Antonio Lurgio
Appunti da incontri presso la canonica di Canova,
PARROCCHIA SAN PIO X
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ALCUNE FIGURE FEMMINILI LEGATE A MOSÈ
Concretamente, la donna ebrea viveva una dimensione tutta particolare, interna alla casa. Però faceva più gruppo del maschio, faceva rete nella casa e nel quartiere (aspetto che non traspare dalla Bibbia, scritta da maschi).

Le donne prese dai lavori domestici sono esentate da certi obblighi.

C’è quindi discrepanza tra la donna nella società ebraica e la donna nel mondo biblico.

Nel Talmud, l’uomo prega tre volte al giorno per ringraziare Dio di essere nato ebreo, non donna, non pagano. Mentre la donna ha dei meriti se manda il marito e i figli maschi a studiare la Torah.

Sempre nel Talmud: la donna malvagia rende malvagio l’uomo giusto e la donna giusta rende giusto l’uomo malvagio.

Nella teologia jahvista di Genesi 2, ad ADAM (uomo indifferenziato) viene dato l’ordine di non cibarsi dell’albero della conoscenza del bene e del male. La donna lo prende perché bello, gradito e desiderabile.
La letteratura sapienziale ne darà un’interpretazione negativa, considerandola una trasgressione. Eva non compie il gesto per trasgredire, ma solo perché bello, gradito e desiderabile.

L’inizio dell’Esodo è un testo di fondazione della storia delle tribù d’Israele: si riferisce ai 12 figli maschi di Giacobbe (le dodici tribù) e ai settanta discendenti di Giacobbe (tutti i popoli allora conosciuti)

Senza Mosè non ci sarebbe stata storia d’Israele; senza determinate donne non ci sarebbe stato Mosè.

Es. 1, 1-7 i discendenti di Giacobbe = i figli di Israele

La figlia del faraone vede e prova compassione. Insieme a lei altre undici donne.

Troviamo due levatrici – la madre di Mosè (chiamata figlia di Levi) – sorella di Mosè – la figlia del faraone – le sette figlie del sacerdote di Madian (Jetro).

Il faraone, visto il moltiplicarsi della gente ebraica, dà un ordine di vita per le nasciture e un ordine di morte per i nascituri. Ma le levatrici ebree hanno paura di Dio, che ha altri obiettivi, e in quanto madri di tutti i viventi non accettano l’ordine.
1) Le due levatrici (Es. 1, 17) : Sifra=Bellezza; Pua=Splendore
Queste donne disobbedendo al faraone, cambiano la storia.

Iside e Nefti erano levatrici, inviate dal dio Ra per aiutare a far nascere i bambini di Rededjedet: “Lasciate che i bambini vivano”.

Es. 1, 16 sgabello che serviva alla donna per partorire.
Mondo egizio: il dio Tot su queste pietre scrive l’arco di vita del bambino.

Es. 1, 19 erano donne “vigorose-forti-vive”. Etimologia con Eva per cui sono “madri di tutti i viventi”.

Es. 1, 16-22 Il faraone dice di mantenere in vita le femmine e uccidere i maschi, ma le levatrici mantengono in vita tutti disobbedendo all’ordine.

Le levatrici mantengono in vita i bambini, le madri ebree sono “produttrici di vita”.
2) La madre di Mosè.
Dopo le due levatrici è la terza donna. Qui non abbiamo né il suo nome né quello del marito e padre di Mosè.

Es. 6, 20: “Amram prese in moglie Iochebed, sua zia, la quale gli partorì Aronne e Mosè”.

Num. 26, 59: “La moglie di Amram si chiamava Io chebed, figlia di Levi, che nacque a Levi in Egitto; essa partorì ad Amram Aronne, Mosè e Maria loro sorella”.

Es. 2, 1-2 Importante la discendenza di Mosè e il ruolo della tribù di Levi (cfr. Dt. 33, 9-10).

Ruolo di Mosè è: ricevere la Torah al Sinai e insegnarla al popolo.

La madre di Mosè viene chiamata “figlia di Levi” in confronto con la “figlia del faraone”, entrambe madri di Mosè. Es. 2, 10
Cfr. Gn. 1, 4: “Dio vide la luce, essa era cosa buona”.

Testo rabbinico: “Quando Mosè nacque, l’intera casa venne inondata di luce”.
Indice della futura missione di Mosè?

Es. 1, 22: il faraone ordina “Gettate ogni nato maschio nel fiume”.
La figlia di Levi costruisce una piccola barca simile all’arca di Noè…..

Es. 2, 4 Ruolo della sorella di Mosè “Sua sorella stava (in piedi) a distanza per sapere cosa gli sarebbe stato fatto”.

Stare ferma in piedi (restare fermo/restare saldo) indica spesso una situazione senza speranza, un momento di crisi che nessun essere umano può risolvere.

Cfr. Es. 14, 13 Davanti il mare degli giunchi e dietro il faraone, Mosè rincuora il popolo dicendo: “Non abbiate paura, resistete, restate saldi allora vedrete la salvezza del Signore”.

Questa sorella di Mosè non ha nome. Chi è?

Cfr. Es. 2; 15 (canto di Myriam) Duplice salvezza dalle acque: prima Mosè e poi tutto il popolo.

Es. 2, 6 Entra in scena la figlia del faraone. L’ordine del padre è chiaro!
Es. 2, 7 Entra in scena la sorella di Mosè.

Figlia del faraone occupa la parte centrale del racconto: gli impone il nome come fosse suo padre/madre

Es. 2, 10: “Io l’ho tirato fuori dall’acqua, e lui diventò suo figlio”. Il nome più che il bambino fa riferimento all’azione della figlia del faraone.

In questo capitolo il termine bambino ricorre 7 volte come levatrici nel capitolo precedente.
Levatrici e bambino hanno la stessa radice.

La compassione della figlia del faraone salva Mosè dalle acque e la compassione di Dio salva il popolo dalle acque…
3) Le sette figlie del sacerdote di Madian.
Incontro presso un pozzo (topos teologico) per l’incontro con l’altro sesso (e non solo).

Gn. 24,1-61 Abramo siede presso il pozzo e deve trovare una moglie per Isacco… arriva Rebecca…
Gn. 29,1-30 Giacobbe che sta fuggendo da suo fratello Esaù… incontra Rachele..

Zippora è conosciuta come l’unica moglie di Mosè Es, 2, 21. Suoi compiti: partorire (Es. 2,22) e salvare la vita di Mosè (Es. 4, 24-26).

Secondo Es. 2,15-22 è madianita; Nm. 12,1 si dice che Mosè ebbe una moglie etiope; Gdc. 1,16 e 4,11 si parla di un suocero kenita di Mosè.

Cfr. Gn. 4, 1-16 stirpe kenita discendente da Caino, ma protetta da Diio. Correlazione fra keniti e Madian perché la divinità di Israele proviene da Madian.
I keniti sono amici di Israele cfr. 1Sam. 15, 6

Il matrimonio di Mosè con una straniera dice l’accettazione della diversità ed è contro la chiusura del post-esilio di Esdra e Neemia.

Zipppora=uccellino.

Es. 4, 24-26 Funzioni sacerdotali di Zippora. Versetti interpretativamente oscuri.
Unica volta compare “sposo di sangue”.

Es. 4, 21-23 Dio manda Mosè in Egitto e lì deve dire al faraone che Dio farà morire il suo figlio primogenito Cfr. la risposta all’uccisione dei figli degli ebrei….

“Allora tu dirai al faraone: Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire. Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito”.

Nell’area arabica gli uomini dovevano essere circoncisi prima del matrimonio.

Zippora compie il rito salvifico del sangue attraverso la circoncisione.

Questo fatto è ignorato da Giuseppe Flavio e da Filone (cioè dalla fonti antiche).

Forse perché Zippora ha compiuto un’azione riservata ai maschi sacerdoti?
Zippora qui agisce al posto di suo padre, sacerdote

La circoncisione eseguita da una donna era una tradizione molto antica e considerata ormai superata.

E in questo caso si tratta di una situazione di particolare emergenza.

La donna supplisce l’uomo solo in caso di necessità/emergenza?
Interessante e importante:

Zippora: funzioni sacerdotali Myriam: funzioni profetiche
Questi due ministeri hanno validità solo per il periodo dell’esodo.

La difficoltà a far diventare ordinario lo straordinario.

Zippora non è l’unica donna a svolgere la funzione di circoncidere.

2Macc. 6, 10 (p. 1004); 1Macc. 1, 60 (p. 940) Madri che circoncidono i propri figli, come segno di fedeltà alla Torah, in opposizione ad Antioco IV Epifane.
Per questo gesto vengono condannate a morte.

In Es. 18, 27 Mosè prende commiato dal suocero, ma non da Zippora.
Mosè non prende in considerazione Zippora.
La figura di Zippora non è inserita nelle vicende del marito e neanche in quelle del suo popolo.
LE MATRIARCHE
Dio non è solo il Dio dei Padri (Abramo-Isacco-Giacobbe), ma anche delle madri.
E parla alle donne:

– Gn. 16, 7-16; 21, 17-21 Dio parla ad Agar
– Gn. 18, 15 Dio rimprovera Sara che ha riso…

Non esiste in ebraico il termine genitori, ma casa del padre.

Plurale maschile generico in ebraico (per maschi e femmine).
Gruppo femminile, presenza di un solo maschio: grammaticalmente la forma è maschile, ma non si può tradurre solo maschio.
Isacco sposa Rebecca, donna straniera:
“Isacco aveva 40 anni quando si prese in moglie Rebecca, figlia di Betuèl l’Arameo, da Paddam-Aram, e sorella di Làbano l’Arameo” (Gn. 25, 20).

Testo post-esilico (epoca persiana?), periodo della questione dei matrimoni misti (ruolo principale di Rebecca e solo alla fine in modo passivo entra in scena Isacco).

– Gn. 25, 19-34: 27; 33: Lotta fra Giacobbe-Esaù per la primogenitura … eziologia del conflitto fra Israele-Edom

– Gn. 29, 31-30, 24: lotta fra Lia e Rachele mogli di Giacobbe (è solo il desiderio femminile di maternità?)

Abramo (genealogia) capostipite del Regno del Sud.

Giacobbe (genealogia) capostipite del Regno del Nord.

Isacco sposa Rebecca: fusione Nord e Sud.

Il popolo delle dodici tribù fu concepito in modo egualitario da dodici figli maschi nati dalla unione di un unico uomo con più donne.

Gn. 18, 6-8 Abramo e Sara preparano il cibo per i tre ospiti.

– Abramo si sposta da Oriente a Occidente.

– Generazione successiva: anche Rebecca per sposare Isacco (Gn. 24).

– Generazione successiva: anche Giacobbe al contrario per sfuggire al fratello Esaù (Gn. 27) e trovare moglie e poi tornare al suo paese (Gn. 31).

La terra promessa viene percorsa più volte: a Sud è indicato il luogo adatto per il popolo, mentre da Est vengono le mogli e madri (le donne giuste).
Eziologia: periodo post-esilico e questione dei matrimoni misti e identità del popolo.

Ancora discorso eziologico (rapporto fra Israele-Egitto):

– Prima generazione: Abramo in Egitto per sfuggire alla fame (Gn. 12, 10); piaghe al faraone e all’Egitto per liberare Sara (Gn. 12, 17).

– Seconda generazione: a Isacco viene proibito di scendere in Egitto (Gn. 26, 2); ripresa tema bellezza e questione Sara-faraone (Gn. 26, 1-14).

– Terza generazione: Giuseppe venduto dai fratelli (Gn. 37, 36) e dai fratelli per due volte a causa della fame (Gn. 42-43). Dalla intera famiglia di Giacobbe (Gn. 45).
Ismaele, primogenito di Abramo, non diventerà l’erede di Abramo e padre del popolo.

Isacco, primogenito di Sara, sarà l’erede di Abramo e padre del popolo.

Infatti Ismaele e Agar furono allontanati dalla casa di Abramo su pressione/ordine di Sara.

Esaù, primogenito e prediletto di Isacco, non sarà l’erede del padre e il padre del popolo, ma lo sarà Giacobbe che è il prediletto della madre. Il tutto avverrà attraverso l’inganno.

Naturalmente deve intervenire la promessa di Dio (Gn. 28, 10ss).
Fondamentale ruolo femminile.
– Quarta generazione: con la nascita dei dodici figli di Giacobbe si ha il passaggio dai patriarchi al popolo (Gn. 35, 21-26).
Benedizione di Giacobbe (Gn. 49): preferenza per la linea di promessa giudaica.

Luoghi abitati da Abramo: Ebron-Mamre-Bersabea-Negev-mar Morto (è il padre del Sud).

Luoghi abitati da Giacobbe: Bet-El – Sichem-Penuel-Succot… (è il padre del regno del Nord). Solo il sepolcro di Rachele collega Giacobbe alla Giudea.

Isacco fa da collegamento fra Nord e Sud sebbene non vada in Oriente (sarà la moglie che dall’Oriente s sposterà verso Occidente).

Gn. 11, 27-32 Terach padre di Abramo. Gn. 11, 30 Sarai moglie di Abramo e sterile.
Promessa-fiducia-obbedienza-cammino Gn. 12

Difficoltà Gn. 12, 10-13: in Egitto per sfamarsi (abbandono della terra promessa) e presentare la moglie Sarai come sorella per il faraone (abbandono della discendenza).

Abramo sceglie di propria iniziativa ed ha paura: “Uccideranno me, mentre lasceranno in vita te”.

Gn 12, 17: “Ma il Signore colpì il faraone e la sua casa con grandi piaghe, per il fatto di Sarai, moglie di Abram”.

L’intervento di Dio non è per riportare Sarai da Abramo, ma per salvare la donna da un harem straniero in virtù della sua promessa (la discendenza, la nascita del suo popolo…).

Il faraone gli restituisce la moglie, i beni, e lo accompagna alla frontiera. Qui il faraone si è comportato meglio di Abramo.

Importante: fatto analogo in Gn. 20 (Abramo-Sara a Gerar-Abimelech). Gn. 20, 5 anche Sara dice che Abramo è suo fratello (bugia di Abramo e Sara). Al v. 6 certezza che Sara non ha avuto rapporti e quindi Isacco è paternità di Abramo.

Importante: Gn. 26 stessa storia (Isacco-Rebecca e Gerar-Abimelech).

Gn. 12-20-26 la stessa storia è raccontata tre volte.

Importante: Ma allora l’obbedienza pronta di Abramo? E di quale obbedienza e fede?

Gn. 13 litigio fra Abramo e il nipote Lot a causa di terra-pascolo-pozzi. E’ la prima volta nella bibbia.

Separazione dei due (cfr. abbandono della promessa della terra dato che Lot ha scelto la valle del Giordano dove stabilirsi vv. 10-18).

A questo punto Dio deve intervenire di nuovo con la sua promessa ad Abramo di terra-discendenza Gn. 15, 18; 17, 1-8.
I racconti di Agar Gn. 16; 21. Racconto J con elementi P (vv. 3.15-16)
Il prestito della maternità, testimoniato nell’antico Oriente, è assente dal diritto dell’A.T.

Qui è Sara e poi sarà il caso di Rachele e Lea. La madre presa in prestito, di norma la serva/schiava, viene inserita nella famiglia, ma senza cambiare la sua posizione sociale (questo nell’antico Oriente).

Agar invece “appena si accorse di essere incinta, la sua padrona non contò più nulla per lei” (Gn. 16, 4).

Agar vuole mutare i rapporti sociali.

Attenzione-importante: Secondo Es. 21, 7-11 chi riconosce una schiava sessualmente, non può più trattarla come schiava da lavoro. Agar ha interpretato correttamente il suo ruolo.
Abramo ha mancato in questo perché ha ridato Agar a Sara senza mantenerla economicamente, cambiandone di fatto lo status sociale.

A questo punto Sara ne ha approfittato e Agar, incinta, è dovuta fuggire per non soccombere.
In tal modo Abramo e Sara rendono sterile la promessa della discendenza.

Cfr. La non collaborazione dell’uomo (maschio).

Nell’antico Oriente la fuga dalla schiavitù era punita con la morte (non si hanno tali notizie nell’A.T.).

Gn. 16. 7: “La trovò l’angelo del Signore presso una sorgente d’acqua nel deserto, la sorgente sulla strada di Sur e le disse: Agar, schiava di Sarai, da dove vieni e dove vai? Rispose: Vado lontana dalla mia padrona Sarai”

L’angelo del Signore la chiama per nome (è una persona) senza tener conto del suo stato sociale.
Agar sa da dove scappa, ma non sa dove andrà.

Il figlio si chiamerà “Ismael = Dio ascolta” perché deve richiamare alla memoria la sua liberazione dalla “sottomissione” a Sara. Cfr. Es. 3 dove Dio ascolta il grido del suo popolo…

Gn. 16, 16 l’immagine dell’asino selvatico indica il destino di libertà del figlio.

L’ordine dell’angelo di ritornare appartiene allo stadio più antico del testo in conformità con le leggi dell’antico Oriente di non cambiare lo stato sociale: “Le disse l’angelo del Signore: Ritorna dalla tua padrona e restale sottomessa” (Gn. 16, 9). (Cfr. Lettera a Filemone di Paolo).

Il v. 10 successivo, “Le disse ancora l’angelo del Signore: Moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà raccontarla per la sua moltitudine”, appartiene tematicamente al capitolo 21, 18:

“Alzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano, perché io ne farò una grande nazione”.

Questo serve anche a spiegare la seconda vicenda narrata in Gn. 21 con l’abbandono definitivo da parte di Agar e Ismaele della casa di Abramo

JHWH è presente sia durante l’esodo di Israele dall’Egitto che durante la fuga di una schiava egiziana da Israele.

Agar viene cacciata due volte dalla casa di Abramo e sempre per intervento di Sara (Gn. 16, 6; 21, 10ss).
Abramo, più che obbedire a Dio ha obbedito alla moglie Sara.

Cfr. Sacrificio di Isacco (Gn. 22) e cacciata di Agar e Ismaele (Gn. 21, 8-21).

In entrambi i casi c’è il rischio di morte dei fanciulli: Ismaele-primogenito; Isacco-prediletto e portatore della promessa.

– In entrambi i casi Abramo si alza di mattino (Gn. 21, 14; 22, 3).

– In entrambi i casi l’angelo del Signore interviene all’ultimo momento a salvare i fanciulli.
– Entrambi i genitori ricevono una promessa divina.

– Entrambi i racconti terminano con l’assegnazione di una residenza.

L’ebraismo ha spesso letto il brano del “legamento di Isacco” (“sacrificio di Isacco” secondo l’interpretazione cristiana) in chiave collettiva identificandolo con la propria storia di persecuzione e salvato da Dio all’ultimo momento.

Brano di speranza: nonostante tutto, Israele non perirà / finirà / scomparirà.

Gn. 22 non riguarda il sacrificio di Isacco, non è una minaccia a lui, come se Dio avesse in mente di farlo morire.

Se Abramo non dovesse ubbidire, a Isacco non succederebbe nulla.

Dio vuole solo mettere alla prova Abramo. Vuole vedere se Abramo è disposto a sperimentare su di sé ciò che ha fatto agli altri.

– Abramo ha sacrificato due volte Sara, facendola passare per sua sorella e mettendo a rischio la promessa della discendenza da parte di Dio.
Andando in Egitto ha rischiato di perdere la terra promessa.

– Abramo ha sacrificato due volte Agar e con lei suo figlio Ismaele, mandandoli via dalla sua casa ed esponendoli alla morte (e salvati sempre da Dio).

Ora è Dio che mette alla prova Abramo ordinandogli di rinunciare al suo unico figlio (Abramo non sa se Agar e Ismaele sono vivi o morti), il suo futuro e la promessa di Dio.

Abramo supera la prova. L’assenza di Sara da questo brano è dovuto al fatto che ella ha già superato la sua prova che era il credere di restare incinta in quanto ha già partorito.

Gn. 17, 17ss (P) La promessa della nascita di Isacco ad Abramo.

Gn. 18 (J) Apparizione a Mamre.

Perché si annuncia sempre un maschio e mai una femmina?

Siamo in una società patriarcale (maschilista) in cui il maschio resta in casa, mentre la femmina si trasferisce nella casa del marito, e spetta a lui mantenere i genitori nella vecchiaia.
Gn. 19 Lot-Sodoma
Delitto contro l’ospitalità, legge divina, causa della distruzione della città.

Non si tratta di omosessualità, ma dell’uso della sessualità per terrorizzare (cfr. gli stupri nel periodo di guerra…).
Gn. 24, 15ss Rebecca, una moglie per Isacco.

Abramo ha lasciato la propria terra/patria per andare nella terra promessa e vuole che la moglie del figlio, cercata fra la sua casa (= consanguinei) nella prima patria e non nella regione dei Cananei presso cui abita, sia disposta a fare altrettanto.

Non solo, ma non deve neanche cercare di convincere Isacco ad abbandonare la terra promessa per tornare a Ur.

Brano interessante da inserire nel periodo post-esilico durante la questione dei matrimoni misti e contrario a questo uso.

E’ un brano in sintonia con Esdra e Neemia (= purezza etnica) piuttosto che con Rut.

Gn. 24, 16 Rebecca era bella (cfr. la bellezza di Sara e quindi del popolo di Israele), vergine e di buona famiglia. Servizievole, lavoratrice, ospitale (ma sarà suo fratello ad invitare l’ospite a entrare in casa com’era costume all’epoca) e disposta a trasferirsi nella terra promessa.

Gn. 24, 57-59 Rebecca dà il suo consenso a trasferirsi nella terra promessa.

Gn. 24, 60 Benedizione di Rebecca e promessa di una discendenza forte e numerosa come quella fatta precedentemente ad Abramo.

Interessante: in questa benedizione, Rachele viene inserita nella successione di Abramo al posto di Isacco.

Gn. 24, 63-67 l’incontro fra Isacco e Rebecca è raccontato molto fugacemente, ma si nota subito che Rebecca è una donna forte al fianco di un uomo debole.

Gn. 25, 21; 29, 31 Si dice che Rebecca è sterile. La sterilità dell’antenata è un topos teologico visto che riguarda la nascita del figlio a cui sono trasmesse le promesse.

Gn. 25, 19-23 L’oracolo a Rebecca dice l’importanza politica della sua gravidanza in quanto i due gemelli saranno due popoli.
Inoltre il fatto di considerare Rebecca la madre di Giacobbe significa farle rivestire il ruolo della madre di Israele.
Esaù è il prediletto del padre, mentre Giacobbe lo è della madre. “Giacobbe = toccarsi il tallone”.

Gn. 26, 6-7 Isacco-Rebecca si ripresenta la stessa scena Abramo-Sara dal faraone. L’abbandono della moglie per non rischiare la propria vita. Il rischio di rendere sterile la promessa di Dio della discendenza.

Gn. 27, 18-29 Giacobbe ruba la benedizione al padre Isacco con un trucco messo in piedi dalla madre Rebecca e affermando il falso.
Interessante: all’origine della storia del popolo c’è la falsità.

Si ripete la stessa scena di Abramo-Agar-Ismaele. Come allora non è il primogenito Ismaele ad ereditare la promessa. Qui non è Esaù, il primogenito, ma Giacobbe ad ereditare la promessa.

Gn. 27, 46; 28, 1-5 Rebecca non vuole che Giacobbe sposi donne hittite: problema dei matrimoni misti … epoca post esilica.

Giacobbe viene mandato a cercare moglie non nella casa del nonno paterno Abramo, ma nella casa del nonno materno a “prendere moglie tra le figlie di Làbano, fratello di tua madre”.

Rebecca entra nella genealogia di Israele come Abramo-Sara, allo stesso livello.

La storia di Giacobbe si svilupperà nel Regno del Nord e, per il periodo in cui lavorerà per procurarsi le mogli, nel territorio mesopotamico.

Gn. 28, 10-22 Incontro di Giacobbe con Dio (il sogno della scala…) e promessa di Dio a Giacobbe della terra di Canaan e della discendenza. Dio conferma a Giacobbe le promesse fatte ad Abramo.

Gn. 29, 1-14 Giacobbe incontra Rachele (figlia minore di Libano) presso un pozzo.

Gn. 29, 15-30 Interessante il racconto: Làbano imbroglia Giacobbe, come costui aveva fatto con il fratello Esaù, e alla fine Giacobbe è costretto a sposare entrambe le sorelle (l’amata Rachele e quella che nessuno voleva, cioè Lea/Lia) e a lavorare gratis, come dote nuziale, per 14 anni a servizio del suocero.

Continuano gli imbrogli all’origine del popolo di Israele.

Làbano diventa il vendicatore del torto subito da Isacco nel momento in cui Rebecca lo tradisce sostituendo Esaù con Giacobbe. In tutta questa storia non compare la moglie di Làbano.

La “non amata” Lea/Lia dà a Giacobbe subito 4 figli (importanti i nomi che svelano il cammino interiore/psicologico della donna non amata, ma che spera nell’amore/accettazione del marito). L’amata Rachele invece è sterile.

Rachele chiede dei figli a Giacobbe e per ovviare alla sua sterilità usa la stesa strategia di Sara, dà a Giacobbe la propria schiava Bila.

Interessante il parallelismo:

– “Rachele disse: Ho sostenuto contro mia sorella lotte difficili e ho vinto. Perciò lo chiamò Neftali” (Gn. 30, 8);

– Colui che lottò contro Giacobbe gli disse: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e hai vinto” (Gn. 32, 29).

Come i loro uomini combattono con Dio, anche le donne combattono con Dio.
Lea e Rachele, insieme a Giacobbe, costruiscono la casa di Israele.

Donne il cui compito non è solo partorire, ma attraverso ciò contribuiscono alla fondazione del popolo delle 12 tribù a struttura ugualitaria.

Per quanto riguarda l’elenco dei 12 figli di Giacobbe cfr. Gn. 35, 22b-26.

Importante: Gn. 29-30
I figli di Lia/Lea:
1) Ruben (= “Il Signore ha visto la mia umiliazione e certo ora mio marito mi amerà”);
2) Simeone (= “Il Signore ha udito che io ero trascurata e mi ha dato anche questo”);
3) Levi (= “Questa volta mio marito mi si affezionerà, perché gli ho concepito tre figli”);
4) Giuda (= “Questa volta loderò il Signore”);
5) Issacar (= “Dio mi da dato il mio salario, per avere io dato la mia schiava a mio marito”);
6) Zàbulon (= “Dio mi ha fatto un bel regalo; questa volta mio marito mi preferirà perché gli ho partotiro sei figli” partorito e non generato, cosa che spetta al maschio);

– partorì anche una femmina di nome Dina (la violenza su di lei Gn. 34).
I figli di Zilpa, la schiava di Lia/Lea:
7) Gad (= “Per fortuna”);
8) Aser (= “Per mia felicità. Perché le donne mi diranno felice” cfr. Magnificat);
I figli di Bila, la schiava di Rachele:
9) Dan (= “Dio mi ha fatto giustizia e ha anche ascoltato la mia voce, dandomi un figlio”);
10) Nèftali (= “Ho sostenuto contro mia sorella lotte difficili e ho vinto”);
I figli di Rachele:
11) Giuseppe (= “Il Signore mi aggiunga un altro figlio”);
12) Beniamino (Rachele lo aveva chiamato “Ben-Oni=Figlio del mio dolore”, ma Giacobbe lo chiamò “Beniamino=Figlio della destra” oppure “Figlio di buon augurio”).

Nel partorire il figlio Beniamino, Rachele muore e viene sepolta lungo la strada verso Efrata, cioè Betlemme (Gn. 35, 16-20).

Giacobbe e la sua famiglia lasciano Làbano e fanno ritorno nella terra promessa.

Rachele, in contrasto con il padre falso-arrogante-ladro, gli ruba i “terafim” (Gn. 31, 30ss).

Cosa siano non si sa. Forse statuette di idoli… Làbano li chiama “i miei Elohim”.

Quando li cerca nell’accampamento di Giacobbe, Rachele li nasconde e si siede sopra e per evitare che il padre va a controllare gli dice che non può muoversi perché ha le mestruazioni.

Così si salva e salva la casa di Giacobbe e il padre se ne va via. I terefim possono anche significare la legittimità della stirpe. Questi terefim richiamano l’ambiente del Regno del Nord.

Interessante: il fatto che Rachele si sia seduta con le sue mestruazioni sui terefim, li ha resi impuri e di fatto inutilizzabili dal punto di vista cultuale.

Gn. 35, 2: “Allora Giacobbe disse alla sua famiglia e a quanti erano con lui: Eliminate gli dèi stranieri che avete con voi, purificatevi e cambiate gli abiti”. Bet-El
(Cfr. Periodo post-esilico con i libri di Esdra e Neemia…restaurazione del giudaismo).

Forse questo brano ha a che fare con la questione dei terafim rubati e resi inefficaci.

Importante: la legittimità della stirpe nella Terra Promessa non è data dal possesso delle divinità familiari/domistiche (cfr. terafim), ma dalla trasmissione delle promesse dal padre al figlio prescelto da Dio.

Gn. 34 Dina e i suoi fratelli Simeone e Levi (fondatore della dinastia sacerdotale).

Dina viene violentata da Sichem principe del paese dei Sichemiti. Sichem la vuole sposare e prepara la dote. Giacobbe è d’accordo ma Simeone e Levi pretendono la vendetta per l’onore violato.

Preparano l’inganno: vogliono che tutti i maschi del gruppo si facciano circoncidere, mentre lo strato più antico prevedeva solo la circoncisione del principe Sichem.
La circoncisione in età adulta porta la febbre e Simeone e Levi ne approfittano per ucciderli tutti.

Gn. 49 che tratta delle benedizioni di Giacobbe ai propri figli ai vv. 5-7 scrive:

“Simeone e Levi sono fratelli, strumenti di violenza sono i loro coltelli. Nel loro conciliabolo non entri l’anima mia, al loro convegno non si unisca il mio cuore. Perché con ira hanno ucciso gli uomini e con passione hanno storpiato i tori. Maledetta la loro ira, perché violenta, e la loro collera, perché crudele. Io li dividerò in Giacobbe e li disperderò in Israele”.
La minaccia è la dispersione.
Il libro di Giuditta cambia le cose. Dina diventa il santuario in pericolo di essere disonorato. Simeone è un eroe perché vendica lo stupro della sorella. Gdt. 9, 1-14 (pp. 901-902).

Inoltre Giuditta prende esempio da quel fatto per poter ingannare Oloferne (Assiri) e ucciderlo e così salvare il suo popolo.

Gn. 35, 21-22 Ruben, primogenito di Giacobbe, approfitta di Bila che era stata la schiava di Rachele e che aveva generato due figli legali (Dan e Neftali) a Rachele e che dopo la morte di costei divenne concubina di Giacobbe.

Si tratta di incesto. E per questo perde il diritto di primogenitura. Cfr. Ritorna la storia di Giacobbe che ruba la primogenitura al fratello…ingannando il padre che era sul suo letto e cieco…

Gn. 49, 3-4: “Ruben, tu sei il mio primogenito, il mio vigore e la primizia della mia virilità, esuberante in fierezza ed esuberante in forza. Bollente come l’acqua, tu non avrai preminenza, perché hai invaso il talamo di tuo padre e hai violato il mio giaciglio su cui eri salito”.

Gn. 38 (J) Storia di fondazione della casa di Giuda.

Giuda è lontano dai suoi fratelli e alleato con in Cananei. Sposa la figlia di un cananeo che gli partorisce tre figli Er-Onan-Sela nella città di Chezib (= la città dell’inganno).

Giuda rimanda via Tamar e commette un’ingiustizia: poteva liberarla dall’obbligo del levirato permettendole di trovare un altro marito e avere un figlio (cfr. Dt. 25, 7-10), oppure la doveva tenere in casa sua e mantenerla economicamente.

Inoltre Giacobbe non le darà il figlio Sela quando questi diventerà grande.
Giacobbe sta falsando la Legge del levirato.
Allora l’iniziativa passa a Tamar che va da Giuda, con uno stratagemma/inganno, e si prende ciò che le è dovuto per la legge del levirato: cioè un figlio dal suocero stesso.

L’incontro fra nuora e suocero avviene alla porta di Enaim (= due pozzi).

Una donna sola, alla porta della città, che incontra un uomo, lo fa per denaro e quindi si ravvisa la prostituzione.

Tamar chiede come pegno per la prestazione, in attesa del capretto come pagamento, il sigillo-cordone-bastone di Giacobbe.

Oggi: sigillo/carta di credito-bancomat; cordone/cellulare; bastone/chiavi di casa.

Giuda quando viene a sapere che sua nuora è incinta (non sa ancora di essere stato lui) emette un giudizio fortemente negativo su di lei: “Conducetela fuori e sia bruciata” (Gn. 38, 24).

A questo punto Tamar svela l’identità di chi l’ha messa incinta e Giacobbe non può tirarsi indietro e la riabilita dicendo: “Essa è più giusta di me, perché io non l’ho data a mio figlio Sela” (v. 26).

Interessante: V. 6 l’inizio del brano pone subito il rapporto fra Giacobbe e Tamar.

Inizialmente come nuora e suocero e poi direttamente con la procreazione di due gemelli Perez-Zerach (Nm. 26, 21; 1Cr. 2, 3ss).

Si ripresenta la storia del parto di Rebecca, dei gemelli Esaù-Giacobbe che lottano per il diritto di primogenitura già nel grembo della madre.

Interessante: quando si inizia una storia partendo dal falso, si innesca un cammino di violenza…

Anche nel grembo di Tamar vi è questa lotta. La levatrice segna Zerach che per primo mette fuori la mano, ma poi la ritira ed esce fuori Perez.

Qui viene anticipato al momento della nascita ciò che accadde quando Giacobbe rubò la primogenitura ad Esaù.

Non è detto che chi si affaccia per primo fuori dall’utero debba essere l’erede (della promessa).

“Quando Tamar fu giunta al momento di partorire, ecco aveva nel grembo due gemelli. Durante il parto, uno di essi mise fuori una mano e la levatrice prese un filo scarlatto e lo legò attorno a quella mano, dicendo: Questi è uscito per primo.
Ma, quando questi ritirò la mano, ecco uscì suo fratello. Allora essa disse: Come ti sei aperta una breccia? E lo chiamò Perez.
Poi uscì suo fratello, che aveva il filo scarlatto alla mano, e lo chiamò Zerach” (vv. 27-30).

Perez è l’antenato di Davide (Rut 4, 12ss) e di Gesù (Mt. 1, 3; Lc. 3, 33).

Importantissimo: questo capitolo presenta la nascita della stirpe di Giuda grazie alla volontà/caparbietà di una donna che ha cercato la giustizia (della Legge) violata dai maschi.

Tamar è una donna non convenzionale che non si è fatta escludere dalla linea delle generazioni (cosa prettamente maschile cfr. Matteo e Luca).

Dopo la “Casa di Giuda” con Gn. 38 si passa alla fondazione della “Casa di Giuseppe” e di “Efraim e Manasse” sempre nel territorio del Nord di Israele.

Gn. 37-50 Giuseppe (partorito direttamente da Rachele) è il figlio preferito del padre, invidiato dai fratelli, venduto da questi, diventato salvatore di tutto Israele…

Tre aspetti che ci interessano: la moglie di Potifar – matrimonio di Giuseppe con Asenet – lista sul trasferimento in Egitto.

Gn. 37, 12 Giuseppe venduto dai fratelli, viene rivenduto a Potifar, consigliere del faraone (Gn. 39, 1ss).

Rischio: abbandono di un membro della famiglia dei progenitori e destinatari delle promesse e suo inserimento in una genealogia straniera (cfr. Abramo e Sara Gn. 12 e 20; Isacco e Rebecca Gn. 26)

Giuseppe è uno schiavo acquistato e deve obbedire a tutto anche agli ordini relativi alla sessualità.
La moglie di Potifar non può avere rapporti sessuali al di fuori di suo marito altrimenti sarebbe adulterio.

Parallelismo di opposizione: la moglie di Potifar, donna seducente (di cui non sappiamo il nome né se era bella o brutta, più giovane o più vecchia di Giuseppe) è in confronto con (l’eroe) Giuseppe, giovane, bello (della stessa bellezza di Sara-Rebecca… cioè la bellezza di Israele, il popolo di Dio), ma anche fedele e timoroso di Dio.

“Giuseppe era bello di forma e avvenente di aspetto. Dopo questi fatti (cioè Giuseppe è stato messo a capo della casa di Potifar) la moglie del padrone gettò gli occhi su Giuseppe e gli disse: Unisciti a me.
Ma egli rifiutò e disse alla moglie del suo padrone: Vedi, il mio signore non mi domanda conto di quanto è nella sua casa e mi ha dato in mano tutti i suoi averi. Lui stesso non conta più di me in questa casa; non mi ha proibito nulla, se non te, perché sei sua moglie. E come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?” (Gn. 39, 6-9).

Giuseppe è guidato da saggezza ed etica. La donna, dalla sua passione. E la passione, non corrisposta, si trasforma in odio per Giuseppe, che viene accusato ingiustamente e messo in prigione.

Caso analogo in 2Sam. 13, 11-18 (pp. 583-584). Qui è Ammon (il primogenito di Davide e fratello di Assalonne da cui poi fu uccise per la violenza alla sorellastra) che vuole e ottiene un rapporto sessuale con la sua sorellastra Tamar che non riesce a sottrarsi allo stupro.

Giuseppe si salva grazie alla interpretazione dei sogni del faraone.
E’ l’intervento di Dio a favore di chi ha subito ingiustizie: dai fratelli prima e dalla moglie di Potifar poi.

La lista della stirpe di Giacobbe in partenza per l’Egitto Gn. 46, 5-27.
Questa lista comprende anche donne di valore (Zilpa, Bila, Dina, Lia/Lea, Rachele), per cui l’autore vuole rappresentare un intero popolo che si sposta in Egitto, mentre Giuseppe che lì già vive è l’unico che sposerà una egiziana.

Anche questo brano ha interesse per i matrimoni misti (epoca post-esilica).

Questo gruppo, assente Giuseppe e sua moglie egiziana, è costituito già nella Terra Promessa, per cui è integro nella razza (e integrità etica).

Anche se poi questo gruppo crescerà in Egitto fino a diventare un grande popolo (mischiando le razze?):

“I figli di Israele prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto potenti e il paese ne fu ripieno” (Es. 1, 7).

Gn. 41, 50-52: “Intanto nacquero a Giuseppe due figli, prima che venisse l’anno (sette) della carestia; glieli partorì Asenat, figlia di Potifera, sacerdote di On. Giuseppe chiamò il primogenito Manasse perché, disse, Dio mi ha fatto dimenticare ogni affanno e tutta la casa di mio padre.
E il secondo lo chiamò Efraim perché, disse, Dio mi ha reso fecondo nel paese della mia afflizione”.
Manasse/Menashsheh=Mi ha fatto dimenticare.
Efraim/Hifrani=Mi ha reso fecondo.
Gn. 46, 20: “A Giuseppe nacquero in Egitto Efraim e Manasse, che gli partorì Asenat, figlia di Potifera, sacerdote di On”.

La riflessione sulla fine del regno del Sud, epoca babilonese e dominio persiano, rende necessaria una visione d’insieme dei progenitori del Nord (tradizioni di Giacobbe e Giuseppe) con quelli del Sud.

La supremazia dei genitori del regno del Sud nelle liste di genealogie è avvenuta dopo la fine del regno del Nord ad opera degli Assiri e alla conclusione della crisi del regno del Sud con gli stessi Assiri.

Importante: la speranza di realizzare e mantenere la promessa della terra e discendenza, viene non dalla obbedienza alla Torah, che spesso è violata, ma dalla fedeltà di Dio alla sua parola.

L’evoluzione del popolo avviene in forma di racconti sulle famiglie e le nascite: quindi grande importanza delle donne.

Le donne, come gli uomini, sono portatrici delle promesse e determinano la discendenza dei loro figli.

Interessante e da analizzare: Nei vangeli Gesù si rivolge al popolo dicendo “i vostri padri” (per prenderne le distanze) e non “le vostre madri”…
ESTER
Il libro di Ester è molto amato da Israele perché è all’origine della festa di Purim, festa della gioia per il dono della salvezza ricevuta da Dio per mano di una donna, festa dello scampato pericolo e del rivolgimento delle sorti.

Non tutti sono estimatori della regina Ester: “Sono così nemico del libro di Ester che vorrei che non esistesse affatto perché è troppo giudaico e contiene molta malvagità pagana”. Questo il durissimo giudizio di Lutero nei suoi “Discorsi a tavola“, motivato dalla vendetta degli ebrei che eliminano chi voleva eliminarli.

Appartiene al genere midrashico, perché narrando vicende situate nel passato, in epoca persiana, vuole parlare in realtà all’oggi della fede provata e bisognosa di incoraggiamento del II secolo a.C. La redazione in ebraico è più breve ed antica; numerose sono le aggiunte in greco.

Il ritratto di Serse è simile a ciò che scrive Erodoto. Descrizione storica di Susa.
Non storico il decreto dello sterminio dei Giudei e 75.000 persiani. La politica di Serse è stata tollerante. La storia non conosce né Vasti (la regina e moglie di Serse si chiamava Amestri e lo fu per tutto il regno del marito) né Ester. Se Mardocheo è stato deportato all’epoca di Nabucodonosor ora avrebbe 150 anni circa.

Il nome Ester è pagano e si rifà a quello della dea Isthar. Il racconto è strutturato in una scena introduttiva (cc. 1 e 2) dominata da un sontuoso banchetto del re persiano Assuero-Serse, che ha ai suoi lati i rappresentanti del bene (Ester e il suo tutore Mardocheo) e quello del male (Aman, l’amalecita, figura tipo dei nemici di Israele).

Si annuncia il motivo del “ribaltamento delle sorti”: la regina Vasti è ripudiata, Ester prescelta e intronizzata.

La narrazione prosegue in due atti:

– il primo (3,1-5, 8), dove si annuncia l’editto reale di sterminio degli Ebrei nel giorno delle “sorti” (=“purim”, termine accadico);
– il secondo (5, 9-9, 19), che sviluppa il tema del “ribaltamento”.

Aman che trama per condannare alla forca Mardocheo è impiccato al suo posto, mentre Mardocheo è esaltato e il suo popolo d’Israele salvo, con conseguente massacro dei suoi nemici.

Come Giuditta, anche Ester spicca per bellezza e virtù. E anch’essa salva il suo popolo dalla strage. Però Giuditta è più guerriera e stratega, Ester invece è più tenera e femminile. Raggiunge il suo intento senza impugnare la spada, con la forza persuasiva della sua intercessione.

La storia di Ester ci porta nei palazzi sontuosi del re di Persia, dove si fa mostra di sfarzo e di vita gaudente in un susseguirsi d’interminabili banchetti. Ma prima ancora ci lascia intuire qualcosa della vita degli stranieri, dei deportati, dei poveri… Ester infatti porta iscritta nella sua storia di ragazza orfana la sofferta realtà della diaspora giudaica.
Splendori e miserie del potere (capp. 1 e 2)
Cfr. Sogno di Mardocheo: i giusti, piccolo numero, rischiano la sconfitta e fine, ma alla fine gli umili furono esaltati e divorarono i superbi. Incipit su ciò che sarà descritto nel libro.

Mardocheo scopre il complotto contro il re e lo avvisa salvandogli la vita. Il re lo premia alzandolo nella scala sociale.

Importante: Assuero non ha i tratti del Faraone, o almeno non viene visto in tale veste dagli autori del testo.
Banchetti di Assuero/Serse: 180 giorni (sei mesi) per i grandi del regno e sette giorni per tutto il popolo (1, 4-5). Interessante v. 8

1, 9-22 (da leggere): Il dramma della regina Vasti, che difende la sua dignità di donna rifiutandosi di essere esibita come un oggetto, prelude al dramma della persecuzione antigiudaica.

Se la Regina disobbedisce al re, che faranno tutte le altre mogli del regno?
È questo attentato al sistema piramidale e maschilista che va punito.

Vasti, la femminista. Nel giardino paradisiaco della reggia di Assuero, nel cuore della festa,
scoppia qualcosa di assolutamente inaudito: Vasti, la splendida regina, si rifiuta di comparire al banchetto del re, il quale l’aveva tenuta come l’ultima grande sorpresa, la meraviglia del settimo giorno!

Doveva essere condotta da sette eunuchi con in capo la corona reale: «per mostrare al popolo e ai capi la sua bellezza» (1, 11). Ma la regina rifiuta.

Vasti è bella e non si piega. Perderà la corona, ma non la sua fierezza!

Si deve immediatamente destituire quell’orgogliosa regina affinché non si estenda il pericolo di una rivoluzione femminista! «Quello che la regina ha fatto si saprà da tutte le donne e le indurrà a disprezzare i propri mariti», conclude Memucan, il più sapiente dei sette consiglieri del re (1, 17).

Perciò va ristabilito l’ordine, ovvero il primato dell’uomo sulla donna, del marito sulla moglie, del re sulla regina…

2, 1-13.15-18: Si apre una specie di concorso di bellezza per sostituire la regina ribelle: Ester viene condotta fra le altre. A differenza delle altre, è sobria, non chiede nulla, non punta sulla seduzione: forse proprio per questo colpisce il re.

Importante: Ester fa tutto quello che le dice Mardocheo, a differenza di Vasti che ha agito con la propria autonomia e libertà…

Nella sua incapacità di riconoscere la libertà altrui (di cui Vasti si è fatta promotrice), schiavo egli stesso del suo potere, la libera bellezza di Ester lo attira.

Quando arrivò il turno di Ester il re ne fu subito conquistato: l’amò più di tutte e la fece regina al posto di Vasti. Offrì un grande banchetto e concesse un giorno di riposo in tutto l’impero. L’ordine era nuovamente ristabilito! Ester era splendida come Vasti e, diversamente da lei, umile e sottomessa…

In effetti, fin qui il ruolo di Ester è assai passivo. A prima vista è soltanto la donna «oggetto» di godimento: «viene presa e piace». Il suo compito sembra esaurirsi nel far piacere al re. Ma la Bibbia ci riserva una sorpresa: Ester piace ancor più a un altro re, il suo Dio, il quale trasformerà questa timida fanciulla rimasta precocemente sola, in una grande protagonista.

Verrà il momento in cui Ester prenderà iniziativa e riuscirà a piegare a favore del suo popolo entrambi i re: il Dio d’Israele e il temibile Assuero.
2. Gli scenari del dramma (capp. 3 e 4)
Nello scontro tra Mardocheo e Aman si profila la lotta drammatica fra fedeltà al vero Dio e idolatria. L’odio di Aman è pari al delirio di onnipotenza che la carica cui è stato assurto scatena in lui (3, 1-2).

Interessante: Aman vorrebbe eliminare Mardocheo, il giudeo che non si prostra al suo passaggio,
l’uomo che non si conforma. È intollerabile la sua irriverente diversità, ma lo teme perché giudeo. Allora pensa di eliminare l’intero popolo ebreo dal regno di Assuero.

È la tipica assenza di misura dell’uomo pieno di sé: è lo scontro fra chi è centrato di se stesso e chi come il giudeo Mardocheo sa di dover obbedire a un Altro. La posta in gioco è la purezza della fede (per l’ebreo Mardocheo) contro l’idolatria del potere (Aman). 4, 17d-17e (da leggere).

Decreto di eliminazione/genocidio degli Ebrei 3, 13-13 (da leggere). Sono i motivi di sempre in ogni epoca di antisemitismo.

Comincia qui l’avventura di Ester. Lei, che nella sua vita ha sperimentato quasi soltanto passività e sottomissione, deve ora prendere iniziativa rischiando sulla propria pelle e intercedere per la liberazione del suo popolo. Perché se è stata fatta regina, le ricorda Mardocheo, non è certo senza un disegno divino.

Mardocheo avverte Ester del pericolo invitandola ad intercedere presso il re (4, 7-8).

Ester ha paura perché il re non la invita da 30 giorni e pensa di essere stata scavalcata da un’altra, ma Mardocheo la richiama al suo essere ebrea prima che regina (4, 12-16 da leggere).
3. La preghiera di Ester (cap. 4,17k… greco)
È una preghiera bellissima, vera: nasce dal dolore e dall’onesta confessione delle colpe del popolo, che meriterebbero castigo. Fa appello alla fedeltà di Dio all’alleanza…

Una preghiera che fa totalmente leva sulla fiducia nel Signore, rafforzata dalla sua esperienza di orfana: «sono sola e non ho altro soccorso se non te!».
E’ la maschera di Ester 5, 1-3 (da leggere).

Poi, come Giuditta, anche Ester passa dalla preghiera all’azione. Si fa bella e prende l’iniziativa di comparire davanti al re. Assomiglia ormai a Vasti, benché il suo gesto sia di segno contrario. Ma a suo modo anche lei è ormai ardita. Senza che il re l’abbia chiamata osa comparire al suo cospetto, un’azione meritevole di morte.

L’incontro è raccontato in forma avvincente. Il leone (re) è conquistato dalla disarmante bellezza; la forza che incute paura è soggiogata dalla tenerezza femminile.

Come in una struggente scena d’amore il re balza dal trono, prende fra le braccia la sua giovane amata, ancor più bella nel pallore dello svenimento, e la rincuora con parole mai udite prima: «Che c’è, Ester? Io sono tuo fratello; fatti coraggio, tu non devi morire… Alzato lo scettro d’oro, lo posò sul collo di lei, la baciò e le disse: “Parlami!”» (5,1f-2).

Nell’incontro col re, la bellezza di Ester è espressione della sua profondità e non nasconde la sua fragilità, la maestà spaventosa del re è maschera del vuoto. Il re comunque è vinto dall’apparente debolezza di una donna così bella e accetta che sia lei a gestire quanto sta per avvenire.

Il seguito mostra come la sorte di morte sia capovolta in festa (cc. 6-10).

Ester crea un’attesa chiedendo ben due banchetti al re, con la presenza di Aman: ed è nel secondo che svela le trame di Aman.

Questi perde il controllo di sé per la paura e commette il passo falso che gli costerà il potere e la vita, consentendo il rovesciamento a vantaggio dei deboli e dei perseguitati (5, 12-14 da leggere).
4. Il mutamento delle sorti per opera di una donna (capp. 6 e 7)
È il capovolgimento delle sorti. Aman si credeva padrone degli eventi e viene travolto. Ester confida totalmente in Dio e ottiene la salvezza del suo popolo ingiustamente perseguitato.

C. 6 Ironia splendida: l’autore fa esprimere il giudizio di esaltazione di Mardocheo a colui che voleva lo condannare (Aman)… Cfr I vangeli Lc. 7, 39-44

Ester accusa Aman (7, 3-4) che farà la stessa fine che era stata prevista per Mardocheo: impiccato allo stesso palo fatto alzare da Aman (7, 9-10).

Così descrive la scena Dante Alighieri:
“Poi piovve dentro a l’alta fantasiaun crucifisso, dispettoso e fero
ne la sua vista, e cotal si moria;
intorno ad esso era il grande Assüero,
Estèr sua sposa e ‘l giusto Mardoceo,
che fu al dire e al far così intero”.
(Purgatorio XVII, 25-30)
Ester come Mosé contro Aman/Faraone.
Importante: collegamento simbolico tra le feste di Pasqua e di Purim, tra le figure di Mosè e di Ester.

Nel mese di Nisan gli ebrei celebrano la pasqua, la grande memoria della liberazione dall’Egitto. Ora, è proprio in quel mese che a Susa viene decretato lo sterminio del popolo.

L’autore sacro precisa che l’editto dello sterminio fu redatto dai segretari del re proprio il 13 di Nisan, il giorno in cui – al tramonto – si immolava l’agnello pasquale. Paradosalmente, la fine d’Israele è decretata il giorno in cui esso celebrava la memoria della sua liberazione, la festa di Pasqua!

In quel contesto «pasquale» la figura di Ester appare simile a quella di Mosè: è colei che Dio ha scelto per ribaltare (purim), per capovolgere le situazioni. Ora le sorti sono cadute sul 13 di Adar, l’ultimo mese del calendario ebraico.

In «quel giorno» si sarebbero dovuti sterminare tutti i Giudei, dal più grande al più piccolo. E invece in quel giorno furono sterminati i nemici dei giudei, come avvenne per il Faraone e il suo esercito sulle rive del Mar Rosso.

In tal senso gli Ebrei celebrano ancor oggi la festa di Purim, cioè il capovolgimento delle sorti che Dio ha operato grazie all’intervento di Ester.

Cap. 8 Ribaltamento della situazione: ciò che era di Aman (la casa passa a Ester) passa a Mardocheo (8, 1-2).
Decreto di riabilitazione.

Importante: Mardocheo come Giuseppe in Egitto. Mardocheo della tribù di Beniamino. Giuseppe e Beniamino erano i figli che Giacobbe ha avuto dall’amata Rachele…

Cap. 9 Le sorti sono cambiate/ribaltate (9, 1. 4-10. 16 da leggere).

Istituzione della festa di Purim 9, 27-28

Cap. 10 Mardocheo interpreta il suo sogno del capitolo introduttivo e attribuisce tutti gli eventi all’azione di Dio.

Interessante: Non si dice che Ester che ebbe figli. Questo fatto può indicare che, come Giuditta, è vista dall’autore sacro in una prospettiva di maternità più ampia. Ester ha partorito il popolo a vita nuova liberandolo dallo sterminio.

Il suo nome ebraico è Hadassa che significa «mirto». Ester invece è nome persiano che significa «stella» (stareh) e fa pensare alla grande dea Ishtar. Ma la corona di «mirto», ossia la vittoria, non viene da Ishtar e neppure da Marduch (il dio persiano a cui allude il nome di Mardocheo) bensì dal Dio di Israele.
RUT
La storia di Noemi è raccontata nel libro di Rut, posto nella Bibbia dopo il testo dei Giudici. Il libro è uno dei cinque Megillot, i piccoli libri o rotoli che venivano letti per intero nelle feste principali ebraiche: quello di Rut era letto a Pentecoste (cfr. Lv. 23, 15-22 e Dt. 16, 9-12), forse a motivo degli episodi narrati in 1, 22 e 3, 17 che si svolgevano nel periodo della mietitura dell’orzo.

Quale sia stato il luogo che occupava originariamente non si sa. Il posto che fu assegnato al libro dalla versione greca (LXX) e poi dalla Vulgata, e che mantiene tuttora nelle nostre Bibbie, si deve verosimilmente alle parole iniziali: “Nei giorni in cui governavano i giudici…” (1, 1). Esemplare dal punto di vista letterario, questo libretto rievoca una storia familiare del tempo dei Giudici (1200-1025 a.C.), epoca post-mosaica, nella quale, oltre i delicati sentimenti umani, emergono alcuni elementi religiosi di grande importanza.
Non sappiamo chi l’abbia scritto. L’anonimo autore utilizzò materiale molto antico e scrisse probabilmente prima dell’esilio di Israele in Babilonia, nel sec. VI a.C.

Il testo narra la storia di Noemi e la sua famiglia. Noemi significa “la mia gioia”, ma anche “la mia dolcezza”. In un periodo di carestia, Elimelech abbandona la sua città, Betlemme, e si va a stabilire nei “campi di Moab” (in Transgiordania) con la famiglia, cioè la moglie Noemi e i due figli Maclon e Chilion. I figli sposano due ragazze moabite. Ma intanto muore il padre Elimelech. Dopo una decina d’anni muoiono anche i due giovani, Maclon e Chilion, senza lasciare figli.
Restano così tre vedove: Noemi e le due nuore Orpa e Rut. Noemi, dopo tutto ciò, pensa di tornare Betlemme e congeda le due donne. Una delle due nuore segue Noemi per qualche tratto di strada, poi si allontana e ritorna alla sua terra; ma l’altra, Rut, vuol partecipare fino in fondo alla vita di Noemi – vita di strettezza, di dolore, di povertà – e va con lei nella terra di Canaan stabilendosi a Betlemme.
Lì Rut sposerà Booz, parente di Elimelech e dall’unione dei due nascerà Obed, così chiamato da Noemi, che le vicine dicevano essere suo figlio (cfr. Rut 4, 13-17). Obed fu il padre di Iesse, padre di Davide.
L’autore, nel periodo xenofobo nel quale scrisse, volle presentare al suo popolo che nelle vene del loro re più famoso scorreva sangue straniero.
Il libro di Rut quindi discredita il mito della razza. Un popolo chiuso in se stesso non poteva essere veicolo della benedizione divina per gli altri popoli. Il libro di Rut rappresenta Davide, il gran re d’Israele, che ha nelle sue vene sangue straniero, moabitico.
Cfr. Mt. 1, 5-6
Era il simbolo della solidarietà fisica nella benedizione che Israele doveva trasmettere a tutti i popoli, senza distinzione di razza.
Noemi, scendendo nella terra di Moab, abbandona con la sua patria il suo Dio. Al contrario, una donna di Moab sale nella terra di Canaan. “Il tuo Dio sarà anche il mio Dio”, dice Rut.
Umiltà che lotta
E’ una sorte, la sua, simile a quella di Giobbe. “Senza ragione” il Signore li mette alla prova più dura.
Dopo la morte del marito, Noemi deve piangere anche quella dei due figli, uno dei quali si era sposato con Rut.

Noemi muta, allora, il suo nome in quello di Mara (=“amarezza”) e dice alle nuore: “Io sono molto più amareggiata di voi, poiché la mano del Signore è rivolta contro di me” (Rut 1,13).

Noemi è abbandonata, sola e straniera nella terra di Moab. E invita le due nuore ad abbandonarla, a non seguirla nel suo disperato ritorno in Giudea.

Pur addolorata di dover abbandonare la suocera, una di esse decide di stare con il suo popolo. Rut invece, senza spiegarne il motivo, apparentemente senza alcuna ragione, non si stacca da Noemi:

“Non insistere con me che ti abbandoni – ella dice – perché dove andrai tu andrò anche io, e dove ti fermerai, mi fermerò. Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove morirai tu, morirò anche io e lì sarò sepolta. Il Signore mi faccia questo male e altro ancora, se altra cose, che non sia la morte, mi separerà da te” (Rut ,16-17) .

E’ una parola assolutamente imprevedibile, fatta di amore assoluto, una decisione che nulla calcola, che nulla scambia. Puro dono. E tuttavia è testimonianza di un amore totalmente umano e terreno; Rut ama in modo incondizionato una persona in carne e ossa.

Non si è convertita al Dio di Noemi, ma poiché ama Noemi fa proprio anche il Dio di quest’ultima. Al Dio di Israele ella perviene attraverso l’amore per questa sua prossima, per il suo prossimo più abbandonato, derelitto, disperato.

E dunque Rut lascia la sua terra, i suoi consanguinei, abbandona tutto il “suo” per donarsi tutta all’altra.

Rut, per seguire Noemi, lascia perfino il suo dio e si umilia ai mestieri più poveri, spigolando dietro ai contadini, raccogliendo ciò che avanza dal loro lavoro, come i più poveri dei poveri in Israele.

Noemi senza marito e senza figli; Rut senza figli, vedova, e per di più straniera, una moabita. Entrambe ridotte all’umiltà totale: umili davvero da humus, letteralmente “a terra”.

Ma Rut è della stirpe di Tamar e Raab. La sua umiltà è fatta anche di lotta. Ella lavora nelle campagne di Booz (=“in lui la forza”). Pur essendo un parente di Noemi, egli non ha alcun obbligo diretto di accudirne la famiglia.

Tuttavia dà cibo e lavoro alla moabita, la accoglie e lentamente (se ne accenna nel racconto, anche se con grande pudore) prova affetto per questa straniera, fino a riscattarla dal primo parente e a farla sua sposa. Dal legame tra Rut e Booz nascerà il padre del padre di Davide.
Una conquista disarmante
Ma come ha potuto Rut “conquistare” Booz, il “forte”?

Rut è insieme perfettamente umile e perfettamente decisa a ottenere la sua liberazione. Entra nel letto di Booz per averlo. Né Booz si stupisce che Rut voglia giacere con lui; se non la tocca, è perché proprio allora capisce di volerla in sposa e di fronte ai testimoni dice: “Ecco Rut, è diventata mia sposa” (Rut 4,9-11).

Rut conquista il suo uomo con un gesto “scandaloso”. E proprio questo viene benedetto dal Signore! Nasce così il figlio Obed, che sarà il padre di Iesse, padre di Davide.

Ma questo Obed non è solo figlio di Rut, è anche figlio di Noemi! “Noemi prese il bambino,se lo pose in grembo e gli fece da nutrice. Le vicine gli cercavano un nome e dicevano: E’ nato un figlio a Noemi”! (Rut 4,16-17).

Il legame tra le due donne è tale per cui è come se generassero insieme. Il puro dono di amore di Rut a Noemi si incarna in Obed.
La sacralità dello straniero
In Rut troviamo questo messaggio: lo straniero (non soltanto colui che ospitiamo e diventa proselito, cioè vive presso di noi, “integrato” in noi), lo straniero davvero totalmente tale è sacro. Dio non vuole sia toccato. Anzi, è proprio lui che si deve amare. L’amore supera ogni differenza di razza, di gente, di costume, di tradizione.

Ma il racconto di Rut pone un problema più radicale.

Abbiamo detto che ella segue Noemi e che solo attraverso Noemi aderisce al Dio di Israele. Ma chi è questo Dio? Far proprio il dio vittorioso è facile; nell’antichità classica ciò accadeva costantemente; è ben noto che quando i Romani ponevano l’assedio a una città, prima di distruggerla, ne invocavano gli dèi, invitandoli a passare dalla loro parte, invitandoli a entrare nel loro pantheon.

E’ sempre stato facile aderire al dio dei vincitori. Rut invece segue Noemi, che dal suo Dio è stata addirittura abbandonata.

Rut segue il Dio dei vinti e condivide l’amarezza dei suoi fedeli. Capace di perfetto amore è una straniera in Israele; ella perviene al Dio di Israele solo attraverso l’amore, anzi l’aver cura concreta del prossimo.
Con il libro di RUT si reinventa il principio giuridico del “goel della misericordia”, il redentore, il difensore, il padrino, lo sponsor dell’oppresso, sul quale incombe il dovere di riscattare i beni e le persone che, per una sopraggiunta avversità, sono diventati proprietà di un estraneo, e farli tornare in possesso del proprietario originale.
Pratica, questa, tuttora in uso nelle comunità ebraiche sparse per il mondo, in diaspora: a chi cade in disgrazia, fallisce o ha un crac finanziario è data la possibilità concreta di rimettersi in piedi con l’aiuto della comunità.

Nel libro di RUT ritroviamo la soluzione popolare comunitaria, che si realizza a partire dalla concomitanza e collaborazione di più persone: la fede di Elimelech, l’iniziativa e la dolcezza di Noemi, la scelta dei poveri da parte di Rut, il senso del diritto e della giustizia di Booz.
E’ un progetto popolare più umano rispetto agli altri progetti del tempo pensati dai grandi capi per risolvere i mali del popolo dopo la dispersione di Babilonia: quello di Esdra, basato sull’ordine, la legge, la purezza della razza, che assomiglia allo sviluppo fondato sulla crescita economica e che oggi potremmo identificare nel progetto del capitalismo selvaggio; quello di Neemia, basato sulla restituzione delle terre ai poveri; e quello di Zorobabele e Giosuè, fondato sulla riaggregazione intorno al culto.
E’ un progetto in cui i ruoli e le vocazioni di ognuno, e quindi i loro stessi nomi, sono significativi, secondo il linguaggio metaforico della Bibbia, dei valori indispensabili per costruire il progetto stesso. Nel caso del libro di RUT: la fede di Elimelech e la certezza che solo Dio è capo, la dolcezza e la determinatezza di Noemi, la scelta dei deboli fatta da Rut, l’amica, e la forza e il coraggio di Booz. Tutti concorreranno al progetto comunitario secondo i canoni di Dio e alla nascita del vero figlio di Dio, l’uomo nuovo, il servo obbediente, OBED.
DI CHI E’ QUESTA DONNA? (Rut 2,5)
Il Signore è rimasto in ombra in tutto il racconto ma la commozione del cuore di Booz sembra nascere da un cuore che si è lasciato plasmare dalla Parola del Signore, una Parola che prima di tutto chiede una profonda solidarietà con i deboli. La tenerezza di Booz è essa stessa l’intervento di salvezza operato da Dio verso le due donne. Booz si era chiesto “di chi è questa donna?” Alle cure di chi è affidata? La risposta della narrazione biblica è: a Booz!
Di chi è il povero? Di chi è lo straniero? Di chi sono la vedova e l’orfano? Di chi è il dolore del mondo, la solitudine del mondo? E’ mio, tuo, nostro. Questo è quanto il libro di Rut ci offre come risposta alla domanda di Booz.
EVA, MADRE DI TUTTI I VIVENTI
Andiamo all’Adam nel progetto biblico.
La cultura semitica racconta, non definisce, è esistenziale e non teoretica…

Ed infatti splendidi sono i due racconti:
Gn. 1 (legato all’esperienza dell’esilio babilonese).
Gn. 2 (legato all’esperienza di Mosè e del cammino del Sinai).

GENESI 1

In Gn. 1, 22 gli animali sono oggetti della benedizione di Dio; in Gn. 1, 28 è l’uomo “maschio-femmina” oggetto della benedizione di Dio.

In accadico “kara-bu”: pregare, consacrare, benedire, salutare.

In arabo “baraka”: beneficio, flusso benefico che viene da Dio…per cui salute, felicità..

In ebraico (radice “brk”):

“barak” (verbo) dotare di forza vitale;

“bera-ka” (sostantivo) forza vitale/salutare, ma ha anche il significato di inginocchiarsi e ginocchio.

Ginocchio è un eufemismo per indicare gli organi sessuali maschili (i genitali e cioè alle fonti della vita): l’accadico “birku” ginocchio e grembo.

Discendenza in ebraico è zera’ mentre il greco biblico traduce con sperma Gn. 12, 7 e Gal. 3, 16.

“Benedire” è trasmettere la propria capacità generativa a un altro rendendolo fecondo (nella tradizione ebraica è l’uomo che genera/trasmette la vita).
La benedizione è unica e una volta data non può più essere tolta.

Dio che benedice significa il trasmettere la sua potenza vitale, la sua capacità generativa per rendere partecipi della sua paternità generante.

Quando è l’uomo a benedire significa che trasmette tutta la propria energia di vita a colui che è benedetto.

Chi benedice è responsabile della vita di colui/coloro che benedice.
Interessante leggere Gn. 27 dove Giacobbe ruba al fratello Esaù la benedizione del padre Isacco.

Tutta la bibbia è la storia di Dio con la famiglia umana, e alla fine è una storia di famiglie.

L’unico uomo che non ha famiglia è Melchisedek e di lui non si conosce il padre (nella polemica insita al sacerdozio israelitico, Melchisedek rappresenta il progetto di Dio di fronte alla casta sacerdotale di Aronne).

Ritorniamo a Gn. 1-2.

Gn. 1, 2: “lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”.

Il verbo ebraico significa “covare le acque/fecondarle”, gesto del coito e cioè “rapporto sessuale completo”.

Assume anche il significato di “rompere le acque”, è il segno del parto che inizia…

Gn. 2, 6 dice la stessa cosa.
Ciò richiama l’amore sponsale del Creatore per la sua creatura.

In Gn. 1 il Creatore per sette volte grida il suo “tov” che indica il suo compiacimento e il suo godimento.
Dio contempla ciò che crea, se ne innamora e grida il suo godimento…

Dopo l’esilio babilonese, Israele diventa una teocrazia liturgica: un popolo governato da sacerdoti.

Gn. 1 è la teologia fondativa per eccellenza: la grande liturgia cosmica celebrata nel tempio che è il mondo, salmodiata con la partecipazione del popolo che ripete “e fu sera e fu mattina…”.

Il compito della creazione per P è separare-differenziare (cfr. Enuma Elish).

V. 26 “Facciamo (=na’aseh) l’uomo (=ha ‘adam) a nostra immagine (=b salmenu), come nostra somiglianza (=kidmutenu)”.

Gn. 1 5 volte la radice br’ (=creare) e ben 3 volte solo nel v. 27. Cinque volte il verbo ‘sh (=fare).

Uomo (=adam): nome comune, singolare collettivo generico, nessuna differenza sessuale, indifferenziato, umanità (insieme del genere umano).

Adamo come nome proprio appare per la prima volta in Gn. 4, 25.

a) 16 volte appare come nome comune, essere umano creato da Dio: Gn. 2, 5-8.15-16.18-21; 3, 9, 22.24; 4, 1;

b) a volte con lo stesso significato è usato in riferimento alla donna: Gn. 2, 22-23.25; 3, 8.12.17.20-21;

c) due volte come collettivo generico/umanità: Gn. 1, 26-27;

d) una volta come nome proprio: Gn. 4, 25.

Al v. 26 inizia la creazione dell’uomo, vertice della piramidale, verso il quale tutta la creazione di Gn. 1 tende: egli è l’opera di Dio, come si ricava dal triplice impiego del verbo barah nel v. 27.

A proposito del plurale “facciamo”: Filone di Alessandria e la letteratura rabbinica vi scorgono gli angeli (cfr. la corte celeste): un midrash in tal senso afferma che Mosè scrivendo sul monte la Torah per 40 giorni e 40 notti chiese a Dio perché Egli fornisse pretesto ai minim (= cristiani), che vi avrebbero visto la presenza della Trinità. Dio risponde che questa è la sua volontà e lo invita a scrivere, lasciando che chi vuol sbagliare sbagli. Se si consulta con gli angeli, Dio vuole così insegnare agli uomini che l’uomo potente deve consigliarsi con il piccolo, perché entrambi provengono da Adamo.

L’uomo immagine di Dio è presente anche in Gilgamesh dove la dea Aruru “forma nel suo cuore un’immagine di Anu” (che è il dio supremo) prima di plasmare con la polvere della terra l’eroe Ea-Balli.

Cultura del tempo: il re, in Babilonia, è l’immagine, cioè il rappresentante fra gli uomini, del dio Marduk.

Immagine, nel testo ebraico, traduce l’uomo nella sua interezza e non una parte di esso. E’ tutto l’uomo ad essere immagine di Dio e non solo il suo spirito.

V. 27 “Dio creò l’uomo (=adam) a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio (zakar) e femmina (=neqebah) li creò”.

Br’ originariamente significava “dividere-separare”.

L’umanità è una comunità: maschio e femmina. Solo nella comunità dell’umanità Dio si vede riflesso.

La creatura umana è maschio e femmina, quindi l’identità sessuale fa parte della creazione e non riguarda Dio (che non è uomo-donna-androgino).

Maschio (=zakar pungente) e femmina (=neqebah perforata) come sostantivi sono usati indistintamente per esseri umani e animali.

In Gn. 2, 18-23 uomo e donna sono tradotti con ish e issah che riprendono due radici che traducono “il forte” e “la delicata”.

In Gn. 2 è accentuato l’aspetto relazionale-comunionale della coppia, in Gn. 1 la fecondità come realizzazione della benedizione divina.

I termini ebraici zakar e neqebah sono tradotti in greco come aggettivi:

– maschile (=arsen o arren) che richiama qualcosa di vigoroso-violento-allungato-che si erge;

– femminile (=thely) che richiama qualcosa di blando-delicato.

Il nome “adam” (=uomo), proviene da “adamah” (=terra), cui si associa “adom” (=rosso).

– Nel sumerico il nome significa: “padre mio”;

– nell’assiro-babilonese: “costruito-prodotto-generato-bambino”;

– in arabo: “unito-attaccato”.

Ciò suggerisce l’idea che il nome indichi una pluralità (singolare collettivo) e stia per umanità, anche perché non è retto dall’articolo. Quest’uomo è creato unico, solo (monos dirà Sap. 10, 1 di difficile interpretazione).

Inoltre non è detto “secondo la specie” per indicare che l’uomo è l’equivalente dell’universo, unico come questo e unico come il creatore e dell’universo.
A immagine secondo somiglianza.
– “Selem” (=Immagine) indica la riproduzione, la copia concreta, in certi casi l’idolo.

– “Demut” (=Somiglianza) indica la corrispondenza.

Hillel in Gen. 9, 6 affermerà che chi versa il “sangue” (=dam) sopprime la “somiglianza” (=demut).

L’immagine e la somiglianza sono da mettersi in relazione alla dualità sessuale: maschio (convesso) e femmina (concavo), cioè zacar e neqevah.

K. Barth afferma che l’essere immagine e somiglianza di Dio da parte dell’uomo si manifesta in questo essere dell’uomo maschio e femmina, l’uno di fronte all’altro.

E la tradizione rabbinica lo spiega così: l’uomo non può venire all’esistenza senza la donna, né la donna senza l’uomo, né entrambi senza la Shekinah.

La coppia sarà lo strumento per portare avanti la storia della salvezza e nella relazione uomo-Dio si userà sempre questa immagine.

Nel potere dato attraverso la benedizione di procurare e popolare la terra si ha un’accezione positiva della sessualità e del corpo.

L’uomo biblico è un’unità, il fine procreativo della sessualità non esclude quello di godimento, che nel sabato diventa un precetto (il precetto del piacere).

I maestri ebrei definiscono l’unione sessuale “la pace della casa”.

V. 28 Il Dio creatore è un Dio che benedice, che trasmette vita, la sua stessa vita.

La benedizione contiene 5 imperativi: siate fecondi (=prh), moltiplicatevi (=rbh), riempite la terra (=ml’), soggiogatela (=kbs), dominate (=rdh).

Contesto esilico e immediatamente post esilico:

– al popolo che si sente sterile (Is. 54, 1-3) viene detto “siate fecondi”;
– al popolo che si sente senza eredi viene detto “moltiplicatevi”;
– al popolo che ha dovuto abbandonare la propria terra viene detto “riempite la terra”;
– al popolo che subisce la dominazione straniera viene detto “soggiogate la terra”;
– al popolo sottomesso viene detto “comandate-dominate”.
APPUNTI CONCLUSIVI.
Antropologia duale: maschio e femmina sono anthropos.
Se essere uomo o essere donna sono due modi differenti dello stesso essere umano, anche sul piano del fare ci sono due modi di fare differenti dello stesso fare umano.

Gn. 1, 28 Dio assegna lo stesso compito a: uguali sul piano dell’essere (entrambi immagine e somiglianza), ma diversi su quello del modo di essere.

GENESI 2

Gn. 2, 7: “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”.

Questo Adam è l’essere umano indifferenziato (né maschio né femmina) nelle componenti essenziali che lo legano alla terra (da cui è tratto).

Tale essere umano indifferenziato è ancora una creatura incompleta, non ha raggiunto la pienezza della propria umanità.

In Gn. 2, 6 l’autore scrive che un’esalazione esce dalla terra e inumidisce la superficie del suolo.

La terra è “Adamah”, cioè il femminile di “Adam”.

L’Adamah secerne un’umidità grazie alla quale Dio “modella/forma” l’Adam.

Polvere =(aphar) sono quelle particelle di terra separate dalla superficie che basta un soffio per disperdere, far volare via.

Ciò che fa della aphar un essere vivente (=nephesh hayyah) è l’alito di vita (=nishmat hauuim).

Ecco perché spesso nell’A.T. l’uomo è ricordato come un soffio-ombra-erba che presto appassisce…

Nephesh non è qualcosa che Adam possiede (come anima-spirito…) ma come qualcosa che lo costituisce.

Fondamentalmente significa gola, cioè organo vitale insieme alla bocca.
755 volte nell’A.T. 600 volte nella LXX ed è tradotto con psychè.

La prima consonante è “Alef” che numericamente significa “Uno” e cioè “unità/comunione”.

Segue “Dam” che significa “sangue” e cioè la “vita dell’uomo”.
“Adam” è il progetto di comunione di Dio che vuole l’uomo partecipe della sua intimità.

La tradizione rabbinica parlava di un pentagramma come originale nome di Dio con al centro la lettera “Alef”.
Poi l’Alef rompe l’unità e fuoriesce: da ciò il Tetragramma.

Passa nell’Adam per ricongiungersi al Tetragramma e riformare il pentagramma.
Ciò avverrà, secondo la teologia giovannea, nell’ultimo giorno e cioè nella pasqua di Gesù di Nazareth.

V. 8 E’ l’Adam, questo uomo generico, che Dio colloca nel giardino.

La LXX traduce eden con paradeios, dalla parola persiana pardes=giardino.

dn = essere gradevole, delizioso.

Il sonno profondo di Gn. 2, 18-28 richiama le tenebre dell’origine e il processo morte-risurrezione di Adam che sta vivendo una sua nuova creazione.

Il sonno è reso con tardemah che nella LXX viene tradotto con estasi alludendo alla realtà stessa. L’uomo è come fuori di sé.

Come per Dio così per Adam si verifica una “separazione/lacerazione”: dal suo fianco nasce Ishah (=donna-femmina) femminile di Ish (=uomo-maschio).
La lacerazione è un parto.
Dalla lacerazione in Dio ha origine la creazione, dalla lacerazione in Adam ha origine la coppia “uomo-donna”, “maschio (“zakàr=pungente) e femmina (neqebàh=perforata)”.

Chiara allusione agli organi sessuali. La lingua ebraica è descrittiva e perciò parte dalla realtà che vede per raccontare…

Costola=Sela “costato” (2Sam. 16, 13; Es. 26, 35) oppure “cella laterale” (Ez. 41, 6).

E’ un unicum letterario per la nascita della prima donna. Non si trova nulla di ciò altrove.

La donna, estratta dal centro dell’essere umano, appare in modo totalmente diverso dal resto della creazione. In un tempo in cui la donna era proprietà dell’uomo come gli animali (Es. 20, 17).

Per lo J la donna è della stessa realtà naturale dell’uomo.

Dio tolse una costola dall’essere umano. Questo verbo è usato in contesti di elezione e di chiamata. Cioè esprime la volontà di Dio.

Prendere-togliere-chiamare=lqh Plasmare=bnh

Abramo fu chiamato dalla casa di suo padre (Gn. 12,1): è usato lo stesso verbo.
Davide fu chiamato dalla pastorizia (Sl. 78,71).
La chiamata di Amos (Am. 7,15).
Il popolo è chiamato dall’Egitto e dalla dispersione tra le nazioni (Ez. 36,24).

La donna è tolta allo stesso modo in cui l’uomo è stato preso e posto nel giardino.

V. 19 gli animali sono qualificati come esseri viventi (letteralmente “soffio di vita” come per l’uomo).

V. 22 “Dio plasmò con la costola…”

Il verbo non indica il modellare (=ysr), ma costruire (=bnh). E’ il verbo che si usa per costruire torri-altari-fortificazioni. Indica un enorme lavoro che produce solidi risultati.
Modellare richiama l’azione del vasaio.
Costruire, quella dell’architetto. Si sta indicando il culmine della creazione.

Gn. 2, 23: “Allora l’uomo disse: Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta”.

Labano dice a suo nipote Giacobbe: “Davvero tu sei mio osso e mia carne” (Gn. 29, 14)

Forma idiomatica per indicare la stretta relazione parentale: stessa famiglia, stessa tribù.

Anche: Is. 58, 7 L’uomo deve considerare il suo prossimo come la propria carne.

L’essere umano è differente in se stesso: ciò che si chiamava adam, ora si chiama uomo (ish) perché di fronte c’è la donna (isshah), e in questa relazione scoprono la propria origine comune.

Dal riconoscimento della differenza, nasce la relazione io-tu, base di ogni altra relazione.
Nessuno può identificare se stesso senza identificarsi di fronte all’altro.

L’altro è come noi e allo stesso momento oltre di noi.

E’ nel sonno/estasi che nascerà l’altro come specchio dell’io. In questa ammirazione si percepisce la differenza unificante. L’ammirazione dell’altro porta ad un uscire da sé volontario che si trasforma nell’attrazione:

“Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gn. 2, 24).

Il riconoscimento dell’altro rendeva possibile la conoscenza di sé.
Ora il desiderio si traduce in movimento.

Questo movimento porta ad uscire dalla sicurezza (padre-madre) per assumere il rischio di andare verso l’altro: è la vocazione all’unità e alla comunità (comunione).

Il verbo “unire (=dbq)” dice un’adesione vitale.

Dall’indifferenza anonima dell’esistenza solitaria, alla relazione libera nel rischio dell’incontro…

Dalla solitudine, al lasciarsi guardare, all’esporsi allo sguardo dell’altro.

“Questa” in ebraico è “zot” Questa volta=zothappa’am.

Dal libro del Levitico: “vezot haberakah”=la benedizione è zot”.
La benedizione è ciò che l’uomo vede uscire da sé compiacendosene.
Dal sonno profondo, segno del morire, al risveglio con davanti a sé tutto ciò che aveva nel “ventre/dentro di sé”.

Vedendo la sua interiorità proiettata davanti a sé, vede lì la sua benedizione (creatrice) e gioisce come ha gioito Elohim quando l’Adam è uscito dalla propria “rottura/lacerazione” creatrice.

La solitudine dell’Adam dei vv. 18-20 “non è bene che l’uomo sia solo” non è quella dell’uomo che ha bisogno della donna in un rapporto funzionale/strumentale (procreazione…), ma l’aiuto a lui corrispondente è l’altro a cui si racconta e a cui ci si pone in ascolto.

Se vogliamo essere pignoli, l’Adàm/umanità era qualcosa di imprecisato e Dio di fronte a ciò dice: “Non è venuto bene” (questa è la traduzione esatta). Dio si rende conto che l’Adam non gli è venuto bene.

Cioè l’Adàm solo non è cosa buona, non è riuscito bene, “facciamolo rapporto-relazione”, questo significa “facciamogli un aiuto che gli sia simile”.

Aiuto=ezer (è un termine che non dice subalternità, mai nella bibbia è usato per designare un essere inferiore, ma indica l’azione di Dio stesso che è azione di salvezza).

Aiuto adatto=ezer kenegdo. Adatto è reso con kenegdo.

Neged significa stare di fronte a qualcuno, in sua presenza, al suo fianco, in una relazione di reciprocità, mutualità.

Ma anche:

Il testo ebraico parla di “kenegdo” che significa: “rendiamolo capace di guardare negli occhi, di consegnarsi, di raccontarsi”.

Se non diventa rapporto, significa che non è riuscito bene.

L’Adam di fronte alla donna diventa uomo, dalla relazione con l’altro all’auto-comprensione di sé.

Due esseri identici non hanno nulla da donarsi per arricchirsi vicendevolmente, nulla che l’altro non abbia già.

La creazione dell’aiuto adatto mette l’essere umano nella prospettiva della comunicazione, condizione necessaria per creare la comunione.

E’ apertura: l’altro è il portatore di un’alternativa…

V. 25 La comunione di essere una sola carne (=basar) è il frutto di una comunione liberamente scelta.

Questa coppia è una coppia di relazione senza confusione. Abbandono del padre-madre per unirsi alla moglie: una rottura in vista di una comunione in libertà.

La nudità=vulnerabilità/fragilità è aiutata dalla mutua forza di attrazione.
Le molteplici relazioni:
– relazione con Dio (di creatura);
– relazione con la terra (da cui si è formati-vita-lavoro relazione di cultura);
– relazione con gli animali (a cui l’uomo dà il nome… relazione di potere e di dominio);
– relazione con l’altro. Relazione esclusiva con qualcuno della stessa natura e identità.

Non è qualcuno da cui si riceve la vita e a cui bisogna obbedire; non è qualcuno che si deve coltivare come la terra, né creatura da dominare come gli animali.

E’ una relazione di comunione-alterità-mutualità-reciprocità.

Con la creazione della donna appare l’unica relazione capace di far sì che l’uomo si identifichi come tale.

L’essere umano trova la sua identità solo per mezzo della differenza nell’uguaglianza, cioè nella equivalenza.

Genesi 2 ci offre una parabola della vita come comunione, risurrezione, incontro: la vita è unità e ammirazione della e nella differenza.
Sintesi conclusiva
L’uomo (=adam) è creato stavolta dalla terra (=adamah), da Dio stesso presentato come un vasaio che modella la polvere della terra la quale, secondo la tradizione rabbinica, sarebbe la polvere cosmica o quella dove sarebbe sorto il Tempio di Gerusalemme.

Vi è poi il soffio vitale che Dio gli ispira nelle narici per vivificarlo.
La menzione dell’albero della vita e della conoscenza del bene e del male come pure dei 4 fiumi (vedi Sir. 24) possono essere richiami di natura sapienziale, allo stesso modo del giardino (=gan).
Inoltre la menzione dei fiumi si potrebbe legare al fiume che fuoriesce dal tempio in Ezechiele.

L’uomo è messo lì per lavorare e custodire: ma siccome tutto era già pronto e non v’era bisogno di lavoro, la tradizione ebraica pensa si tratti del culto (preghiera) e del Talmud Torah.

L’uomo nomina, definisce e prende possesso partecipando, per volere di Dio, alla sua stessa opera creatrice attraverso la parola.

La creazione è ancora muta e priva di senso se l’uomo non la definisce e se ne “impossessa” attraverso un atto di linguaggio che fa uscir fuori le cose e gli animali dal silenzio dell’intimità divina.

Tutto questo proviene dal fatto che non è buono (tob) che l’uomo sia solo: deve avere qualcuno kenegedo, cioè che gli stia di fronte.

Non trovando questo “di fronte” negli animali, Dio pensa alla donna: ed anche se nella preghiera ebraica l’uomo ringrazia di non esser nato donna, è pur vero che la donna è tenuta in alta considerazione nella tradizione di Israele, la quale afferma che senza la donna l’uomo è senza aiuto, senza gioia, senza benedizione, senza perdono, senza vita, senza benessere e diminuisce la somiglianza.

Da notare isshah da ish, stessa radice: uguaglianza e complementarità. Si insiste poi sull’attrazione sessuale e sull’alleanza tra l’uomo e la donna nella loro carne per cui i due saranno una carne sola.

Viene dunque esaltato il valore della corporeità. La nudità è simbolo di debolezza e perciò di dipendenza, anche di infedeltà (il popolo nudo è quello che ha tradito l’alleanza) e quindi indica l’idolatria, la prostituzione alle divinità straniere.

Figlio inizia con la lettera “bet” (seconda lettera dell’alfabeto e valore numerico 2) che è la prima lettera (berescit) del racconto della creazione secondo Genesi.

La lettera è aperta in avanti (al futuro) e non indietro (al passato) e ciò significa, per la tradizione rabbinica, che Dio è colui che sta davanti al popolo a creare la sua storia come è davanti alla creazione che continua con la sua azione.

La creazione non è un fatto che appartiene al passato, ma la continua azione di Dio con la collaborazione dell’uomo.

La lettera “bet” richiama il Dio che esce per creare la sua storia con l’uomo. L’uomo è oggetto della benedizione di Dio per cui è capace di collaborare alla sua creazione. Generare il figlio significa realizzare questo processo creativo.

Per il popolo ebreo la famiglia è la struttura costitutiva non in quanto istituzione legale, ma in quanto realtà che nasce dall’intima comunione di Elohim con Adam.
Ecco perché il matrimonio è chiamato nel mondo ebraico: santificazione.
GENESI 3
In Gilgamesh il serpente è un ladro; per i cananei ha poteri magici di fecondità; in Egitto si oppone al dio sole che mette in fuga la notte e fa sorgere la vita; sulla fronte del faraone diventa emblema del potere politico-diplomatico…

L’autore J prende quest’animale dal suo ambiente culturale in cui occupa un ruolo positivo legato alla vita e lo connota d’elementi negativi.

La radice ‘rm significa “essere astuto-essere nudo”.
Il serpente (=arum) fa sì che l’uomo e la donna si sentano nudi (=arumin).

V. 6 Alla donna il frutto appare come: appetibile al gusto; esteticamente gradevole; efficace per acquistare saggezza.
La donna: prende il frutto; lo mangia; ne dà all’uomo.

V. 8 Qui Dio appare per la prima volta. Fino ad ora l’unico dialogo è stato fra la donna e il serpente.

Attenzione al substrato sapienziale usato dallo J che si caratterizza da una tendenza generalmente misogina in cui alla donna non vengono attribuite funzioni né al tempio né nella sinagoga (…) in cui la donna è proprietà dell’uomo (cfr. ripudio).

Dio non li sta cercando né li insegue per punirli: passeggia (=mithallek) nella brezza (=ruah).

Il termine ruah era già apparso in Gn. 1, 2 (P), ora è la prima volta in J.
VV. 9-10
Fino ad ora Dio aveva preso e lo aveva collocato nel giardino (Gn. 2, 15); aveva tolto la costola (Gn. 2, 21); ora lo chiama: “Dove sei?”

La risposta dell’uomo: ho udito il tuo passo; ho avuto paura; sono nudo; mi sono nascosto.

Alla semplice domanda di Dio, iniziano i distinguo da parte dell’uomo.

Nudità – paura – aggressione – accusa.

Sentirsi nudo significa riconoscersi insicuro, debole, impotente, infelice.
Is. 47, 3; Ger. 13, 26; Ez. 16, 37; Os. 2, 12; Na 3, 5.

Vergogna (=bss) in Gn. 2, 25 traduce la confusione.

Am. 2, 16; Dt. 28, 48; Gb. 24, 7-11: la nudità, associata alla fame e alla sete, è considerata come una privazione.

V. 12 L’uomo non accetta la propria responsabilità. E’ la rottura della reciprocità.
L’uomo sta dicendo che stava meglio quando era solo perché sicuramente non avrebbe mangiato.
Per lui è la donna ad essere l’unica responsabile.

Il testo non mette in bocca all’uomo “la donna che tu mi hai dato come aiuto”, ma “la donna che tu mi hai posto accanto”.

V. 13 Anche la donna rinuncia alla propria responsabilità e accusa il serpente.

VV. 14-15 Dio maledice il serpente: il serpente astuto (=arum) è ora il serpente maledetto (=arur).

Dal ventre nasce la vita, ma il ventre del serpente si riempirà di polvere (=aphar) di morte.

Interessante: il serpente era il più astuto tra gli animali e ora è maledetto tra tutti gli animali; aveva suggerito l’idea di mangiare ed è lui che dovrà mangiare la polvere; si era rivolto alla donna e ora ci sarà totale ostilità con la stirpe della donna che alla fine vincerà.

La teologia dello J è la teologia della promessa/speranza.

Per lo J la donna è capace di vincere, come erede della promessa: Debora, Giaele, Ester. Giuditta.

La promessa della vittoria è presente al centro dell’esperienza della morte.

V. 16 Qui non c’è maledizione. Il giudizio contro la donna è un solo versetto, quello contro il serpente due versetti e quello contro l’uomo tre versetti.

In Gn. 2, 24 la seduzione della donna metteva in movimento l’uomo, qui invece la donna è spinta verso il marito con un desiderio mai soddisfatto e a causa di questo desiderio sarà dominata.

“Una sola carne” di Gn. 2, 25 che esprimeva unità/comunione si trasforma ora in dominio.

VV. 17-19 L’uomo creato per ascoltare la voce di Dio, ha ascoltato la voce della moglie e (…) anziché obbedire a Dio ha obbedito a lei.

Cfr. Abramo ha ascoltato la voce della moglie e ha agito negativamente nei confronti di Agar e Ismaele…

L’uomo che poteva mangiare di tutti gli alberi del giardino, ora mangerà solo ciò che riuscirà a tirare fuori, con fatica, dalla terra.

Dato eziologico.
Le sentenze di Dio rispondono ad una serie di domande umane: perché il parto di un bambino è doloroso? Perché nel matrimonio domina l’uomo (cfr. ripudio)? Perché la vita dell’agricoltore e del pastore è tanto dura?

“Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita” richiama la fatica dell’agricoltore che lavora il terreno di Giudea.

“Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre” richiama la fatica del pastore beduino nel trovare pascolo in terra di Giudea.

Attenzione: non è il lavoro che risulta maledetto, ma le condizioni in cui deve essere realizzato. E ciò non dipende da una maledizione da parte di Dio, ma dalla realtà del territorio in cui si vive.

V. 20 L’ultima volta che l’uomo ha parlato è stato nel v. 12 per accusare la moglie.

Ora le dà un nome: Eva (=hawwah). Eva, che significa vita, in ebraico è sempre al plurale.

L’uomo si sta confrontando con il limite-la fatica-il ritorno alla terra e vede la donna come la vita (=la madre di tutti i viventi).

Hawwah è la forma arcaica di hayyiah (=vivente).

Interessante: in Gn. 2, 23 l’uomo (=ish) di fronte alla donna la chiamerà “donna/moglie” (=issah). Qui la chiama “madre di tutti i viventi” e non chiama se stesso “padre”.

Gn. 4, 1: “Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse: Ho acquistato un uomo dal Signore”.

Eva non attribuisce al marito la nascita di Caino, ma a Dio.
Interessante: per lo J il compimento della promessa è sempre un dono di Dio.
Sara-Rebecca-Rachele (e altre) erano sterili, ma Dio ha ascoltato le loro suppliche.

La fecondità-vita può venire solo da Dio.

Adamo chiamò (=qr) Eva: stesso verbo utilizzato quando Adamo chiama gli animali e li riconosce come esseri viventi (=nephes hayyah Gn. 2, 19); quando Dio chiamò l’uomo dopo che ha mangiato il frutto.

Questo “chiamare” conferisce un’identità in relazione: colui che è chiamato, di fronte a colui che chiama.
Appunti conclusivi.

In Gn. 3 non esiste una teoria del peccato né compare il termine peccato.

Qui, attraverso la menzogna (ciò che il serpente dice alla donna per convincerla a prendere-mangiare), viene presentato un cammino di allontanamento da Dio e dall’altro (l’intimo a sé).

Il serpente presenta un volto falso di Dio, geloso dell’uomo. Un Dio tirannico che suscita la sete di potere nell’uomo, portandolo alla totale confusione.
Tutti i rapporti della creazione vengono rotti.

L’essere umano, che era stato preso ed eletto per coltivare e custodire il giardino, ora si dedica a mangiare (15 volte nel capitolo).
Coltivare-custodire il giardino:
a) Lavorare-coltivare la terra (=’bd) si usa per parlare del servizio reso a Dio (ebed JHWH del DeuteroIsaia).

b) Custodire (=smr) è abitualmente in relazione con l’osservanza dei comandamenti (=miswot).

Cioè: il compito dell’adam, come abitante del giardino, è quello di mettere in pratica la Legge di Dio con la propria vita.
Mangiare: relazione Legge-alimento-tentazione:
a) Cfr. Es. 16 il popolo vuole conservare la manna per mangiarla il giorno dopo, ma ciò non è possibile perché la manna è dono di Dio per la fame del popolo e non possesso del popolo.

Quindi: il vero alimento è la Legge di Dio, la sua parola, e non il giudizio dell’uomo.

“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt. 8, 3; Mt. 4, 4).

Il voler mangiare indica il desiderio di possedere: la tentazione del potere totalitario (cfr. Ez. 28, 1-10 da leggere): voler mangiare tutto e di tutto senza limiti.
Il ruolo della donna come capacità di mettere alla prova le debolezze dell’uomo è presente nella teologia dello J:

a) Betsabea che mette alla prova Davide che viene rimproverato dal profeta Natan (2Sam. 11-12);
b) Le donne straniere porteranno all’idolatria Salomone (1Re 11, 1-13).

Eva è vista come speranza di vita quando l’uomo deve affrontare la morte: “polvere sei e in polvere tornerai”.

Attraverso la donna, risorge la speranza dell’umanizzazione dell’essere umano.
Ulteriori appunti conclusivi a Gn. 3-4
Al racconto J della creazione fa seguito la drammatica narrazione della trasgressione dovuta all’apparizione del serpente, il quale – secondo il testo biblico – era la più astuta tra tutte le bestie create da Dio, dove il termine è lo stesso indicante in 2, 25 la nudità di Adamo ed Eva “arum-arumin”, per cui si viene così a stabilire un legame lessicografico che si amplia sino alla scoperta della nudità da parte dell’uomo e della donna in 3, 7.

Il serpente, o meglio il drago (così andrebbe tradotto il termine ebraico nahash), è designato come uno degli animali creati da Dio. Nelle antiche civiltà orientali il serpente rientrava nei culti idolatri ed era considerato simbolo della immortalità e della fertilità (la radice ebraica “nahah” oltre a “serpente”, significa pure “indurre in tentazione”): in tal senso sarebbe interessante studiare quale legame vi possa essere tra il nostro episodio e quello dei serpenti e del serpente di bronzo in Nm. 21,4-9.

Se si traduce il termine nahash con drago e lo si fa così entrare della schiera degli animali mitologici, che appaiono anche in Giobbe, nei Salmi e nei Profeti (Sal. 74, 13-14; 104, 27; Gb. 3, 8; 40, 10.20; Is. 27, 1 ), che Dio crea e con i quali gioca, ma che dovrà distruggere a causa della loro rivolta a Dio e del loro costante tentativo di guastare o turbare la sua opera, allora si dovrà considerare questo essere come la personificazione di ciò che non rientra nel quadro della creazione e che potrebbe essere ritenuto un “residuo” o un figlio del caos, vale a dire il male che, contrapposto al tov, l’uomo ritrova dinanzi a sé.

Rimane comunque un dato pacifico che il serpente, divinità magica della fertilità e della vita, diviene autore del male e scagiona Dio stesso dall’accusa di aver voluto provare l’obbedienza di Dio al suo ordine: così infatti lo leggerà Sap. 1, 13; 2, 23-24; Sir. 15, 11-15.

L’astuzia del serpente e la nudità di Adamo ed Eva in ebraico sono espressi con lo stesso termine arun. Ciò si spiega col fatto che la nudità dei lottatori li rendeva inafferrabili, ciò che, psicologicamente, è proprio dell’astuzia.

Le parole del serpente sono un’abilità retorica: falsando il comando di Dio attraverso l’estensione della proibizione a tutti gli alberi del giardino, il serpente spinge la donna a difendere Dio puntando la proibizione solo sull’albero che sta in mezzo al giardino.

Ma proprio questo è lo scopo del serpente, che alla fine si svela e invita la donna a mangiare dell’albero con la promessa che lei e Adamo diventeranno come Elohim, cioè come esseri divini.

Secondo le parole del serpente, la proibizione è dovuta all’invidia di Dio, tema ricorrente nella mitologia antica; allo stesso motivo mitologico appartiene la menzione dell’albero sacro, che nella mitologia canonica, contro cui lo “J” polemizza, tiene un posto importante.

La conoscenza del bene e del male, che si tradurrà nella conoscenza dello stato di arumin da parte di Adamo ed Eva, non è teorica, ma esperienziale.

A questo punto il serpente si sottrae e la donna, rimasta sola, conosce che l’albero è:

a) “appetibile a mangiarsi”, lo stimolo grossolano dei sensi;
b) “seducente per gli occhi”, l’attrazione-tentazione estetica;
c) “desiderabile per acquistare conoscenza”, la tentazione suprema e più sottile e che l’autore della 1Gv. 2, 16 tradurrà con “la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita”.

La donna dà del frutto al suo uomo, la cui innocenza non era quella di un bambino.
Secondo un midrash Adamo sarebbe stato creato bambino, secondo un altro invece le sue dimensioni cosmiche sarebbero state diminuite da Dio dopo il peccato.

L’apertura degli occhi e la conoscenza della nudità si rivela come l’esperienza del male indotta dal serpente, mentre tutta la tradizione biblica invita a conoscere il bene non il male (Os. 4, 1; 6, 6; Mic. 6, 8; Prov. 3, 4; 4, 21; 13, 15; 19, 2. 25.27).

Alla fine del libro del Deuteronomio Dio stesso invita l’uomo a scegliere tra il bene e il male che gli sono posti innanzi (Dt. 29, 15-20). E’ l’unione confusa di bene e male che il serpente vuole realizzare che è ritenuta un abominio (cfr. Dt. 30, 15).

Ridurre la trasgressione ad un peccato di ordine sessuale è un’operazione impropria ed irrispettosa del testo, anche se così lo ha letto la tradizione ebraica, la quale afferma che il serpente avrebbe voluto uccidere Adamo e possedere Eva, e la tradizione cristiana.

In realtà qui si ha una chiara polemica contro i culti cananaici della vegetazione, rappresentati dal serpente, per difendere Dio come unica fonte della vita.

La presenza della donna è dovuta al fatto che essa è la prima interessata nello spazio della fecondità. D’altronde, alla nascita di Caino, Eva riconoscerà che la vita viene da Dio affermando: “Ho fatto un uomo con Dio”.

Le sentenze di punizione sono nell’ordine contrario a quella dell’interrogatorio ed hanno un significato eziologico.

– Anzitutto, quella relativa al serpente cerca di spiegare semplicemente la sua forma.
– Più interessante è la storia della inimicizia tra la donna e la sua stirpe e il serpente e la sua stirpe (=seme).

Il termine “seme” non può intendersi come un singolo, ma come “posterità” (Von Rad).

Qualche studioso mette in relazione questo passo con le promesse della posterità davidica attraverso la donna di Is. 7, 14 e Mi. 5, 2 anche in base al fatto che la “J” scrive nel X-IX secolo alla corte.

Da notare che il termine inimicizia (=ebah) nell’AT è poco usato: solo 5 volte (Gn. 3, 15; Nm. 35, 21-22; Ez. 25, 15; 35, 5) ed indica, soprattutto in Ezechiele dove si aggiunge l’aggettivo “eterno” uno stato permanente e radicale di odio e di ostilità.

Ancora il verbo “suf” ha sia il senso di stritolare, schiacciare, sia quello di spiare, attentare.

L’uomo e la donna non sono maledetti come il serpente. La donna dovrà convivere con tre realtà angustianti e minacciose per la sua vita:
1. dolori del parto
2. profondo desiderio dell’uomo
3. nel quale però non troverà appagamento e pace.

Rashi così commenta: “L’atto coniugale la donna potrà prenderlo con il cuore; l’uomo invece con la bocca, ordinandolo a lei”.

A. (vv. 17.19 ab): “Maledetto sia il terreno per causa tua! Con pena ne trarrai il cibo tutti i giorni della tua vita. Col sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai al terreno dal quale fosti tratto”.

B. (vv18.19 c): “Spine e triboli ti produrrà e tu mangerai l’erba del campo perché tu sei polvere e alla polvere ritornerai”.

– “A” si richiama alla condizione degli agricoltori.
– “B” al beduino della steppa.

I due furono uniti con l’effetto di indicare la fatica dell’esistenza umana. Il lavoro come punizione dell’uomo da parte di Dio si ha anche in miti vicini (cfr. Esiodo, Le Opere e i Giorni). Della morte se ne parla solo accidentalmente. Essa non è la pena del peccato, giacché non scatta dopo la trasgressione del comando, ma la naturale conclusione della vita che, dopo il peccato però, acquista un carattere tenebroso.

Il nome Eva dato da Adamo alla sua donna si lega all’ebraico “vivere”: la donna trasmette e conserva al di là della fatica e della morte il miracolo e il mistero della maternità, il che sarà una costante nella tradizione biblica. Il legame Eva-vita potrebbe essere stato suggerito da un racconto anteriore con soli 2 attori, l’uomo e una divinità a forma di serpente, il serpente, in aramaico detto “hewja”.

Alla fine l’uomo e la donna sono posti fuori dal paradiso, dove l’albero della vita, che ritorna, è custodito dai cherubini, figure mitiche babilonesi, e dalla fiamma della spada folgorante, cioè il fulmine. Per Sacchi, l’allontanamento dal giardino si ispira al tema della rottura dell’alleanza, che comportava per Israele l’abbandono della terra donatagli da Dio (Dt. 11, 17; 28, 15-68).

Il peccato della prima coppia non è destinato a rimanere isolato. Il narratore mostra immediatamente l’influsso distruttivo che esercita nei confronti dell’umanità attraverso una serie di brani, primo fra i quali quello riguardante Caino e Abele, figli della prima coppia (4, 1-16).

Il nome di Caino, dal quale deriverebbe la tribù dei Keniti presente all’epoca in cui “J” scrive, significa “lancia” (2Sm. 21, 16) ed è attestato anche nell’arabo antico come nome di persona.

Eva stessa lo lega al verbo qanah, acquistare, che però ha anche il senso di fare.
Abele è legato a “hebel”, il soffio (la vanità di Qoelet) segno del suo tragico destino.

Entrambi offrono il sacrificio, anche se si ignora perché esso sia avvenuto (sulla base di quale istituzione) né di quale tipo si trattasse. Il pastore Abele offre del suo gregge e Caino dei frutti del suolo: Dio gradisce Abele e rifiuta Caino, nel testo senza motivo (il midrash e Rashii diranno che le offerte di Abele erano le primizie, quelle di Caino no).

Inoltre per Abele si usa il pronome suo per dire che si offrì con la sua offerta. In ciò il testo vela una preferenza per la vita nomade ed un disprezzo e una diffidenza per la vita sedentaria.

Caino sarà infatti costruttore di città: e la città nella Bibbia è sempre luogo di violenza e come tale condannato e rifiutato.

L’assenza del dialogo sfocia nella violenza; così pure la frase di Caino: “Andiamo in campagna” è un’aggiunta posteriore. La scena dell’uccisione è drammatica proprio grazie alla sua essenzialità.

La domanda di Dio “Dov’è tuo fratello?” richiama la perdita di responsabilità verso l’altro.

La voce del sangue di Abele grida a Dio e Caino è costretto a fuggire ramingo lontano dalla terra: ma quel sangue diventa per lui riscatto, giacché la sua colpa è troppo grande da portare e pesa sulla coscienza, per cui chi uccide Caino sarà ucciso.
Ma questo è già il perpetuarsi della violenza. Il Signore mette un segno a Caino, il quale però si allontana dal volto di Dio e si stabilisce nel territorio di Nod, che richiama l’epiteto nud “errante/errabondare” dato a Caino.