Corso tenuto dal prof. Antonio Lurgio
Appunti da incontri presso la canonica di Canova,
PARROCCHIA SAN PIO X
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PREMESSA
Saranno lezioni di pura e semplice esegesi; cercheremo di capire ciò che questi testi intendono dire; entreremo nelle motivazioni delle comunità delle origini e degli evangelisti e scopriremo che forse loro dicono qualcosa a cui noi non siamo abituati.
Quanti brani riportano le cosiddette parole dell’istituzione dell’Eucarestia nel Nuovo Testamento?
Ci sono quattro brani: Paolo nella prima Lettera ai Corinzi, e i vangeli di Marco, Luca, Matteo. Ci troviamo di fronte a 4 versioni differenti: Paolo e Luca appartengono ad una tradizione che nasce al di fuori della Palestina; Marco e Matteo ad una tradizione ebraica.
Per quanto riguarda l’evangelista Giovanni, troviamo una fraseologia simile nel capitolo 6, 50-59.
Mettiamo a confronto i 4 testi per quanto riguarda il pane:
MATTEO 26,26 MARCO 14,22
Mentre mangiavano, Gesù prese del pane, lo benedì, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo» Mentre mangiavano egli prese del pane, e dopo averlo benedetto, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo».
In Matteo c’è “prendete e mangiate”
in Marco l’invito a mangiare non c’è
LUCA 22,14-16.19 PAOLO 1 Cor 11,23-24
Quando fu giunta l’ora, si mise a tavola assieme ai suoi apostoli. E disse loro: «Ho desiderato tanto di mangiare questa Pasqua con voi, prima di soffrire!…».
Preso il pane, rese grazie, lo spezzò e lo distribuì loro dicendo: «Questo è il mio corpo che viene offerto per voi. Fate questo in memoria di me». Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lospezzò e disse: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me».
In Marco e Matteo, Gesù benedice; in Luca e Paolo, Gesù rende grazie (benedire appartiene alla cultura ebraica, rendere grazie a quella pagana).
Paolo precisa: “Nella notte in cui fu tradito” (nella liturgia abbiamo preso proprio questo).
Tutti e quattro hanno lo spezzare il pane; questo mi fa venire in mente la famosa Fractio Panis, che è la prima forma della celebrazione della fede cristiana.
Sia Luca che Paolo terminano con: “Fate questo in memoria di me”.
Ora mettiamo a confronto i 4 brani per quanto riguarda il calice con il vino:
MATTEO 26, 27-29 MARCO 14, 23-25
Poi, preso il calice, rese grazie e lo diede loro dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, della nuova alleanza, il quale sarà sparso per molti in remissione (cancellazione) dei peccati.
Io vi dico che non berrò più di questo frutto della vite, fino a quel giorno in cui ne berrò del nuovo, insieme a voi, nel regno del Padre mio». Poi, preso un calice, dopo aver reso grazie, lo dette loro e ne bevettero tutti. E disse: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è sparso per molti …
In verità vi dico: io non berrò più del frutto della vite, fino al giorno in cui ne berrò del nuovo nel regno di Dio».
In Matteo e Marco, abbiamo la benedizione per quanto riguarda il pane e rendere grazie in relazione al calice
In Matteo c’è l’esortazione a bere dal calice; Marco, invece, dice che bevvero tutti.
LUCA 22,17-18.20 PAOLO 1 Cor 11,25
E prese un calice, rese grazie e disse «Prendete e distribuitelo fra di voi; poiché vi dico che d’ora in poi io non berrò più del frutto della vite, finché non sia venuto il regno di Dio».
E prese pure il calice, dopo aver cenato, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che è sparso per voi». Così pure dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue: fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me».
Altre differenze: versato per molti, versato per voi; Paolo non ha alcuna di queste espressioni.
Paolo, sia per il pane che per il calice, dice: “Fate questo in memoria di me”; Luca lo dice in relazione al pane.
VANGELO DI MATTEO 26, 17-32
Andiamo indietro di alcuni versetti, per vedere
cosa succede prima della “cena”.
v. 17: Il primo giorno degli azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: Dove vuoi che ti apparecchiamo per mangiare la Pasqua?
Il pane azzimo è il pane senza lievito. Ed è il primo giorno degli azzimi che i discepoli vanno da Gesù per chiedergli dove avrebbero dovuto preparare per la cena di Pasqua.
Non è Gesù che ha intenzione di fare la cena, ma sono i discepoli che ricordano a Gesù che è Pasqua e che è il caso di preparare per la cena.
L’ultima cena di Gesù è stata una cena pasquale? Giovanni, parlando della Pasqua, dice “Pasqua dei Giudei”. E’ un modo di dire di Giovanni, per affermare che quella Pasqua non è la Pasqua di Gesù.
Questa festa degli azzimi la troviamo nell’Esodo 13,7: “…per sette giorni mangerai pani azzimi; non si veda niente di fermentato presso di te, né alcun lievito in tutto il tuo territorio”.
Nei quartieri ortodossi, i preparativi per la Pasqua sono meticolosi: ogni ebreo pulisce tutta la casa e tutte le pentole per togliere qualsiasi frammento di pane lievitato. Il primo giorno degli azzimi ricorda la liberazione dalla schiavitù in Egitto. Lo troviamo in Esodo 12,15-20: “Per sette giorni Voi mangerete pane azzimo; anzi, fin dal primo giorno voi toglierete ogni lievito dalle vostre case; poiché tutti coloro che, fra il primo e il settimo giorno, mangeranno qualcosa di lievitato, saranno recisi da Israele”. Più avanti si dice:”Osservate gli azzimi, perché in questo stesso giorno io ho fatto uscire le vostre schiere dal paese d’Egitto; osserverete questo rito di generazione in generazione il primo giorno degli azzimi”.
v. 18: Gesù rispose: Andate in città, da un tale, e ditegli: “Il Maestro dice: il tempo mio è vicino, verrò da te a fare la Pasqua coi miei discepoli”.
Gesù rispose: “Andate in città da un tale” (bisognerebbe tradurre: andate in città dal tale): infatti è una persona conosciuta da Gesù e dai discepoli, probabilmente è un discepolo, ma rimane a noi sconosciuto.
Si sta avvicinando il tempo di Gesù: è vicina la Pasqua di Gesù, non quella dei Giudei; la Pasqua di Gesù è la Pasqua di una nuova liberazione.
In Es 12,3 e seguenti, Mosè dà le indicazioni per fare la Pasqua. Dice che bisogna procurarsi un agnello, maschio, di un anno, senza difetti e che non dev’essere spezzettato; dice come deve essere cotto, come mangiarlo.
Questo agnello sacrificale non viene ucciso in espiazione di qualcosa, ma deve essere mangiato perché possa dare la forza per il cammino di liberazione, per il cammino dell’esodo
Ecco allora tutti questi parallelismi: primo giorno degli azzimi; il tempo è vicino, ma è quello di Gesù; Gesù come agnello che deve essere mangiato, per poter fare il cammino dell’esodo della nuova Pasqua, della nuova liberazione.
Gesù ha detto: “Farò la Pasqua da te con i miei discepoli”. Fare la Pasqua ha due significati: celebro la Pasqua, faccio l’agnello. Nel vangelo, Pasqua significa esattamente l’agnello che viene immolato.
Verrò da te a fare la Pasqua significa celebro la Pasqua da te, però faccio io l’agnello che viene immolato.
v. 19-20: “Quelli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Sicché, quando fu sera, si mise a tavola insieme coi dodici”.
I discepoli prepararono secondo gli ordini impartiti da Gesù. Il verbo ordinare compare 3 volte nel vangelo di Matteo:
• ingresso di Gesù in Gerusalemme (Mt 21,6): “I discepoli andarono e fecero come loro aveva comandato Gesù”;
• in questa occasione, cioè per i preparativi per la Pasqua (Mt 26,19): “Quelli fecero come aveva loro ordinato Gesù”;
• monete del tradimento di Giuda (Mt 27,9-10): “Così si avverarono le parole del profeta Geremia: «Hanno preso i trenta denari d’argento, prezzo del venduto, mercanteggiato dai figli d’Israele, e li hanno dati per il campo del vasaio, come il Signore mi aveva ordinato»”.
“Venuta la sera”: è la stessa espressione che troviamo in Mt 27,57: “E fattosi sera, venne un uomo ricco di Arimatea, chiamato Giuseppe”; ed è la stessa espressione usata per la deposizione e la sepoltura di Gesù. Il collegamento che l’evangelista fa è che Gesù va incontro alla morte, però come colui che dona la vita per i suoi. Quindi la morte non è una morte accidentale, non è una morte subita; in questa morte Gesù non è la vittima passiva; questa morte celebra Gesù come colui che dona la vita per i suoi.
Gesù è a mensa con i dodici:
sono i dodici che diventeranno i suoi discepoli; 12 è l’Israele messianico: simboleggia le 12 tribù d’Israele; i discepoli simboleggiano tutto il mondo pagano.
v. 21-22: E mentre mangiavano disse: «In verità vi assicuro: uno di voi mi tradirà». E, molto rattristati, presero a dirgli uno dopo l’altro: «Sono forse io, Signore?»
La cena ebraica ha una sua struttura precisa: cibi, ingredienti e riti particolari. Qui l’evangelista dice semplicemente “mentre mangiavano”; tra le altre cose, manca l’agnello. Siamo davanti ad un inizio di cambiamento, siamo davanti ad una sostituzione.
Gesù, con i suoi, non sta celebrando la Pasqua ebraica, ma la Sua Pasqua. Per quanto riguarda i cibi presenti sulla tavola, l’evangelista cita solo il pane ed il vino.
“Mentre mangiavano”: stanno mangiando non Gesù, ma con Gesù.
“In verità vi dico” significa: vi assicuro, ciò che dico è certo, ciò che dico ha un fondamento. E’ un Gesù che sta dicendo qualcosa d’importante: “uno di voi mi consegnerà, mi tradirà”.
Profondamente rattristati: quest’espressione è già comparsa in Mt 19,22: “Ma il giovane, udite queste parole, se ne andò rattristato, perché aveva molti beni”. L’evangelista lega l’atteggiamento rattristato dei discepoli a quello del giovane ricco che possedeva molti beni, e non voleva venderli; era posseduto dalle molte ricchezze, non ha seguito Gesù e si è rattristato.
L ‘evangelista vuol far capire che nel gruppo dei discepoli di Gesù c’è chi non è disposto ad andare fino in fondo per seguire Gesù.
“Sono forse io, Signore?”: Nessuno pensa di essere il traditore; e invece nessuno di loro ha fatto propria la prima Beatitudine; questi discepoli sono animati dal desiderio di supremazia. In realtà tutti sono traditori perché tutti lo abbandoneranno.
v. 23: Ma egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è lui quello che mi tradirà»
Nella cena pasquale, ogni commensale aveva il proprio piatto; qui c’è un unico piatto come nelle cene normali. Gesù dice: «Colui che mette con me la mano nel piatto, mi tradirà»; essendoci un unico piatto, se vogliono mangiare, tutti mettono la mano dentro, quindi, tutti sono traditori.
Chi ascolta, va con la mente al Salmo 41,10: “Anche l’amico in cui confidavo, anche lui che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno “, cioè mi abbandona. Con questo richiamo l’evangelista anticipa quello che accadrà fra qualche versetto: tutti, abbandonatolo, fuggirono.
v. 24 “Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai all’uomo da cui il figlio dell’uomo è tradito: sarebbe stato meglio per lui che non fosse mai nato!”
Guai: non è il “guai a te” come minaccia di punizione, è il lamento funebre. Gesù non maledice, ma piange come morta una realtà, in questo caso una persona (vedi Matteo, capitolo 23: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti»).
Gesù sta piangendo Giuda come morto. Ma chi ha ucciso Giuda? Giuda viene ucciso dal suo desiderio di ricchezza.
Qui è presentato un confronto fra il Figlio dell’uomo e l’uomo. Chi è il Figlio dell’uomo?
Gesù si presenta sempre come il Figlio dell’uomo. Il Figlio dell’uomo è colui che ha raggiunto la pienezza della maturità umana, grazie al dono dello Spirito e all’azione dello Spirito; cioè questo uomo riceve una comunicazione di vita e di amore e la dispensa agli altri. Quindi è l’uomo che ha raggiunto Ia sua pienezza, l’uomo maturo, adulto, l’uomo rinnovato dallo Spirito, capace di comunicare questo spirito di vita. Ciò non è un privilegio di Gesù, è una condizione che ogni uomo può raggiungere basta che sia disponibile ad accogliere il dono dello Spirito e poi a ridonarlo agli altri.
Chi è l’uomo?
L’uomo sarebbe Giuda, colui che non ha realizzato se stesso, e si è chiuso all’azione dello Spirito. Allo Spirito preferisce il denaro, alla vita preferisce la morte. Tradendo il Figlio dell’uomo, Giuda in fondo tradisce se stesso; tradendo se stesso è come se abortisse la propria vita. Quella di Giuda è una vita inutile; ecco perché sarebbe meglio che non fosse mai nato.
Sia Pietro che Giuda tradiscono Gesù. Nel Capitolo 10, nella lista dei nomi dei discepoli, questi due sono il primo e l’ultimo dei chiamati, a significare che tutti tradiscono Gesù. Pietro ne fa di tutti i colori, però resta nel gruppo e poi viene recuperato da Gesù. Giuda si confessa, si pente, fa pure penitenza restituendo il denaro, ma poi si suicida. Giuda è andato a pentirsi nel tempio dove si è decretata la morte di Gesù; avrebbe dovuto andare da Gesù, come aveva fatto Pietro. Ancora una volta Giuda non ha capito, ha sbagliato direzione, va dove non sarebbe mai dovuto andare; ecco, perché resta definitivamente fuori.
v. 25: E Giuda, che lo tradiva, prese a dire:”Sono forse io, rabbì?” Gli rispose: “Tu l’hai detto”.
Gli altri discepoli avevano chiesto: “Sono forse io, Signore?” Giuda usa la parola “rabbì”, che è il maestro della tradizione giudaica.
“Tu l’hai detto”: questa espressione appare tre volte nel vangelo di Matteo e sempre in relazione alla morte:
qui, davanti a Giuda (Mt 26,25);
davanti al sommo sacerdote Caifa: “Ti scongiuro per il Dio vivente di dirci se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. Gesù gli rispose: “Tu l’hai detto”. (Mt 26,63-64);
davanti al governatore Pilato: “Sei tu il re dei Giudei?” Gesù gli rispose: “Tu lo dici!” (Mt 27,11)
Dopo questa introduzione, molto importante per capire un po’ in che clima sta avvenendo la Pasqua di Gesù, iniziamo con il versetto 26.
v. 26: Or mentre mangiavano, Gesù prese il pane, lo benedì, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo»
“Mentre mangiavano”
è la stessa espressione del versetto 21 che diceva: “Venuta la sera si mise a mensa con i dodici e, mentre mangiavano, disse: «In verità, uno di voi mi tradirà»”.
Qui, mentre mangiavano prese un pane… Questo “mentre mangiavano” è la risposta di Gesù all’azione del traditore, al tradimento di Giuda.
Per capire bene questi brani dell’istituzione dell’Eucarestia, bisogna andare a leggere i brani della cosiddetta moltiplicazione dei pani; i termini sono gli stessi. Abbiamo due condivisioni dei pani nel vangelo, la prima dove mangiano 5000 uomini e avanzano 12 ceste, la seconda dove mangiano 4000 uomini e avanzano 7 ceste; una avviene in territorio ebraico, l’altra in territorio pagano.
1) Matteo 14, 13-21: territorio d’Israele – Gesù benedice i pani (verbo teologico);
2) Matteo 15, 29-39: in terra pagana – Gesù rende grazie, ringrazia. E’ un verbo laico; tutti capiscono.
In terra d’Israele Gesù benedice, in terra pagana ringrazia. Perché questa differenza? Benedire faceva parte della cultura ebraica: l’ebreo benediva ogni cosa.
Quando noi siamo a messa, sentiamo le parole dell’Istituzione: “Questo è il mio corpo dato in sacrificio per voi”. Una cosa è dire “dato per voi”, altra cosa è dire “dato in sacrificio per voi”. Perché questa aggiunta? Si è fatta l’aggiunta per conservare sia la cena che l’idea di sacrificio e, per salvarle tutte e due, si è cambiato radicalmente il significato dei testi evangelici. La versione latina ufficiale della riforma liturgica conciliare non ha la parola sacrificio.
Mentre mangiavano, abbiamo detto, è la risposta di Gesù al tradimento di Giuda e al tradimento di tutti quanti gli altri.
Mentre mangiavano: Cfr. Gv 12,1-9: qui si parla di un’altra cena, quella di Betania. Marta serve a tavola, Lazzaro è uno dei commensali, Maria unge i piedi di Gesù con profumo di nardo puro, costoso. Risposta di Gesù alle rimostranze di Giuda sui soldi, secondo lui, male spesi. Gesù prese un pane: Matteo scrive per cristiani che prima erano ebrei; presenta questa cena come sostituzione del patto di alleanza. Un ebreo pensa subito al Libro dell’Esodo 24,7, Mosè prende il libro dell’alleanza; qui Gesù prende il pane. Il pane, nella tradizione giudaica, simboleggiava anche la legge; mangiare il pane significava assimilare la legge, assimilare la Torah.
L’evangelista sta presentando questa cena come sostituzione dell’alleanza antica, mosaica. Ecco motivato il ricorso al Libro dell’Esodo. Per gli ebrei l’alleanza mosaica consisteva nell’accettazione di un libro, delle sue leggi, cioè nell’accettazione di un codice esterno all’uomo; per gli ebrei era importante l’osservanza della legge.
Per i cristiani l’adesione a Gesù deve avvenire come adesione interiore, assimilativa non di un codice, ma di una persona, di una vita. Come? Attraverso il mangiare il pane.
Questo brano ci fa andare al profeta Geremia 31,31-34: “Verrà un giorno cui io stipulerò con la casa d’Israele un ‘alleanza nuova, non scritta sulla pietra, ma scritta nel cuore”.
L’evangelista cerca di far capire che lì sta avvenendo, qualcosa d’epocale: Gesù non sta ripetendo la cena dell’antica Pasqua, quella dell’alleanza mosaica, ma Egli dà vita ad una nuova cena. Qui manca l’elemento importante della cena pasquale ebraica, manca l’agnello. L’assenza dell’agnello in questa cena è dovuta al fatto che l’agnello che si sta dando ai suoi è Gesù. Egli trasmette ai suoi la sua stessa vita.
Gesù prese un pane: .
significa prese un pane lievitato. Se fosse la cena ebraica, l’autore avrebbe dovuto dire “Gesù prese un azzimo”. Gesù sta facendo qualcosa di radicalmente nuovo, per cui in questa cena non c’è nulla che possa ricordare la pasqua ebraica.
E’ la seconda volta che Gesù benedice, sempre riguardo al pane: la prima volta è stato nella prima cosiddetta moltiplicazione dei pani.
Gesù non benedice il pane, ma benedice Dio per il pane; ciò significa due cose:
riconoscere il Creatore come origine del pane;
riconoscere che il pane non è esclusiva proprietà del singolo uomo, ma che deve essere condiviso con gli altri, perché questo pane è destinato all’intera creazione. Si deve fare in modo che tutti possano godere del dono di Dio creatore e quindi della creazione.
La benedizione, nel mondo giudaico, è sempre trasmissione di vita, non solo quella generativa, affinché l’uomo possa realizzare pienamente se stesso. Benedire Dio per qualcosa, nella cultura ebraica, significa mettere a disposizione degli altri questo qualcosa. In questo contesto il pane è per i discepoli, a significare che è per tutti coloro che seguono Gesù.
Preso il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli: Gesù si mette a mensa con i dodici, dà il pane ai discepoli, alla comunità ex giudaica ed ex pagana, a tutti coloro che seguono Gesù.
Gesù offre se stesso come pane, affinché tutti coloro che ne mangiano, possano diventare pane per gli altri.
Sono le stesse parole della moltiplicazione (condivisione) dei pani (Mt 14,16). Ai discepoli, che dicono a Gesù di mandare via la folla perché possa comprarsi da mangiare, egli risponde: Date loro voi stessi da mangiare. E’ una frase costruita in modo strano. Questa frase non significa: procurate loro da mangiare, ma date a loro voi stessi, siate cibo per gli altri.
Nell’Eucarestia si prende Gesù come pane, per poi diventare pane per gli altri.
Gesù dice: “Prendete e mangiate”.
Prendere è un verbo che compare 7 volte nel Nuovo Testamento; mangiare: non basta prendere Gesù, bisogna assimilarlo.
Una cosa analoga la troviamo in Giovanni, capitolo 13: Gesù, intinto un boccone di pane, lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota. Giuda prende il boccone ed esce nella notte; l’evangelista non dice che Giuda lo mangia.
Non basta prendere Gesù, bisogna mangiare e assimilare
: questo è importante. Dando il pane, Gesù non vincola i suoi discepoli ad una dottrina, come invece è stato con Mosè che ha vincolato gli ebrei ad un codice, ad una legge da osservare. Gesù, dando un pane ai suoi, si offre come un alimento con cui i suoi discepoli possono nutrirsi. Siamo, quindi, non nell’osservanza di una legge, ma nella comunicazione da parte di Gesù della sua stessa vita. Mosè trasmette ai suoi la legge di Dio; Gesù trasmette ai suoi la sua stessa vita.
Questo è il mio corpo: questo sono lo. Secondo la Chiesa cattolica, in questo momento avviene la transustanziazione: il pane cessa di essere pane per diventare il corpo e il sangue di Cristo. Matteo non è stato al Concilio di Trento e dice un’altra cosa. Gesù si identifica con il pane, il massimo bene che c’è per l’umanità. Il pane, in quanto alimento, non cambia identità, ma rappresenta Gesù. Il pane non diventa Gesù, ma Gesù diventa il nostro pane. Matteo ragiona con categorie giudaiche, non con quelle filosofiche.
Prendete e mangiate… Gesù fa capire ai suoi che la sua morte imminente non sarà una perdita, una sconfitta, ma sarà un fattore di vita per tutta l’umanità, in quanto sarà il nostro pane, il dono più grande che Dio può fare all’uomo.
v. 17: Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro dicendo: “Bevetene tutti…”
“Poi prese un calice …”
Questo termine era già uscito in relazione alla richiesta dei figli di Zebedeo. Quando chiedono a Gesù di sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra, Gesù li interroga: “Potete voi bere il calice che lo sto per bere?” Cioè, siete voi disposti a seguirmi fino in fondo? Il calice allude ai patimenti (uccisione per Giacomo) che avrebbero subito per diffondere il messaggio di Gesù, per seguire il vangelo.
Nel nostro contesto, “prese un calice” significa la morte per martirio; allude alla morte di Gesù.
Rese grazie: benedizione per il pane, ringraziamento per il vino; unendo questi due verbi, benedire e ringraziare, l’evangelista ci vuoI far capire che nell’Eucarestia viene racchiusa l’intera umanità: il mondo ebraico e il mondo pagano. Per l’epoca, questo messaggio di Gesù rappresenta una novità.
Diede loro il calice, dicendo: “Bevetene tutti”. L’invito a bere, e prima a mangiare, ce l’ha solo Matteo.
Nella cena pasquale, ogni commensale aveva il proprio calice; qui c’è un solo calice, dal quale tutti sono invitati a bere. Non è la cena pasquale, dice ancora una volta l’evangelista, è un’altra Pasqua, è la cena di Gesù, è la Pasqua di Gesù.
Anche l’invito a bere è molto importante. Non ha senso mangiare il pane e non bere il calice e non ha senso prendere il pane e il vino senza assimilarli. La vera accettazione del pane la si vede soltanto se io sono disposto a bere il calice. Non è sufficiente dare adesione a Gesù mangiando il suo corpo, occorre anche che questa adesione continui in un cammino di fedeltà, fino anche a dare la vita come Gesù ha fatto. Prendi la tua croce e seguimi, cioè fai la stessa mia vita.
v. 28: “perché questo è il mio sangue della mia alleanza, il quale sarà sparso per molti in remissione dei peccati”.
Sarebbe più corretto tradurre: questo è il sangue che sancisce l’alleanza mia, la nuova alleanza.
Nell’Antico Testamento il sangue era la vita, rappresentava la protezione di Dio. Nel calice c’è il sangue di Gesù, cioè la sua vita. Questo brano si collega anche ad alcuni brani di Giovanni:
6, 53: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non berrete il suo sangue non avrete in voi la vita”
6, 56: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me ed lo in lui”
6, 60: “Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato dissero: «Questo parlare è duro! Chi può ascoltarlo?»”
6, 66: “Da quel momento, molti dei suoi discepoli si allontanarono e non andarono più con lui”.
Il sangue allontana. Puoi mangiare il pane solo se sei disposto a bere dal calice, ad andare fino in fondo.
Questo è il sangue della mia alleanza; anche qui parallelismo con il Libro dell’Esodo, 24, 9-10: Mosè mostra il libro, il codice della legge, il popolo accetta questo codice. Dopo uccide una giovenca, prende il sangue e lo sparge sopra il popolo dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi”.
Gesù usa la stessa terminologia ma sta cambiando tutto per certi versi:
lì era il sangue di un animale, qui è il sangue di Gesù;
lì si trattava di un codice esterno, qui è la stessa vita di Gesù.
Gesù sta cambiando l’antica alleanza; l’alleanza di Gesù sostituisce quella di Mosè. Non si tratta di seguire un codice esterno, come il libro della legge, ma di seguire Gesù che si fa vita, cibo, pane assimilato all’interno dell’uomo. Non l’aspersione di sangue di giovenchi, che tocca la pelle, ma la comunicazione intima del sangue di Gesù, sangue che è vita. Quindi bere al calice di Gesù significa ricevere la Sua vita, per cui potremmo dire che la vita di Gesù entra nell’uomo al punto tale da farlo diventare figlio di Dio, come Gesù stesso.
Versato per molti: in aramaico significa per tutti. L’ alleanza di Gesù non è per un popolo in particolare, ma per tutti coloro che vogliono mangiare il pane e bere il vino; quindi una dimensione universale.
Cfr: Capitolo 53 del profeta Isaia (servo sofferente): sangue versato per molti, anche qui sta per tutti; ma non tutti riescono a dare efficacia a ciò che ricevono.
Non dobbiamo, però, prendere come chiave di lettura il brano di Isaia: Gesù non è l’uomo dei dolori; non è il dolore di Gesù che salva, ma la vita di Gesù. Quello che importa è quello che Gesù ha detto e ha fatto e non ciò che ha sofferto.
Nei primi secoli, il Cristo crocefisso era vestito dei panni regali. I vangeli non spendono una parola sui dolori di Cristo.
Gesù toglie, estirpa il peccato, non si carica di esso. Il richiamo all’Antico Testamento è quasi sempre per un superamento, non deve essere la chiave di lettura dei vangeli. A Mosè non è stata data l’esperienza piena di Dio; solo il Figlio, lo ha rivelato.
“Versato per molti”: si richiama alla cena ebraica, ai salmi che si recitavano, salmi in cui si chiedeva a Dio di riversare il suo sdegno sui popoli che non lo riconoscono e sui regni che non invocano il suo nome. (Salmo, 79,6). Qui succede qualcosa di diverso: il sangue della nuova alleanza è versato per cancellare, condonare i peccati di tutti.
Nel Vangelo di Matteo 27,24-25, Pilato cerca di salvare Gesù. “Or Pilato, vedendo che non otteneva nulla, anzi che il tumulto si faceva maggiore, prese dell’acqua e si lavò le mani, dinanzi al popolo, dicendo: «lo sono innocente del sangue di questo uomo. Pensateci voi». E tutto il popolo rispose: «Il sangue suo cada su di noi e sui nostri figli»”.
Questa frase è stata utilizzata, per la tradizione cristiana, a giustificazione della persecuzione antigiudaica; per gli ebrei questa frase è antisemita.
Si dovrà aspettare il Concilio Vaticano II per leggere che responsabili della morte di Gesù sono soltanto quelli che lo hanno condannato e lo hanno giustiziato, perciò non tutti gli ebrei del tempo, né tutti i romani del tempo, né tanto meno i loro figli.
Il sangue di Gesù, versato per tutti, ricadrà sui popoli non come espressione di vendetta e di ira, ma in cancellazione, in condono dei peccati.
Il verbo versare richiama il battesimo di Giovanni; il Battista battezzerà in Spirito Santo. Il verbo, versare, nella Bibbia, viene indicato sempre per l’effusione dello Spirito. Nel profeta Gioele 3,1 troviamo: “Dopo questo, Io effonderò il mio Spirito su ogni uomo”.
Effondere equivale a versare, quindi Gesù con il suo sangue versato per tutti, comunica la sua vita che è la stessa vita di Dio, che rende capace l’uomo di amare con lo stesso amore con il quale da Dio è amato.
si effonde lo Spirito Santo
Nella cena, sui discepoli che si impegnano ad essere fedeli a Gesù mangiando il pane e bevendo il calice (anche a costo di fare la sua stessa fine), si effonde lo Spirito Santo che li rende come Gesù, cioè figli di Dio. Non è solo la cena, ma è l’esperienza della Pentecoste.
Se l’Eucarestia è tutto questo, perché tutte le comunioni che abbiamo fatto non hanno mai cambiato il mondo? Probabilmente non abbiamo ancora capito che l’uomo cresce nella misura in cui diventa pane per gli altri, che la comunione non è un premio per i buoni. La comunione non serve per la santificazione personale, ma deve diventare espressione di vita per gli altri; ognuno deve diventare pane per gli altri.
Nella nuova alleanza avviene anche un altro cambiamento, importante per quanto riguarda la cancellazione delle colpe. Nella tradizione giudaica, la cancellazione dei peccati, delle colpe dell’uomo avveniva salendo al tempio, offrendo un sacrificio, facendo preghiere; qui avviene solo dando adesione a Gesù. Mentre nel tempio il peccatore doveva portare con sé delle offerte da presentare a Dio per ottenere il perdono dei peccati, qui è Gesù che si offre come cibo e bevanda per cancellare i peccati dell’uomo.
v. 29: “lo vi dico che non berrò più di questo frutto della vite, fino a quel giorno in cui ne berrò del nuovo insieme a voi, nel regno del Padre mio”. E, recitato il cantico, andarono al monte degli Olivi.
lo vi dico che d’ora in poi non berrò più…: Gesù, in questa cena non ha mangiato e non ha neanche bevuto, perché è Lui che si è fatto alimento, che si è donato.
L’evangelista con l’espressione “frutto della vite”, vuol legare questo fatto alla parabola dei vignaioli omicidi (21, 33-46). I vignaioli, che dovevano consegnare il frutto della vite, lo tengono per sé e uccidono tutti quelli che, il padrone invia, e, alla fine, uccidono anche il figlio del padrone. E’ la parabola della morte e termina “lo vi dico, a voi sacerdoti e farisei sarà tolto il Regno di Dio e sarà dato a un popolo che produca frutti”. E’ con questo popolo che Gesù berrà il frutto della vite, che è il vino, simbolo dell’amore e della gioia.
Fino a quel giorno: è il giorno della morte di Gesù. Fino a quel giorno in cui io berrò di nuovo con voi nel Regno del Padre mio. Gesù sta dicendo che alla sua morte seguirà la sua resurrezione. Gesù annuncia la sua morte, ma anche il suo trionfo sulla morte. C’è pienezza di vita, allegria nell’immagine del vino e del bere insieme.
lo berrò un vino nuovo (nuovo in quanto rende vecchio tutto ciò che lo precede), un vino di una qualità eccellente fino a quel momento sconosciuta, perché i discepoli non hanno ancora sperimentato (fatto esperienza) fino a che punto arriva l’amore di Gesù. Lo capiranno dopo la sua morte.
Dopo aver cantato l’inno, escono verso il Monte degli Ulivi.
La cena pasquale terminava con la recita dei Salmi. L’evangelista, per non confondere la cena di Gesù con la cena pasquale giudaica, non dice che venivano cantati i Salmi, ma inni.
Qui, Gesù e i discepoli escono e si dirigono verso il Monte degli Ulivi. Il Libro dell’Esodo, raccomanda di non uscire di casa nella notte della cena pasquale, fino al mattino.(Alcuni pensano che la porta di casa possa essere intesa anche con le mura della città). Altra chiave di lettura per distinguere la cena di Gesù dalla cena antica.
VANGELO DI LUCA 22,14-20
Quando venne l’ora, prese posto a tavola insieme ai suoi apostoli
e disse loro: “Ho desiderato tanto mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia partenza. Poiché vi dico che non la mangerò più, finché non sia compiuta nel regno di Dio”. E prese un calice, rese grazie, e disse: “Prendetelo e fatelo passare fra di voi, poiché vi dico che d’ora in poi io non berrò più del frutto della vite, finché non sia venuto il Regno di Dio”. Poi, preso il pane rese grazie, lo spezzò e lo distribuì loro, dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che è versato per voi”.
Mentre in Marco e in Matteo il sangue è versato per molti, qui è versato per voi. Mentre i cristiani della comunità di Marco e di Matteo potevano benissimo comprendere il significato di molti, questo termine non sarebbe stato compreso nella comunità di Luca.
In Luca questo voi è rivolto essenzialmente ai suoi discepoli. La stessa cosa la troviamo nelle Beatitudini: mentre Marco dice “Beati i poveri in spirito”, Luca ha “Beati voi poveri”. E’ un richiamo immediato alla propria comunità.
Il significato di fondo del testo è lo stesso che in Matteo, però con qualche differenza. Il calice è preso due volte.
Secondo alcuni autori questo testo descrive due momenti diversi:
• una cena normale;
• la frazione del pane.
Una cosa del genere non è inverosimile, è accettabilissima. Forse nelle comunità presenti al di fuori della Palestina, formate in massima parte da ex pagani, la frazione del pane avveniva all’interno di una cena normale, in un momento successivo alla cena normale.
L’evangelista Luca è molto scarno perché vuole mettere in relazione fra di loro la cena e la frazione del pane.
I suoi discepoli devono capire che quello non è un pane qualsiasi, che Gesù non dà il suo corpo, ma il suo corpo spezzato. Questo è importante perché, se io ti do il mio corpo spezzato nel segno del pane, tu, nell’assumerlo, devi a tua volta essere disposto a spezzare il tuo di corpo per gli altri.
Ciò che è importante in questo brano di Luca non è tanto il semplice gesto che fa Gesù (era il gesto: che faceva normalmente anche il capofamiglia nella cena ebraica), ma il fatto che quel gesto racchiude il senso della vita di Gesù. Quindi, ciò che è importante non è spezzare il pane, ma il fatto che Gesù ha spezzato il proprio corpo per gli altri.
Questa è la chiave di lettura offerta ai discepoli per capire la morte di croce: se ti do il mio pane spezzato, segno del mio corpo spezzato per voi, la morte che da lì a poco andrò ad affrontare è il segno eloquente della mia vita donata.
Gesù dice ai discepoli: la croce non è la mia sconfitta, ma il segno della mia vita donata. Gesù ha tutti i diritti di fare quel gesto; il suo è un gesto pieno, con il quale Lui significa e realizza ciò che veramente ha fatto.
E il nostro spezzare il pane che significato ha?
Siamo capaci di trasmettere la vita di Cristo, oppure sono riti vuoti perché non esprimono ciò che il segno vorrebbe dire: il pane spezzato e donato è il segno più eloquente della vita spezzata e donata di Gesù.
Un grande maestro generalmente lascia un proprio testamento. Gesù non ha lasciato né scritti né parole. Quando ha voluto ricapitolare il senso della sua vita, della sua esistenza, ha scelto un segno capace di esprimere esattamente tutto quello che è stata la sua vita. Un pane spezzato e donato è veramente il segno più profondo per comprendere la vita di Gesù spezzata e donata.
Le parole “Fate questo in memoria di me”
riallacciano alla Pasqua ebraica, collegano al rito della Pasqua ebraica. Ogni ebreo, quando celebrava la Pasqua, non celebrava la memoria storica di un evento, ma celebrava la sua salvezza. Ogni ebreo doveva sentirsi come quell’ebreo uscito dall’Egitto. La sua non è una commemorazione storica, ma un’esperienza essenziale, autentica, vera, di salvezza.
Un’esperienza di salvezza nel senso che è stato liberato, e nel senso che deve essere a sua volta liberatore. Se Dio ha liberato gli ebrei dal faraone e se la Pasqua significa essere liberati e diventare liberatore, vuoi dire che non ci può essere e non ci dovrà essere nessun faraone nella comunità d’Israele.
Quando l’evangelista dice: Fate questo in memoria di me, intende dire non fate questo in modo rituale, non ripetete il gesto, ma assumete il mio stile di vita.
In Luca non c’è l’invito a mangiare il pane, ma c’è “fate questo…” che ha lo stesso significato.
Gesù ha dato il suo corpo, lo ha reso evidente nel gesto dello spezzare il pane e chiede la stessa cosa ai discepoli. E’ molto facile trovare gente che sa spezzare il pane, che ripete il gesto, ma sono pochi coloro che sanno donare se stessi, che sanno assumere un grande impegno nella vita.
“Fate questo in memoria di me” non è un comando liturgico o teologico; non si tratta di celebrare con delle parole dei gesti esatti dal punto di vista della dottrina, ma uno dei più grandi impegni della vita. Dovrebbe diventare il banco di prova, di verifica del coraggio, della dedizione, del sacrificio, del servizio del cristiano nei riguardi dei fratelli.
Noi non dobbiamo ridurre l’Eucarestia ad una esecuzione cerimoniale, ma il pane che riceviamo deve entrare nel nostro modo di vivere.
Non è la condizione esterna che rende sacrilega l’eucarestia, ma i cuori gretti, gli egoisti, gli approfittatori, i cuori chiusi agli altri.
Apro una parentesi. Ricordate Marco 7, quando i discepoli interrogano Gesù sulla parabola che ha appena raccontato? Ed egli risponde: Neanche voi siete capaci di capire? Non capite che tutto quello che entra dall’uomo, dal di fuori non può renderlo impuro; è quello che esce dall’uomo che lo rende impuro.
Dal di dentro, dal cuore dell’uomo escono intenzioni cattive, fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza; tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo. Sono queste cose che rendono sacrilega l’Eucarestia.
Anche in Luca, il vino con il richiamo al sangue ha lo stesso significato che ha per Matteo. Il sangue versato da Gesù è un sangue che ha realizzato certamente una comunione fra Dio e l’uomo: l’umanizzazione di Dio e la divinizzazione dell’uomo. La croce dice che Dio non è lontano dall’uomo e che l’uomo non è un verme; la croce dice la grande dignità dell’uomo e la grande dignità di Dio.
Ecco perché Gesù non muore come vittima della collera divina, come si diceva una volta, ma
Gesù muore per il suo amore profondamente umano.
Il calice, pieno di vino rosso, deve richiamare il sangue versato da Gesù sulla croce per liberare gli uomini dal peccato. Nei vangeli sono tutte quelle realtà, quei progetti, quelle mancanze che vanno contro il bene dell’uomo, tutte quelle situazioni che non permettono la felicità dell’uomo. Andando contro il bene e la piena realizzazione dell’uomo, ovviamente vanno anche contro Dio che ha sull’uomo un progetto di felicità.
Gesù si è schierato dalla parte di coloro che hanno lavorato perché l’uomo diventasse sempre più immagine e somiglianza di Dio.
Mentre il sacrificio degli animali avveniva nel tempio e il sangue sacrificale doveva andare verso Dio, il sangue della Croce scende verso il basso, va verso l’uomo.
Gesù dà al gesto del pane spezzato, al gesto del vino versato, alla sua Croce il significato di una vita donata, dicendo ai suoi discepoli: La mia è stata una vita donata per raddrizzare la storia secondo il progetto di Dio; voi dovete fare altrettanto. I discepoli non sono stati capaci di fare come Gesù: hanno spostato il rito in un nuovo tempio, mentre Gesù ha portato tutto fuori dal tempio. Non essendo in grado di portarne il peso perché bisognava essere fedeli fino alla fine, noi abbiamo riportato il gesto di Gesù all’interno del tempio.
Qual è il risulto? Abbiamo fatto delle celebrazioni bellissime, senza cambiare la storia; partecipiamo all’Eucarestia, ma trasformiamo poco la nostra vita e quella degli altri. La liturgia è importante, sia ben chiaro, ma non può sostituirsi alla storia e il messaggio di Gesù è un messaggio di trasformazione.
Se coloro che partecipano all’Eucarestia non danno nulla, non cambiano né la propria vita né quella degli altri, rendono vana l’Eucarestia; quel gesto o rappresenta una vita vissuta, o diventa insignificante.
Partecipare all’Eucarestia significa accettare lo stile di vita di Gesù, l’insegnamento di Gesù e, come lui, lasciarsi spezzare per gli altri.
E’ comodissimo anche per noi ridurre l’Eucarestia al corpo spezzato di Gesù senza la disponibilità a spezzare il proprio. Se faccio questo, allora parlo della presenza di Gesù nell’Eucarestia, faccio diventare l’Eucarestia una cosa personale, la cerco per la mia santificazione personale.
Gesù ha parlato di vita donata, di spezzamento del pane, di versamento del sangue, ma non ha parlato di sua presenza.
Luca termina il suo vangelo con i due discepoli di Emmaus. Ad un certo punto si fermano e lo invitano a restare:
«Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno già sta per finire». Ed egli entrò per restare con loro. Or, mentre si trovava a tavola con essi, prese il pane, lo benedì, e, spezzandolo, lo porse ai due. I loro occhi allora si aprirono e lo riconobbero, ma egli disparve dai loro sguardi. (Lc 24, 29-31)
Resta: i discepoli hanno bisogno della; sua presenza fisica.
Ma Gesù ha promesso: ogni volta che tu spezzi il tuo corpo come pane, lo sono lì. Ogni volta che tu diventi eucaristico, lo sono li con te, altrimenti non ha senso la presenza di Gesù. L’Eucarestia non deve diventare un atto devozionale, ma un atto di coraggio, di impegno personale preso davanti a tutti, di fede forte, di volontà di donarsi. Nel momento in cui si decide questo, si diventa “alter Christus”; allora l ‘Eucarestia diventa effettivamente forza, forza che rientra nella storia con la capacità di trasformare la storia stessa.
Tutto questo si trova anche nella
I LETTERA AI CORINZI DI PAOLO (sarebbe la Il, perché la I è andata persa) capitolo 11, 23-26
lo, infatti, ho ricevuto dal Signore quanto vi ho insegnato, cioè che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Così pure, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue: fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me”. Or dunque, tutte le volte che voi mangiate questo pane e bevete il calice, celebrate la morte del Signore, finché egli venga.
Anche qui si parla di una cena che precede la frazione del pane.
Nel capitolo 11, Paolo parla anche del contegno degli uomini e delle donne nel culto (capo coperto) e del modo di celebrare la cena del Signore. “Mentre vi do queste istruzioni, non posso certo lodarvi: le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio”.
Che cosa stava succedendo nelle assemblee dei primi cristiani? Ci si trovava nelle case, ognuno portava da mangiare, ma non lo metteva in comune: e c’era chi aveva a disposizione molto cibo e chi poco. Le divisioni sociali venivano portate all’interno della frazione del pane, quindi saltava il messaggio di Gesù, saltava il messaggio dell’essere tutti fratelli.
Anche questa non è la cena del Signore. Se non condividi il cibo, non puoi condividere neanche la tua vita.
Questa Lettera di Paolo ai Corinzi ci aiuta a capire iI vangelo di Luca secondo l’ottica interpretativa che abbiamo spiegato.
La Messa dovrebbe incidere nella storia.
Se non lo fa, forse è perché andiamo a fare l’Eucarestia nel tempio e dimentichiamo di farla sulle strade del mondo, come Gesù ha fatto.
Considerazione, a margine, sul rito dell’Eucarestia: che senso ha che usiamo pane non lievitato, se Gesù ha usato pane normale?
VANGELO DI GIOVANNI cap. 6
Abbiamo analizzato i brani di Matteo e di Luca e, brevemente la Lettera di Paolo ai cristiani di Corinto; abbiamo fatto un volo all’indietro di 2000 anni, abbiamo cercato di capire ciò che il testo vuole dire, spogliandoci un po’ di tutto quello che è stato il nostro catechismo, la nostra forma religiosa.
Ora analizzeremo il vangelo di Giovanni, capitolo 6, dove si parla di mangiare la carne e bere il sangue. Poi inizieremo a vedere come questi eventi si sono storicizzati.
Il Capitolo 6 di Giovanni è interessante perché l’evangelista presenta alcune azioni di Gesù, sulla falsariga di quelle compiute da Mosè per il popolo d’Israele.
Dove si trova Gesù in questo momento, lo scopriremo al versetto 59, ma lo anticipiamo. Gesù si trova a Cafarnao (= villaggio di Nun) e precisamente nella sinagoga. Voi sapete che la sinagoga è il luogo dove si trasmette la spiritualità, la teologia, la cultura, in questo caso d’Israele. E qui, all’interno del luogo istituzionale della fede giudaica,
Gesù insegna, ma i suoi insegnamenti non sono in sintonia con la fede d’Israele.
Leggendo questo brano, ci si accorge che Gesù tutto è stato fuorché prudente. Mentre lui insegnava, i Giudei mormoravano contro di lui, perché aveva detto: «lo sono il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41).
I Giudei chi sono? Nel vangelo di Giovanni, i Giudei non sono mai il popolo, ma sono i capi del popolo, i sacerdoti, i membri del sinedrio. Quindi sono i capi del popolo che mormorano contro Gesù.
Qui l’evangelista dice: Attenzione! Tu che ascolti le leggi, và con la memoria al Libro dell’Esodo, al Libro dei Numeri, dove il popolo ebreo nel deserto mormorava contro Dio e contro Mosè. II mormorare, nell’Antico Testamento, deriva dal fatto di non aver prestato ascolto alla parola di Dio.
II popolo d’Israele nel deserto mormora contro Dio e contro Mosè, perché non ha capito il senso della parola di Dio e il gesto di Dio. Cioè, Dio ha liberato il popolo d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto; ma il popolo non ha prestato fede, non ha creduto davvero fino in fondo. Ricordate cosa dicevano? Ci hai liberati dall’Egitto per poi farci morire di fame nel deserto. Non si sono fidati di Dio, non si sono fidati di Mosè, non hanno creduto né alla parola di Dio né a quella di Mosè.
In questo nostro testo è la prima accusa che l’evangelista fa ed è un’accusa molto chiara: quelli che stanno criticando Gesù sono coloro che non hanno prestato ascolto alla parola di Dio, e questi che criticano sono proprio i capi religiosi. Ecco cosa vuoi dire l’evangelista con il verbo mormorare. Quelli che studiano la parola di Dio, notte e giorno, quelli che dovrebbero capire tutto della volontà di Dio, sono proprio loro che non ascoltano la parola di Dio, o meglio, l’ascoltano anche, ma non la capiscono perché l’hanno ingabbiata nei loro schemi e quindi l’hanno travisata.
Quando Gesù si scontra con loro e dice “quello che voi avete fatto in principio non era cosi; voi avete falsificato la parola di Dio”, fa un’accusa gravissima. Per capire la gravità di questa accusa, basta ambientare il tutto ai tempi nostri.
Qui l’evangelista fa già balenare un’idea molto interessante. Dio non è il Dio del passato, non è il Dio sclerotizzato che sta in una nicchia, ma è un Dio del futuro, un Dio della novità.
l Giudei affermano che Gesù ha detto: “lo sono il pane disceso dal cielo”; in realtà, al versetto 33, Gesù non ha detto affatto di essere il pane disceso dal cielo, ma “Il pane di Dio è colui che discende daI cielo e dà la vita al mondo”.
La differenza è notevole; in questo secondo caso, il verbo è un verbo continuativo; la comunicazione di vita va da Dio all’umanità ed è una comunicazione continua di vita, che non ha interruzioni.
La cosa che più sconcerta i Giudei è che Gesù abbia la condizione divina e che la comunichi agli altri. Questo non può essere possibile perché tra l’uomo e Dio ci dev’essere assolutamente un abisso, una separazione; e in questo abisso ci devono essere, per i Giudei, degli intermediari: persone, luoghi, tempi, gesti…
v. 42: E dicevano: “Costui non è forse il figlio di Giuseppe, del, quale conosciamo il padre e la madre; come dunque può dire: «Sono disceso dal cielo»?”. Quando qui si dice “del quale conosciamo il padre e la madre” è da intendere il padre e la madre di Giuseppe, i nonni di Gesù. I Giudei stanno obiettando: Noi conosciamo lui, i suoi genitori, i suoi nonni; come può pretendere di avere la condizione divina? Lui non può che essere ciò che noi conosciamo. Per i Giudei, chi afferma che l’uomo possa raggiungere la condizione divina, non solo è un pazzo insensato, ma è un bestemmiatore. Condannano Gesù perché “tu che sei uomo, ti sei fatto Dio”.
v. 43-44: Gesù rispose: “Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; ed io lo resusciterò nell’ultimo giorno”. Ora, attenzione, qui Gesù li riprende: “Non mormorate tra voi” ed è come se dicesse “Non avete ascoltato, né tanto meno, capito la parola di Dio, quindi la volontà di Dio”. Ripeto, il mormorare significa il non ascolto della parola di Dio, il falsificare Ia parola di Dio, il fraintendimento della parola di Dio. Loro lo hanno fatto e mettono sulla bocca di Gesù una cosa che fino al questo momento non ha detto. Ecco perché Gesù li riprende e li invita ad ascoltare la parola, a scoprire il progetto di Dio.
Qual è questo progetto di Dio?
Gesù sta parlando con i capi del popolo, che non sono suoi discepoli. Essi dovrebbero conoscere l’Antico Testamento, sia le legge di Mosè che i profeti. A quale profeta Gesù fa riferimento ora? AI profeta Geremia che ha un’espressione bellissima su questo progetto d’amore di Dio. E’ Dio che parla ad Israele: “Di amore eterno (= che non viene mai meno, che non crolla mai) ti ho amato e con questo amore ti attirerò a me, per farti sperimentare le mie viscere materne”.
Che cosa sono le viscere materne nella cultura del tempo? Le viscere materne richiamano l’amore creativo, quello della madre, per la quale un figlio è sempre figlio. Qualunque cosa faccia, qualunque sia la sua scelta di vita, non cesserà mai di essere figlio e sarà sempre amato per ciò che è. La madre è colei che ama e accoglie senza niente chiedere.
Dio, come la madre, ama l’uomo cosi come egli è, qualunque cosa faccia.
“Di amore eterno ti ho amato, e con questo amore ti attirerò a me per farti sperimentare le mie viscere materne”: questo è il progetto di Dio sull’umanità.
La stessa cosa dirà soprattutto Luca a proposito dell’amore del padre misericordioso (parabola del Figliol prodigo).
Gesù, ai capi del popolo refrattari a questo progetto, dice: “Smettete di mormorare; riascoltate e capite quello che Dio veramente vuole”.
In questo versetto parla di Padre: “Nessuno può venire a me, se non l’attira il Padre che mi ha mandato”. Cosa significa questa frase? Per andare a Gesù occorre mettersi in sintonia con il Padre. Che cosa vuole il Padre? Quello che abbiamo detto prima. Perciò se ti metti in sintonia, se cominci ad essere strumento di comunicazione d’amore con il Padre, in questa comunicazione d’amore incontri Gesù.
“Ed io lo resusciterò nell’ultimo giorno”. Questo verbo ricorre adesso, ricorrerà nel tema della resurrezione. Bisogna cercare di entrare nella cultura del tempo; qui Gesù sta dicendo una cosa molto importante per gli ebrei.
Quando un ebreo moriva, andava nello sheol (inferi per i latini, ade per i greci), un luogo sotterraneo, una bocca, una cavità all’interno della montagna. Coloro che si erano comportati male andavano alla base, dove non filtrava la luce e le tenebre erano totali; chi si era comportato bene andava più in alto verso la luce. Alla fine del mondo fisico, i giusti, solo i giusti sarebbero risuscitati. Quindi l’ultimo giorno per loro era la fine del mondo. Inoltre la resurrezione era solo per i giusti.
L’evangelista Giovanni riferisce che Gesù cambia tutto.
Nel vangelo di Giovanni, l’ultimo giorno è la morte di Gesù e, naturalmente, la resurrezione, la Pasqua di Gesù. Ultimo in che senso? Ultimo nel senso di giorno definitivo.
Visto e considerato che, secondo l’evangelista Giovanni, la creazione non è finita al settimo giorno, ma continua nell’agire di Gesù; infatti Dio con Gesù e in Gesù continua ad agire. Nella Pasqua di Gesù si raggiunge l’ultimo giorno, cioè il giorno definitivo della creazione, la nuova creazione.
Alla fine della cerimonia funebre si innalza la preghiera “E io lo resusciterò nell’ultimo giorno”. L’ultimo giorno non è la fine del mondo, perché non esiste la fine del mondo nel vangelo, ma l’ultimo giorno è il giorno definitivo, riguarda la Pasqua di Cristo. E, visto e considerato che nella Pasqua di Cristo si fonda la resurrezione di ogni uomo, l’ultimo giorno è il giorno in cui l’uomo fa l’esperienza della morte, della sua trasfigurazione.
Abbiamo detto che lo sheol non è diviso: i giusti vedevano la luce, i cattivi erano in fondo nelle tenebre. Vi ricordate il bellissimo Salmo 23 del Buon Pastore: Tu sei il mio pastore, non manco di nulla, in pascoli erbosi mi fai riposare, ad acque fresche mi conduci…C’è poi una frase stupenda: Se anche andassi per valle oscura, non temerei alcun male perché Tu sei con me.
La valle oscura è lo sheol e, precisamente, la parte dell’assenza di luce, quindi la parte delle tenebre. L’uomo ebreo sta dicendo: io sono convinto, o Dio, che se mi dovessi trovare nella parte più oscura dello sheol, e quindi neanche vedere la resurrezione che è riservata solo ai giusti, io sono sicuro che Tu sei lì con me. Questo scandalizza, certo che scandalizza, ci mancherebbe altro! Ma questo scandalizza Dio o scandalizza la nostra visione di Dio?
v. 45: Nei profeti sta scritto: “E tutti saranno istruiti da Dio; chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da Lui, viene a me”.
Questa citazione Giovanni la prende dal profeta Isaia 54,13. In questo versetto il profeta sta parlando della nuova Gerusalemme e scrive: “Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore”. Giovanni prende la citazione e scrive: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Ha tolto “i tuoi figli”. Isaia è ancora nazionalista, il vangelo di Giovanni no.
Quando trovate una citazione dell’Antico Testamento, andate subito a verificare il brano, perché non è mai uguale.
Che cosa vuoI dire l’evangelista Giovanni a noi? Sia ben chiaro, Israele nella storia ha un grande compito e un grande merito. Il compito ricevuto da Dio era: tu Israele che hai fatto un’esperienza particolare, devi metterti al servizio degli altri popoli per far risplendere la luce e la bellezza di Dio. Se hai fatto esperienza di un Dio che libera, fa capire a tutti gli altri popoli che questo Dio che tu adori, è un Dio di libertà.
Un grande merito: pensate la grande intuizione del sabato; il sabato come giorno in cui riposa non solo l’ebreo, ma riposano anche lo schiavo, l’animale, la terra. Questo è un unicum nella storia dell’umanità; gli schiavi hanno sempre lavorato.
Significa: tu, Israele, che hai sperimentato questo Dio di libertà che ti ha condotto fuori dall’Egitto, mettiti al servizio degli altri popoli, fa risplendere questa idea di Dio, questa esperienza di Dio anche negli altri popoli.
Israele, invece, aveva preso questa esperienza di Dio e l’aveva privatizzata e nazionalizzata, aveva fatto di Dio un Dio nazionale. Ecco il problema grosso: agendo in questo modo, questo popolo si autoesclude ed esclude anche gli altri ovviamente.
A questo punto salta fuori il ruolo di mediazione di Israele, del sacerdozio, del tempio, del culto. Non c’è intermediario tra Dio e l’uomo: chiunque si mette in mezzo, è di ostacolo a questa comunione, a questa relazione.
La citazione di Giovanni era: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Gesù dice: “Chiunque ha ascoltato il Padre…”. Gesù sostituisce Dio con Padre. Per capire questo, dobbiamo fare riferimento alla cultura del tempo. Chi trasmette vita nella cultura ebraica di allora? Il padre è il trasmettitore di vita.
Il vangelo di Giovanni è il vangelo più chiaro dal punto di vista teologico.
Vi ricordate quando Gesù risorto, dice alla Maddalena: Va’ dai miei discepoli e dì loro che lo salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro. Gesù sta dicendo alla Maddalena: Tu che rappresenti la nuova comunità, tu con gli altri non chiamate Padre quel Dio di cui avete già un’idea, ma chiamate Dio solo quel Padre che io vi ho rivelato. Ognuno ha un’idea di Dio diversa dagli altri, ma siamo chiamati a riflettere e ad accettare l’idea di Padre trasmessa da Gesù. Questo è molto importante: Gesù sostituisce Dio con Padre. E dice anche una cosa molto importante: chi ha ascoltato e ha imparato. Non basta solo ascoltare, occorre anche imparare e agire; io imparo da te e così agisco come te.
v. 46: “Non già che qualcuno abbia visto il Padre, eccetto colui che viene da Dio; questi ha visto il Padre”
Qui Gesù non è molto prudente. Aveva già accennato a questo, in Gv 1,8: “Nessuno ha mai visto Dio; solo il Figlio che è nel seno del Padre, lo ha rivelato”. Dobbiamo ricordare che, secondo la tradizione giudaica, Mosè (rappresentante della Legge) ed Elia (rappresentante dei profeti) hanno visto Dio e non sono morti.
Il giudaismo dice: Mosè ed Elia hanno guardato Dio e sono rimasti in vita, come per dire: Mosè ed Elia ci hanno dato una vera esperienza di Dio.
Gesù dice che il Padre non l’ha visto nessuno, perciò Mosè ed Elia non hanno fatto un’autentica esperienza di Dio, ma solo un’esperienza parziale; la loro non è la verità di Dio.
Gesù sta relativizzando tutte le esperienze precedenti di Dio.
L’evangelista sta dicendo che Gesù è l’unico che può parlare con verità su Dio, che però svela come Padre. Solo Gesù ha un’ esperienza vera di Dio perché non è Gesù che assomiglia a Dio, ma è Dio che assomiglia a Gesù.
v. 47: “In verità, in verità vi dico, chi crede ha la vita eterna”.
Gesù non dice “chi mi segue avrà la vita eterna”, ma “chi crede”.
Credere cosa significa? Significa dare adesione a qualcuno, dare adesione a qualcosa. Nel contesto del vangelo di Giovanni, chi dà adesione a Gesù ha la vita eterna; ha, non avrà. Quindi, chi dà adesione a Gesù, ha una vita che per la sua qualità è una vita indistruttibile; non viene mai meno perché è la stessa vita di Dio. Se Dio è eterno, questa vita è eterna.
v. 48: “lo sono il pane della vita”.
lo sono il pane che comunica, che trasmette la vita. E’ vero, perché il pane è quell’alimento che, una volta che viene mangiato, si trasforma in energia, in sangue. Un alimento masticato, non si distingue più dentro di me, diventa me.
lo sono colui che, una volta masticato, alimento la vita dentro di te. Gesù non sta dicendo: lo sono il codice della tua vita, la morale della tua vita, la legge della tua vita. Per inciso, quante volte noi abbiamo trasformato Gesù da pane in legge, e la legge in Gesù? Gesù non è la legge di nessuno, Gesù è il pane dell’uomo.
La legge, la norma sono realtà esterne all’uomo; il pane è quella realtà che una volta entrata fa un tutt’uno con l’uomo, tanto che diventa anch’esso vitale, trasmettitore di vita.
Prima aveva detto: “Chi crede ha la vita eterna”; qui dice: “lo sono il pane che comunica vita”. Non dice eterna, ma solo vita. Perché? Visto che la vita di Gesù è stata una vita donata, una vita che non ha la dimensione del servizio agli altri, della donazione agli altri, non solo non è una vita eterna, indistruttibile, ma non la si può chiamare neanche vita normale. Servizio agli altri = vita indistruttibile; abuso, sopraffazione degli altri = non si può neanche chiamare vita.
v. 49: “l padri vostri mangiarono la manna nel deserto e morirono”
Gesù si sta dimostrando veramente “simpatico” con i dirigenti, con i capi del popolo. Non dice i nostri padri, ma i vostri padri. Gesù ha un altro Padre. Dicendo “i vostri padri”, Gesù si discosta dai padri dei Giudei e lo sta dicendo nella sinagoga.
Per parlare delle generazioni del deserto, delle origini del Popolo ebraico, si diceva sempre “i nostri padri”. Ciò significava riconoscersi discendenti di quei padri.
Abbiamo visto che Gesù prende le distanze; si distanzia dalle loro tradizioni. Una cosa analoga la troviamo in Matteo, nella genealogia di Gesù del primo capitolo. Abramo generò lsacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli… E’ sempre l’uomo che genera, la donna partorisce. In questo generare, viene trasmessa tutta la tradizione, la spiritualità, la cultura; quindi, non solo la vita biologica, ma anche la vita spirituale, culturale.
Quando si arriva a Giuseppe si cambia. Infatti, leggiamo: Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato (è stato generato) Gesù, chiamato Cristo. Non è più l’uomo che genera, ma una donna. Impossibile per la cultura del tempo! Avviene una rottura, ma soprattutto sta dicendo che tutta quella tradizione, iniziata con Abramo e che va sotto il nome di padri nostri, arriva fino a Giuseppe, ma non passa a Gesù. Gesù ha un’altra tradizione, quella del Padre.
Ecco perché Gesù dice “i padri vostri”; vuoi dire: è la vostra tradizione dalla quale Io mi dissocio.
“Mangiarono la manna e morirono tutti”. Nella sinagoga si leggevano l’Esodo, i Numeri, Giosuè, testi molto importanti; si faceva l’esaltazione della liberazione dall’Egitto, dell’ingresso nella terra promessa, ma si ometteva di dire che quella generazione liberata dalla schiavitù era tutta morta nel deserto.
Se quella gente viene liberata dall’Egitto per entrare nella terra promessa e non ci entra significa che l’esodo è fallito. Essi celebrano l’esodo, ma lo falsificano; non dicono che è stato un fallimento, per colpa di coloro che hanno mormorato e che non si sono fidati della parola di Dio. Potete leggere il Libro dei Numeri 11 e 14; Giosuè 5.
Solo i figli nati dopo l’uscita dall’Egitto entreranno nella terra promessa; Mosè avrà un privilegio: dal monte Nebo, una vetta del Fasga, che si eleva dirimpetto a Gerico, potrà vedere tutta la terra promessa; ma neanche lui vi potrà entrare: egli morirà su quel monte.
Gesù sta presentando la sua opera come nuovo esodo
un esodo che non si compie nel passaggio da una terra ad un’altra, ma un esodo che vuoi portare l’uomo ad uscire dall’istituzione giudaica fatta di leggi, di riti, per passare ad assumere il pane che comunica vita.
Il Talmud della tradizione teologica giudaica scriveva: La generazione dell’esodo, quindi la generazione del deserto, non avrà parte del mondo futuro e non risorgerà il giorno del giudizio.
v. 50: “Questo è il pane che discende dal cielo affinché chi ne mangia, non muoia”
Questo pane è un alimento che procede direttamente da Dio, continuamente da Dio, non cessa mai, non si esaurisce mai. Questa comunicazione vitale fra Dio e l’uomo non si fermerà mai per nessun motivo.
CONSIDERAZIONI DI NATURA STORICA SULL’EUCARESTIA
Per quanto riguarda la storia del sacramento ci sono alcune date, dei momenti storici molto importanti da tenere in considerazione. Infatti, una cosa è parlare dell’Eucarestia nei primi tre secoli, altra cosa è parlarne dopo, a partire dal V–VI secolo, o poi a partire dal XIIl secolo, dalla Riforma del Concilio di Trento, o nell’epoca contemporanea. Questi sono alcuni momenti storici focali.
Non si può certamente negare la storicità della Cena, ma ciò che noi ci troviamo davanti nelle quattro versioni (vangeli di Marco, Luca, Matteo e 1^ Lettera ai Corinzi di Paolo) è un’interpretazione teologico-liturgica delle comunità delle origini.
E’ vero che Giovanni non ha l’istituzione della Cena, ma l’intero vangelo è la conseguenza dell’eucarestia. Il suo vangelo ci dice cosa significa essere “eucaristici”. Il vangelo di Giovanni non ha l’Eucarestia, ma possiede l’eucaristicità.
Cosa significa essere eucaristici? Cosa significa fare eucarestia?
Il pasto, Ia cena è di fondamentale importanza, ma occorre comprenderla sempre nel contesto ebraico. Il pasto, per gli ebrei, era particolare: doveva essere fatto in un certo modo, si dovevano mangiare certi cibi, ci si sedeva a tavola con certe persone. Si prendeva il cibo tutti da uno stesso piatto tranne il sabato e le festività. Ciò, però, poteva costituire un problema. Infatti, se una persona non ebrea, un pagano, un impuro metteva una mano nel piatto comune, rendeva impuro il cibo ed anche tutti i commensali. Ricordate in Luca (11, 37-38) il fariseo che ha la cattiva idea di invitare Gesù a pranzo e gli chiede: Perché non ti sei lavato le mani? Perché non hai fatto le abluzioni rituali? E’ meravigliato del comportamento di Gesù e, al tempo stesso, è preoccupato perché, se l’invitato non fa le abluzioni, rende impuro il piatto e rende impuro anche lui.
Ma il pasto, di cui parla Gesù, è un pasto a cui tutti sono invitati (tutti i popoli, gli stranieri, i pagani), e dove si possono mangiare tutti i tipi di animali. Quindi, con Gesù, viene superata la logica del puro e dell’impuro.
Allora, voi capite, se io accentuo l’ottica del pasto, vuoI dire che riprendo l’ottica della creazione. In Genesi Dio crea tutto e vede che tutto è buono (Gn 1). Poi, chissà come mai, qualcuno ha avuto l’idea di stabilire che alcune cose sono pure e altre non lo sono (vedi codice delle impurità del Levitico).
Nel capitolo 7, Marco riporta le tradizioni a cui i farisei sono attaccati e le parole ironiche di Gesù in risposta alle obiezioni dei farisei stessi. Gesù rivoluziona tutto e afferma che tutti i cibi sono puri e che chi si accosta al pasto viene purificato. E’ un pasto da cui nessuno è escluso. E’ un pasto che celebra la creazione. E celebra Dio creatore, Dio della vita. Non celebra il Dio della legislazione, il Dio della Legge che stabilisce che vi sono delle cose pure e delle cose che pure non lo sono.
Questa idea del pasto sarà molto presente nei cristiani dei primi secoli. La stessa testimonianza della Didachè, ma non solo, presenta un momento in cui tutto avviene in comune. Le prime realtà cristiane vivono la totalità di questa realtà: è un intero pasto, dove c’è la cena e c’è la frazione del pane. Il termine “fractio panis” non ha neanche il corrispettivo greco, però la “fractio panis” richiama la tradizione giudaica. Quindi dobbiamo pensare ad una forte componente giudeo-cristiana nelle prime comunità.
Ma torniamo alla Didachè, uno dei primissimi testi della teologia o della catechesi. Una volta la catechesi era teologia, oggi sembra che catechesi non voglia esserlo più.
La Didachè, o dottrina degli Apostoli
è un testo a cavallo fra il I e il II secolo, con una presenza di aramaicità e quindi di tradizione giudaica all’interno. E’ un testo molto importante perché ci presenta la Cena, con le preghiere da recitare prima e dopo il pasto, una fractio panis, ma non ne presenta le parole, in un certo senso. E poi, tra le altre cose, non emerge chi presiede e che cosa presiede. C’è un pasto nella sua totalità – Cena e Fractio panis – c’è questa comunità che prega in un certo modo, ma non presenta un soggetto presidente. Eppure, sia la Didachè, sia altri testi sono convinti di una cosa: di fare dei gesti che in un certo senso richiamano a Gesù. Sono convinte queste prime comunità cristiane che nel gesto della frazione del pane, unito alla totalità della cena, in un certo senso è presente Gesù.
Su cosa non riflettono queste prime comunità? Sulle modalità della presenza. Come Gesù sia presente non è un problema che riguarda le prime comunità cristiane. Secondo alcuni autori, la presenza significativa di Gesù è vista come quella dell’ospite particolare. Ma se Gesù è l’ospite per eccellenza, a chi tocca il ruolo di centralità della mensa? Certamente a Lui. Ecco un motivo per cui non si dice chi presiede quel momento particolare.
C’è un’altra cosa importante. Incominciano ad entrare nelle comunità cristiane anche ebrei che prima erano sacerdoti che esercitavano il servizio sacerdotale, ebrei della tribù di Aronne. Ed è chiaro che si comincia a cambiare.
Inoltre, non tutto fila liscio nelle varie comunità; ricordiamo, per esempio, quella di Corinto.
Questa comunità sarà talmente problematica che costringerà la Chiesa di Roma e la teologia di Roma ad intervenire con Ia famosa Lettera di Clemente. Questa Lettera dice una cosa molto importante: il richiamo ad un’unica Scrittura. Badate bene, per noi è facile perché parliamo di Antico e di Nuovo Testamento, ma allora esisteva solo una Scrittura ed era quella che noi chiamiamo Antico Testamento. Sarà qualche anno dopo che avremo anche il Nuovo Testamento. La Lettera di Clemente non fa altro che riprendere quelli che erano gli elementi della tradizione della teologia giudaica. Quindi iniziano ad entrare quegli elementi specifici particolari del culto giudaico. E questo è il primo problema.
Accade un secondo problema in questi primi tre secoli: l’ERESIA DI MARCIONE. Marcione
, con le sue idee, causa un grosso problema all’interno della Chiesa. Ormai, intorno al II secolo, anche il Nuovo Testamento è completato. A questo punto ci si pone una domanda: ora che abbiamo questo Testamento, cosa ne dobbiamo fare dell’altro? Dell’altra Scrittura, che era l’unica Bibbia che avevamo e che abbiamo utilizzato finora, ora che cosa ne dobbiamo fare? Dobbiamo cestinare il testo dell’antica Alleanza e tenere solo il Nuovo, o aggiungere a quello il Nuovo?
E nella lotta antimarcionita prevarrà l’idea di unire all’Antico il Nuovo. Attenzione! Cessa di esistere l’Antico Testamento come Bibbia ebraica e diventa Bibbia cristiana. Ecco cosa accade in questa risposta marcionita. Fino a quel momento l’Antico Testamento era utilizzato anche nella speculazione teologica come testo tipologico per Cristo; si vedevano nell’Antico Testamento dei testi che rimandavano a Gesù di Nazareth ed avevano quindi una funzione tipologica. Nella risposta a Marcione viene superato questo problema perché l’Antico Testamento diventa esattamente la Bibbia cristiana, con tutto ciò che è connesso al culto giudaico. Potete vedere ancor oggi quanto noi abbiamo nelle nostre chiese che richiama a quel culto; un esempio molto semplice è la lampada che arde continuamente davanti al tabernacolo.
Terzo grosso problema. Non dimenticate che il cristianesimo incomincia ad entrare nel mondo pagano.
Il mondo pagano non è un mondo ateo, è un mondo religioso; quindi il cristianesimo entra in un mondo religioso. E con che cosa vi entra? Vi entra con l’unica cosa che ha: il rito della Cena, della frazione del pane. Non ha altro. Non ha templi, perché ci si ritrova in casa. Non ha sacerdoti, perché la Lettera agli ebrei ha fatto capire molto chiaramente che l’unico sacerdote è Cristo. Quindi quei vecchi sacerdoti nostalgici, che dal giudaismo s’erano converti al cristianesimo e che pensavano di poter esercitare il loro ministero sacerdotale anche nella loro nuova comunità, si sentivano dire “qui si fa altro”.
Tacito, appena vede una comunità cristiana, dice “ma questi sono degli esecrabili superstiziosi”. Perché i cristiani sono “superstiziosi”? Perché sono chiamati atei? Perché non hanno un tempio, non hanno un sacerdozio, non hanno un sacrificio. Ecco il problema di fondo: il cristianesimo entra in un mondo, fortemente religioso, con la povertà della Cena, della Fractio panis.
Giustino sente il dovere di rispondere non solo a Tacito, ma anche a tutti gli altri e, nell’ Apologeticon, dice “guardate che il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici, non ha bisogno di tutte queste cose. Il nostro Dio ha bisogno di uno stile di vita nuovo, sul modello di Gesù”. E riprende un concetto estremamente importante a cui aveva accennato già Paolo, che non ha mai parlato, della fractio panis come sacrificio, perché per lui l’unico sacrificio è la vita dell’uomo. E’ la nostra vita che dobbiamo offrire a Dio in sacrificio di lode.
Ecco allora che Giustino sente il problema di fondo, cioè quello di difendere l’apparente povertà del cristianesimo.
E nel momento in cui si sentirà la necessità di non poter stare più nelle case, perché da un punto di vista logistico occorreva spazio, i primi luoghi che verranno realizzati, saranno
luoghi che anche architettonicamente evidenzieranno il pasto, la Cena.
Quello che, entrando noi oggi in una chiesa, chiamiamo presbiterio, in realtà era il luogo primario, costruito ex novo, dove la centralità era data da un tavolo che si chIamava MENSA. In un secondo momento, a partIre soprattutto dal IV, V secolo, la mensa comincerà ad essere chiamata ALTARE e quel luogo, che prima accomunava tutti, sarà invece il LUOGO DEI PRESBITERI (presbiterio).
E qualche cosa accade, ma all’interno della comprensione dell’Eucarestia, della Cena. Possiamo dire questo di fondamentale: le comunità cristiane delle origini colgono che in questo gesto che loro fanno c’è un richiamo alla storicità di Gesù e soprattutto la consapevolezza della presenza di Gesù.
Sanno benissimo che c’è anche il gesto della violenza. Certo, i primi cristiani parlano di sacrificio, questo è verissimo, ma non dicono che l’Eucarestia è un sacrificio. Arrivano però a dire che fanno memoria del sacrificio di Cristo. Perché? Si parla di sangue; ma già nell’Antico Testamento si parlava di sangue, come di una morte violenta.
Le parole sul pane fanno seguito, alle parole sulla distribuzione del pane.
E questo ci fa andare ai cosiddetti brani “della moltiplicazione dei pani”. Nella prima comunità cristiana si tratta proprio di questo: quando si va a fare la cena, la fractio panis, quando si va a fare l’Eucarestia, bisogna portare qualcosa. Qualcuno, va a mani vuote, e vediamo che alcuni scrittori “teologi” si arrabbiano: “perché vieni a mani vuote e mangi ciò che gli altri hanno portato?”.
Ma, ciò che gli altri hanno portato a cosa serve? Qui viene ripreso il dato vetero testamentario: tutto ciò serve per gli orfani, le vedove, gli ammalati, i carcerati. Quindi l’EUCARESTIA DEVE DIVENTARE ANCHE SEGNO DI CONDIVISIONE. Non si va soltanto a fare un pasto in comune, a celebrare la frazione del pane, a fare memoria del sacrificio di Cristo, a coglierlo, a sentirlo presente all’interno di ognuno, ma si va anche per condividere ciò che si ha.
Ecco allora, ritornano i testi della cosiddetta “moltiplicazione dei pani”. Si deve congedare la folla e mandarla a comperarsi da mangiare? No, no. DategIi voi da mangiare.
E’ in quest’ottica che si può leggere la faccenda storica della colletta della comunità cristiana per la Chiesa di Gerusalemme; che ha sperimentato la fame, la povertà. I primi cristiani comprendono che si può celebrare l’Eucarestia solo se questa viene trasformata in EUCARISTICITA’. L ‘Eucarestia ha senso se si diventa eucaristici. E quindi qui c’è la dimensione della solidarietà, della condivisione.
Nello stesso tempo c’è anche l’aspetto della DINAMICITA’ DEL SACRAMENTO.
L’Eucaristia non è qualcosa di oggettivamente fisso, ma è un ‘esperienza della dinamicità di Gesù di Nazareth: “fate questo…diventa tu, a tua volta, corpo…”. Questo aspetto viene ultimamente ripreso e una icona molto interessante è l’esperienza di monsignor Romero, ucciso proprio nel momento in cui pronuncia le parole dell’Eucaristia. Allora, ecco una considerazione importante: diventa reale la celebrazione dell’Eucaristia nel momento in cui si è disposti ad essere pane spezzato e masticato per la vita degli altri. Tertulliano dice la stessa cosa quando afferma che il sangue dei martiri non fa altro che generare altri cristiani. Diventare pane perché possano a loro volta vivere.
Poi il tempo passa e
la riflessione si sposta e si sofferma anche SUI MODI DELLA PRESENZA.
Si arriva al momento storico in cui sembra, che l’attenzione degli studiosi, anche con posizioni molto diverse, si focalizzi sostanzialmente su come Gesù sia presente all’interno del pane. Cito, come esempio, solo san Bonaventura e san Tommaso che si trovano in un periodo storico particolare. Andava di moda vedere l’Eucaristia in un modo proprio fisicistico; il termine che veniva usato era il “sensualismo”.
Ma la gente cosa pensava? Era ormai esperienza comune della spiritualità dell’epoca, il pensare ad un’Eucaristia, ad un fare la comunione come a un mangiare, anche fisicamente parlando, il corpo di Cristo. E’ contro questo modo di pensare che prenderanno posizione, anzi reagiranno fortemente, san Bonaventura e, con maggior peso, san Tommaso. Ciò è importante perché si incomincerà a recuperare il senso del sacramento.
Ma non c’erano allora i mezzi di comunicazione: il recupero che avveniva nelle facoltà non arrivava alla gente, per cui c’è un momento in cui la gente va per la propria strada, mentre nelle Facoltà teologiche si ragiona diversamente. Viene elaborato il CONCETTO DI SACRAMENTO, ma non avrà un impatto immediato, tanto è vero che quel modo di pensare resisterà e ancora oggi c’è chi ragiona allo stesso modo.
Che cosa accade in seguito? Ad un certo momento, questa separazione tra il popolo di Dio, che pensa con la semplicità della fede, e la riflessione teologica tomistica continuerà o ci sarà un accordo? Per mancanza di comunicazione, la separazione continuerà a sussistere e si arriverà anche alla crisi con Lutero e altri.
Quindi la questione dell’Eucaristia va polarizzandosi verso la Comunione
e perde tutto l’altro aspetto – l’aspetto del pasto, della cena, della convivialità, della comunione, della dinamicità, della condivisione – per concentrarsi su alcuni elementi del “come è presente”, per concentrarsi essenzialmente sul pane e sul vino, che erano gli elementi determinanti, per cui ancora oggi, quando parliamo dell’Eucaristia, immediatamente la nostra mente va alla Messa e alla consacrazione del pane e del vino. E tutto quel mondo di ricchezza delle comunità cristiane dei primi secoli del cristianesimo è stato depauperato.
Alcuni autori hanno detto in modo molto chiaro che se smettessimo di riflettere sul modo della presenza di Gesù e incominciassimo a riflettere sul significato del CENARE CON LUI, forse le cose comincerebbero a cambiare. Ecco il problema importante. SUPERARE LA QUESTIONE DEL MODO DELLA PRESENZA, PER ANDARE ALLA CERTEZZA DELLA PRESENZA. Ma di una presenza con la quale si entra in comunione attraverso la CONVIVIALITÀ DEL PASTO, LA MEMORIA DI CIÒ CHE GESÙ HA DETTO E HA FATTO.