con quell’astro speciale apparso all’orizzonte della loro vita.
«Dinanzi ai loro occhi si configura, però, un paesaggio davvero particolare: sacerdoti che sanno leggere le profezie ma dimostrano di non cercare più nulla e un re che sembra interessarsi alla cosa come da lontano: “fatemi sapere”, raccomanda ai Magi. Ma come è possibile tutto ciò? Stranieri che hanno percorso un lungo cammino dicono con la loro pura presenza che la profezia potrebbe davvero compiersi e loro, i sacerdoti, i capi del popolo e il re in persona, stanno a guardare cosa accade! Restano spettatori semplicemente incuriositi. È davvero estraniante la freddezza con cui tutti costoro si pongono dinanzi al possibile compimento di quella promessa che nel tempo della prova aveva sostenuto i loro padri» (A. Matteo, Come forestieri, p. 4).
Coloro che dovrebbero sapere, non cercano più nulla; per loro la profezia è diventata sterile, così che, nel momento di tornare a casa, gli stessi Magi si sentono dire che devono farlo «per altra via», cioè a percorrere altri sentieri, a non temere l’estraneità e il cambia-mento.
È per questo che, secondo l’assistente nazionale della FUCI, la storia dei Magi si presta a introdurre l’atmosfera e la sostanza della nostra riflessione sull’estraneità del cristianesimo per le donne e gli uomini del nostro tempo.
Scrive ancora don Armando Matteo: «Il tempo che viviamo segna un grande turba-mento per la religione cristiana, ne provoca un forte disagio: sembra di non essere mai al suo posto, a volte di esigere troppo, altre di chiedere troppo poco. I contorni della sua teologia e della sua morale risultano oltre misura sfuocati. Pochi sanno ormai a che serve la Chiesa.
Ma più in profondità, il cristianesimo non è solo estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo, è divenuto estraneo a se stesso: lo dimostrano non da ultimo il fervore e il fiorire delle nuove e disparate forme di esperienza credente, dai movimenti di fresca fondazione alle comunità di base. Tutti più o meno alla ricerca di quel surplus spirituale che assicurerebbe un futuro sicuro alla fede, e tutti certi di aver individuato l’ultimo carisma che scioglierà ogni dubbio e ogni domanda.
In verità e con buona pace di tutti, grande parte della tradizione cristiana è divenuta estranea agli stessi fedeli, dai canti in latino alle litanie più recenti, e, mentre la speculazione teologica e le direttive morali risultano lontane dal modo ordinario di pensare e di relazionarsi all’esistenza, le figure magisteriali appaiono staccate e semplicemente irrelate con i vissuti e con i contesti di riferimento.
Davvero il cristianesimo appare oggi spaesato, senza dimora» (Ivi, p. 6).
Ciò porta con sé che:

– È necessario anche per la fede cristiana riconoscere l’urgenza di un viaggio incontro al mondo straniero che in realtà la ospita.

– Il cristianesimo non deve avere paura di prendere le distanze da se stesso, da un certo stile, da un determinato linguaggio, da un collaudato universo concettuale, da uno specifico modo di organizzare il suo spessore intellettuale. Deve affrontare con scioltezza il viaggio dentro il cuore di un tempo che gli si dichiara estraneo.

– Occorre anche prendere le distanze da ogni forma di irrigidimento dogmatico e morale della sua verità, da ogni difesa autoreferenziale dell’istituzione ecclesiastica e accogliere la sfida di un confronto aperto con la cultura del nostro tempo.

– Occorre, cioè, percorrere «un’altra via». «Una via altra, che possa condurre verso un cristianesimo che insegni agli uomini e alle donne lo sguardo di Gesù, quello sguardo che invita a riconoscere la presenza dell’amore di Dio nel cibo che non manca ai piccoli del corvo e nella stupefacente bellezza dei gigli dei campi e ancor più nell’impensato di un amore divino che si preoccupa anche dei nostri capelli; verso un cristianesimo che non fa la predica a nessuno, promuovendo e compiacendosi di ogni gesto di bontà; verso un cristianesimo che eleva e rianima, esortando e ispirando nuove riprese e nuovi cammini; verso un cristianesimo che sappia inventare nuovi spazi di ospitalità dentro le strutture delle sue comunità, nuove forme di culto e di preghiera dentro i canoni della sua liturgia; verso un cristianesimo meno preoccupato di sé e più aperto ad intercettare i tanti magi che hanno iniziato il loro cammino e non sanno più a chi chiedere indicazioni per non perdersi» (Ivi, p. 7).

2. Non possiamo non dirci pagani

a) Il Dio accessorio

«Dobbiamo confessarlo apertamente: negli ultimi quarant’anni di storia collettiva dello spirito, gran parte dell’umanità ha imparato a vivere senza Dio» (Ivi, p. 9) («Etsi Deus non daretur»).
Non si coglie più la sua «presenza» in modo netto dentro il continente dei nostri sentimenti, all’interno di quel «plesso vitale» che noi via via chiamiamo «coscienza», «interiorità», «anima», lì dove si decide del bene e del male da compiere, o da rifiutare. Dio non è più necessario.
Certo, ogni tanto qualche problema di tipo religioso diventa ancora un argomento da opinione pubblica: affascina, stuzzica, incuriosisce, sollecita dibattiti televisivi (veniamo da Adamo o dalla scimmia del dottor Darwin? Gesù ha avuto o no una discendenza francese dalla Maddalena? È meglio che i preti si sposino o che si mantenga il celibato?). Ma tutto questo non tocca la vita quotidiana di migliaia di persone. Sono altri gli orientamenti, altre le premesse. Davanti e durante lo svolgersi feriale della propria esistenza, per la normale gestione degli affari quotidiani l’ipotesi Dio non scatta più: Dio è diventato estraneo, acces-sorio.
Talvolta io penso che c’è anche qualcosa di più, in questo mettere Dio ai margini: perfino un senso di fastidio, di ribellione, quando egli viene evocato come «il garante di valori morali», che devono apparire come «valori non negoziabili» dal punto di vista del dibattito contemporaneo, o addirittura come il giudice spietato di scelte, che appaiono invece «umane», «misericordiose», o anche come il nume tutelare di un sistema sociale, ecclesiastico e laico, indeformabile e gerarchicamente organizzato.
Scrive ancora Armando Matteo: «Pertanto, invertendo profondamente la nota frase di Benedetto Croce, se non vogliamo mentire a noi stessi, dobbiamo dire che oggi, avendo imparato a vivere senza Dio, non possiamo non dirci pagani.
Se l’epoca antica-medioevale era, infatti, caratterizzata da una vita che trovava proprio in Dio il suo maggiore riferimento: tutto era posto sotto lo sguardo e la provvidenza divini – una società dunque con Dio; e se l’epoca moderna si è emancipata da questo schema assumendosi il compito di rendere l’uomo “maggiorenne” e di conseguenza libero dal dominio dell’Onnipotente e della sua Chiesa – una società pertanto contro Dio; il tempo che viviamo ricorda molto da vicino l’epoca pre-cristiana: l’epoca dove Dio – almeno nella versione personale e specifica assunta nella religione cristiana – non c’era. La nostra dunque è una società senza Dio.
Dio è diventato perciò l’illustre dimenticato dell’epoca attuale (cfr. il testo di Houtepen: Dio, una domanda aperta)» (Ivi, p. 10).
Uno sguardo puntuale e lucido sulla vita ordinaria ci permette di concludere che sono pochi, molto pochi coloro che ritengono che, per accedere ad una »vita veramente vita» (Benedetto XVI) ci si debba rivolgere alla fede cristiana. «Chi cerca la felicità – scrive un autore all’inizio del nostro secolo – deve rivolgersi altrove» (Lauster, 2006).
Un tale «altrove» è appunto quella forma di saggezza «pagana» che sta sempre più caratterizzando il nostro vivere senza Dio: un vivere che tenta da sé di trovare le forze per «reggere» alle ambivalenze e ai rovesci del destino, e le ragioni per apprezzare (o disprezzare) la propria vita.
In molti uomini di cultura contemporanei l’affermazione da cui siamo partiti – perché non possiamo non dirci pagani – non assume il semplice effetto di una constatazione, ma il tono di un invito accorato, caldo, persuasivo.
Ad esempio: «Il filosofo italiano Salvatore Natoli, per citare un nome autorevolissimo, è profondamente convinto di ciò. A suo avviso solo un nuovo paganesimo, consapevolmente assunto, potrebbe recuperare un rapporto diretto e immediato con i grandi temi della vita: quello del dolore, della felicità, della morte, calibrandoli sul metro dell’equilibrio e della forza. Attraverso quest’opzione l’uomo ritroverebbe la possibilità di essere all’altezza della sua finitezza senza promesse di metafisiche salvezze. Da tale intuizione dovrebbe sorgere la ricerca di uno stile di vita che esprima la conquista di una misura e di un equilibrio con la realtà che ci circonda. Pertanto viene meno ogni discorso su una trascendenza di tipo cristiano e all’uomo non resta che dominare la contingenza. Ciò che ci è concesso è una pace con il finito, anche una speranza, che può al più tradursi – come per i Greci – in “una manifestazione intensa della voglia di vivere” (Natoli 2002, 140).
Gli fa eco Umberto Galimberti, altro notissimo pensatore, per il quale è urgente il recupero della saggezza greca – saggezza pre-cristiana, appunto – la quale “guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura (katà métron)” (Galimberti 2005, 26)» (Ivi, p. 12).
Lo scenario odierno inviterebbe, secondo costoro (ma si potrebbero citare altri pensatori, R. Bodei, G. Giorello, ad es.), a prendere le distanze dalla fede cristiana, perché essa, a dispetto di ogni proclamazione teorica, tarpa le ali delle possibilità, non infinite del resto, che la vita offre a ciascuno. Non conviene, perciò, scommettere sul cristianesimo, che si rivela, spesso, come «antiumano»: il cristianesimo non è per l’uomo: è contro l’uomo. E qui dovrebbe risultare convincente, immediato, il grido di chi non può definirsi in alcun modo cristiano e meno che mai cattolico (Odifreddi, 2007).

b) I campanili vuoti

Se Dio è diventato accessorio, estraneo, straniero, anche i segni esteriori che ne ri-chiamano, per così dire, la presenza – i campanili – non rappresentano più lo strumento condiviso di una interpretazione globale e condivisa dell’esistenza. Essi si sono integrati con il resto del paesaggio urbano, così come il suono delle campane si è perfettamente integrato nella cacofonia ordinaria delle nostre strade. Paradossalmente, proprio nella loro perfetta assimilazione al paesaggio urbano, i campanili diventano estranei all’uomo qualunque e danno a pensare che la fede cristiana oggi non si intenda più da sé. È diventata così disomogenea rispetto ai «modelli» del pensare e del vivere contemporanei che l’atto del credere non viene più percepito come un gesto umanamente significante e rilevante, come una esperienza che «facilita» l’esistenza ordinaria.
Di conseguenza le chiese sono sempre più vuote. Di giovani soprattutto, i quali, in verità, non le frequentano non perché abbiano deciso in un momento puntuale della loro crescita di porsi contro la Chiesa e meno che mai contro Dio, ma perché, non avendo ricevuto dai loro genitori alcuna testimonianza circa la convenienza del cristianesimo, hanno imparato a cavarsela senza Dio. non avvertono il bisogno di rivolgersi a lui, né di ascoltarne la parola. Non sanno, letteralmente, credere né pregare. Sono semplicemente senza fede: increduli.
Di fronte a tutto ciò, la presenza degli anziani è preponderante dentro le comunità cristiane. E i due fenomeni creano un terribile circolo vizioso.
Annota Armando Matteo: «Ci sarebbe bisogno di parrocchie che generino alla fede, che insegnino a credere e a pregare, che favoriscano un primo contatto con Dio ed invece diventano sempre più immobili, andando dietro a quelli di sempre, che, invecchiando, non riescono né vogliono smuoversi dalle loro pratiche di culto, sempre pronti invece ad impedire ogni cambiamento. E il cambiamento impedito ostacola l’avvicinarsi dei giovani.
Come reazione a tale immobilismo, nel frattempo sono state inventate, elaborate e promosse nuove forme di esperienza religiosa: quelle dei movimenti carismatici, delle Giornate mondiali della Gioventù, dei pellegrinaggi. Spesso tali eventi inviano segnali di controtendenza: piazze stracolme, dichiarazioni a favore della religione cristiana e delle sue presenze istituzionali, quantità considerevoli di conversioni. Non si dimentichi, tuttavia, che sono tutte modalità di tipo occasionale, fuori dall’ordinarietà, che allontanano per un momento la vera urgenza della Chiesa odierna, aggravandola: l’immobilità della vita delle parrocchie, che non riescono in alcun modo a farsi carico della prima generazione giovanile incredula» (Ivi,
p. 14).
Senza giovani, però le tante comunità cristiane diffuse sul territorio rischiano di scomparire per il semplice mancato ricambio generazionale.

c) L’arca di «Mosè»

È subito chiaro che cosa significhi questo titolo: si è diffusa una abissale ignoranza nei confronti del cristianesimo, che è diventato «illeggibile», essendosi esaurito il suo ancoraggio con la cultura comune, per molto tempo condivisa oltre il gruppo assottigliato dei suoi fedeli. Viviamo quindi in un tempo in cui la fede non viene compresa nella sua originalità, in cui non riesce più a mostrare la sua forza e la sua bontà. E per questo nessuno la cerca.
Del resto basterebbe sfogliare le pagine di qualsiasi articolo che tratta del cristianesimo, per afferrare quanto poco di esso si conosce, diciamo così, a livello di cultura generale: si confondono le cose più elementari (l’arca di Mosè…), nessuno avverte l’urgenza di una precisione che in altri ambiti sembra maniacale.
«Le poche nozioni apprese al catechismo appaiono sufficienti agli intellettuali di destra e di sinistra per esprimere la loro opinione sui temi della morale, della fede e, se capita, del paradiso e dell’inferno, senza dimenticare il purgatorio. La cultura media in questo settore degli studenti universitari lascerebbe sbigottito più di un teologo che volesse interrogarli: tutto è attraversato con superficialità, con un che di sufficienza rispetto ad una realtà spesso considerata anacronistica, e che la storia sta appunto premurando di consegnare ai musei.
Già solo per questo, è quasi impossibile al cittadino medio occidentale rendere e rendersi ragione delle verità messe in campo dal Vangelo. Più in profondità, poi, un tale “analfabetismo” del cristianesimo tradisce che i modi attuali di pensare, gli stili di vita e le promesse cui viene legato l’esercizio della libertà umana sono ormai fortemente sganciati e irrelati con l’universo valoriale e teologico cristiano.
Non si approfondisce la propria conoscenza del cristianesimo, perché esso non tocca alcun interesse esistenziale. Perciò l’uomo comune non riconosce più con immediata evidenza la forza e l’incremento di umanità che la fede possiede, secondo il Vangelo: non la percepisce più quale felice sostegno al progetto di una vita piena.
Si tratta pertanto di capire che altre – rispetto a quelle cristiane – sono le premesse sulle quali fa leva l’uomo qualunque per ordinare e orientare il microcosmo della sua esistenza, perché altre sono le promesse che hanno fatto breccia nel suo cuore.

3. Come porsi di fronte a questo stato di cose?

Nel dibattito contemporaneo affiorano quattro ipotesi:

– Si potrebbe, anzitutto, negare che le cose stiano così, affermando che la fede cristiana oggi sia ben presente nel cuore dell’uomo e che abbisogni fondamentalmente di un sussulto di entusiasmo, del rintocco di una campana…

– Si potrebbe, ancora, senza negare la pertinenza della tesi qui evocata, richiamare la civiltà occidentale al pericolo che una simile tendenza alla estraneità della fede potrebbe provocare per il suo stesso destino. Abbandonando una radice sulla quale l’Occidente ha costruito il suo presente non può avverarsi che esso stia pensando ad un progetto suicida?

– Si potrebbe anche addebitare tale stato di cose semplicemente alle manie contemporanee di un pensiero vago e relativista, al quale vale la pena di rispondere con una rinnovata riproposizione delle verità cristiane e cattoliche, alle quali ogni uomo di buona volontà e retta ragione dovrebbe prestare la dovuta attenzione.

– Oppure si potrebbe, infine, assumere l’odierna estraneità della religione cristiana senza risentimento e senza desiderio di rivalsa rispetto ad una cultura che non si vuole più sotto la custodia della Chiesa, per assumere, invece, tale stato di cose come stimolo e pungolo per rivisitare il panorama della fede e chiedersi se proprio una simile situazione non suggerisca nuovi registri e nuove modalità per un rinnovato rilancio della scommessa cristiana del Vangelo.

Resta comunque la domanda: Come è capitato che il cristianesimo sia diventato estraneo all’anima occidentale?
Un passaggio, comunque, c’è stato: l’uomo di questo tempo è l’uomo della «post-modernità», convenendo in proposito con chi afferma che la categoria del «post-moderno / post-modernità» indica un trend (passaggio – tensione) caratteristico delle trasformazioni antropologico-culturali, che il mondo occidentale conosce nella stagione recente.
Per capire in che modo il cristianesimo sia diventato estraneo nella terra dove il sole tramonta, è essenziale afferrare che, dagli anni Sessanta del secolo scorso, in modo progressivo e incisivo, gli uomini e le donne hanno iniziato a vedere e ad abitare il mondo in un modo sostanzialmente diverso rispetto a quello dei loro predecessori. Il nuovo stile di vita si è costruito proprio in forte tensione con l’epoca precedente, ampiamente radicata nella tradizione cristiana, la quale perciò ci è diventata estranea.
La mentalità postmoderna ha fatto, cioè, saltare il connubio esistente tra le istanze del cristianesimo e quelle della sensibilità media diffusa, orientando quest’ultima verso una configurazione originale, innovativa, trasgressiva, plurale, dinamica, mentre simultaneamente ha reso opaco, non immediatamente percepibile, il valore del messaggio della fede per la conduzione di una vita buona e riuscita.
Per questo chi intende trovare risorse, tracce, indicazioni e istruzioni per affrontare con dignità il mai semplice mestiere di vivere non riesce più a cogliere nel cristianesimo un valido aiuto e alleato.
L’uomo ecclesiale, normalmente, vive codesto momento storico con grande trepidazione: come è possibile – egli si chiede – un simile tracollo di fiducia nelle possibilità di umanizzazione proprie della fede cristiana? Come è spiegabile una tale trasmutazione dei valori e dei princìpi? Cosa ne è, allora, della verità che la “fede aiuta la vita”?
In realtà, se si desidera comprendere il modo in cui si è giunti a questa situazione, gli spiragli che essa concede per rilanciare la scommessa cristiana e i punti di non ritorno dei quali si deve con buona pace prendere coscienza, è indispensabile decifrare le strutture fondamentali della mentalità corrente, in particolare quelle maggiormente in tensione con la fede.
Il pensiero postmoderno «si può definire provvisoriamente come una prassi intellettuale esteticamente orientata che trova fruttuoso il contrasto insuperabile tra mondi e forme concettuali diversi, come un pensiero del limite che si compiace della differenza, dell’estraneità, della posticipazione delle soluzioni e risoluzioni, come un senso della transitorietà, provvisorietà e interconnessione delle prospettive» (Salmann 2000, 101); e pertanto rivela un ampio tratto antiideologico e antisacrificale che si manifesta «nell’espulsione di ogni trascendenza, assoluto, carattere sacro o intangibile, che tenderebbe ancora a legittimare una istituzione o una pratica sociale. Nel mondo tradizionale, il criterio dell’assoluto e dell’intangibile proviene dalla religione. […Oggi] non vi è più alcun assoluto, alcun ordine che si imponga a tutti» (Lenoir 2005, 182-183).
Tutti gli aspetti qui rapidamente accennati dovranno venire accuratamente analizzati, al fine di rintracciare la via migliore che l’epoca presente offre al cristianesimo per tornare a bussare e a parlare al cuore dell’uomo di questo tempo.
Intanto, per abituarci all’immagine del «postmoderno» potremmo gustarci questa immagine di «umanità», che esprime il profondo mutamento in atto:
« Le nomadi identità moderne sono onde,
più che alberi con radici,
le nutrono il mare e il vento,
non solo la terra,
e ogni giorno si rimette tutto in gioco,
e nulla si custodisce, se non nella trasformazione».
(Ivan Nicoletto, Transumananze, Servitium, 2008, p. 15).