Scarica qui il formato PDF

 

1. Ricostruire una «sensibilità» del passato?

È stato don Franco, l’amico parroco di Canova, di questa comunità, a proporci questo tema, incentrato sul documento conciliare forse più noto, più «famoso», cioè la costituzione «Gaudium et Spes», che secondo un pensiero corrente rappresenta «l’evento» che simbolica-mente meglio esprime la novità del Concilio Vaticano II (1962-1965).
A suo tempo, agli inizi degli anni Sessanta, nell’opinione pubblica ecclesiastica e non, la convocazione improvvisa e inaspettata del Concilio da parte di papa Giovanni XXIII (1958-1963), venne avvertita come l’intenzione di mettere fine al non-expedit che impediva alla Chie-sa cattolica di farsi carico e di interagire nei confronti delle sfide della modernità. «Si trattava per il cattolicesimo di “abbattere i bastioni”, di abbattere la cittadella fortificata della istituzione ecclesiastica, che subìva il complesso dell’accerchiamento e dell’emarginazione da parte del mondo secolarizzato, pervicacemente orgoglioso di marcare la propria autonomia rispetto all’eredità cristiana dell’Occidente» (M. VERGOTTINI, Introduzione a 40 anni dalla Gaudium et Spes, ed. In dialogo, 2005, p. 6). Sotto questo profilo la Gaudium et Spes è stata recepita come il documento che più incisivamente ha inteso dare corso alla svolta del Vaticano II, provvedendo con urgenza a colmare il divario esistente tra messaggio cristiano e cultura (stile di vita) contemporanea.
Sulla scia di questa opinione si può sostenere che Gaudium et Spes costituisce il docu-mento conciliare più riuscito, proprio in quanto fin dalle battute iniziali la costituzione pasto-rale fa sua l’istanza di un «aggiornamento» non più rinviabile per la coscienza credente, così da inaugurare una rinnovata attenzione alla storia, all’oggi che ci è dato, al legame con gli «altri», nostri compagni nell’avventura dell’esistenza.
Nello stesso tempo si potrebbe anche sostenere che, proprio a causa dei temi trattati, la Gaudium et Spes è il documento conciliare più datato, cioè quello che più lascia trasparire i condizionamenti di una determinata congiuntura storica ed ecclesiale e che, quindi, avrebbe bisogno di un continuo aggiornamento.
È perfino ovvio ricordare che il tempo che ci divide dall’evento del Concilio e dalla promulgazione della Gaudium et Spes (il 4 dicembre 1965) ha portato con sé, davvero, una «rivoluzione» degli stili di vita delle donne e degli uomini che obbligano a ripensare con spirito nuovo tutta la «materia» contenuta in essa, così da condividere il fatto che oggi, per la co-munità cristiana, non basta più «sistemare», bisogna «traslocare», cioè diventa necessario abitare diversamente un mondo diventato diverso.
Ciò che può motivare, allora, la nostra ricognizione della Gaudium et Spes, non è tanto uno sguardo «archeologico», da scopritori di reperti del passato, quanto piuttosto il raccogliere quelle «provocazioni» straordinarie a continuare un dialogo tra Chiesa e mondo, che ne custodisca la fecondità e il dinamismo, con la libertà di spirito che la stessa costituzione con-ciliare ha saputo valorizzare nella sua ricerca.

2. Radiografia della nostra condizione spirituale postconciliare
(La rivoluzione è lontana!)

Mi sembra opportuno, allora, dedicare qualche parola alla nostra «condizione spirituale postconciliare», per cogliere da essa quanto della Gaudium et Spes vale la pena anche oggi di tenere vivo nel nostro cammino di «cercatori di Dio e dell’uomo», che è poi il filo conduttore di quel documento conciliare.
E parlo di «radiografia», non di «fotografia», per dire il tentativo di illuminare gli sfondi, le genesi, le viscere, che altrimenti non si vedono, restano nell’ombra.
Come scrive Elmar Salmann, benedettino tedesco, in un bellissimo libro, intitolato Passi e passaggi nel Cristianesimo, «ci sono probabilmente tante persone che hanno sperimentato il Concilio e il tempo postconciliare come liberazione e rinnovamento, quanto altre che lo hanno vissuto come sconfitta e minorazione. Ed entrambi hanno sempre ragione, ciascuno a partire dalla sua prospettiva: entrambi sono giustificati. Qui si vorrebbe chiarire un poco questa posizione di equilibrio, questa situazione contraddittoria. Rappresentiamoci allora un pastore, di Gelsenkirchen o di Genova, o un portiere comunista di Bari o di un sobborgo di Mosca negli ultimi trenta anni. Che cosa è capitato a questi uomini? Attraverso che cosa sono passati nella storia del cambiamento? Pensiamo ad un pastore che nel 1963 era parroco di 8000
“anime”, come allora si diceva in modo adeguato, attualmente esse sono ancora 3000. Quando egli arrivò, la frequenza della Chiesa si attestava intorno al 45%, ora al 12% – e di 3000. Una carriera, la sua, con il bilancio in rosso. Dunque la Chiesa è chiaramente, nonostante ogni alta lode del Concilio, che a suo modo era kairologicamente necessario, anche una negativa azien-da fallimentare. Questo significa che ha perso un terzo dei suoi clienti nell’Europa occidentale e naturalmente ci si riferisce all’Europa occidentale e non all’Africa o a Ceylon. Che cosa questo possa significare per la storia dell’anima di un normale pastore medio o per la storia di un convento di suore, che ora muore nel corpo vivente, lo si può immaginare» (Ivi, pp.
26-27).

È evidente nel nostro contesto culturale la perdita di ogni sicurezza ideologica (e chi ancora la manifesta lo fa per difendersi, per non sentirsi perduto), ma è ancora più grave l’insi-curezza nei confronti del futuro:

– nessuno sa come si svilupperà il rapporto tra individualità, autodeterminazione e so-cietà nelle forme di vita pubblica e privata (ad es.: nel matrimonio);

– nessun uomo sa se e come nei rapporti plurali di società e di conoscenza un concetto di verità potrà resistere o rinnovarsi;

– nessun uomo sa come potrà alla lunga definire se stesso in relazione al lavoro e al tempo libero;

– nessun uomo sa come andranno le cose con l’industrializzazione e con i problemi
ecologici.
Tutto ciò, ovviamente, gioca un ruolo anche per i credenti e per la loro visione del
mondo.
In questa situazione ci sono due possibilità di comportamento da parte della Chiesa:

– da un lato, ci si può ritirare su una linea fondamentalistica chiara, cioè affermare qualcosa, senza riflettere sulla genesi (l’origine), la condizionatezza storica e la relatività della propria affermazione. Ci sono ampie porzioni di Chiesa che puntano su questa strategia, cosa che è umanamente comprensibile;

– dall’altro, c’è un accomodamento del discorso ecclesiale proprio a ciò che è corrente, concentrando il proprio messaggio su un po’ di umanitarismo, di solidarietà, su Gesù quale amico, quale soccorritore e cose del genere – in sé per nulla false. Ma, e lo si vede subito, anche questa scelta non è priva di ambiguità.

Sono questi i due fronti principali:

– da una parte c’è una Chiesa «antimodernista», che nutre ancora risentimento nei con-fronti della modernità e della contemporaneità e, quindi, nei confronti di ciò che tutti noi per lo più a livello spirituale viviamo e dobbiamo vivere, cioè l’essere uomini, donne, contempo-ranei e post-moderni;

– dall’altra c’è una Chiesa che entra in confidenza, anche se in modo singolarmente curioso e a volte scioccamente, con ciò che è in voga e si lega a realtà che per la decadente modernità sono già diventate quasi obsolete. Spesso la Chiesa accoglie dalla modernità proprio quelle cose che i contemporanei lasciano andare o che giudicano equivoche. Si veda ad esempio il recente pathos ecclesiastico sulla scienza. Dopo sospetti e battaglie di ritirata durate secoli, il mondo ecclesiale festeggia il progresso della scienza proprio nel momento in cui a tutti noi è divenuto chiaro quanto ambigua sia la scienza (basta vedere i risultati della «scienza economica»!). O che il Concilio accolga posizioni dell’Illuminismo – in ogni caso a un livello più basso (diritti dell’uomo, tolleranza, lingua natale, ecc.,) – nel tempo in cui l’Illuminismo (e la sua «razionalità») appare in ribasso.
Si tratta di un processo totalmente bizzarro. E si capisce, allora, la difficoltà, per esem-pio, dei preti e la perdita della loro fisionomia, divenuti per lo più «raffinati» funzionari che non sanno come devono muoversi: da una parte incrociano il sentimento antimoderno della Chiesa e dall’altra l’adattamento a modelli della ormai decadente modernità, in disuso anche presso di essa.
Davvero la situazione è profondamente complicata e difficile. È qui che nasce la do-manda intrigante: quali sono le coordinate del nostro mondo? Ne cogliamo tre: soggettività, l’immagine secolarizzata del mondo, le prospettive possibili.

a) Soggettività

Scrive Elmar Salmann: «La Chiesa prova angoscia rispetto alla libertà e alla contrastante densità dell’esperienza del soggetto, cioè di fronte al progetto dell’Illuminismo. Certamente essa ha accolto qualcosa di ciò: parla oggi di diritti umani, di tolleranza, di libertà di coscienza del singolo (sebbene poi si debba sempre barcamenare, quando per esempio si tratta della sessualità). Ed essa stessa al suo interno incontra molte difficoltà con tutto ciò. Si pensi per esempio alla mancanza di divisione di poteri nella Chiesa: non sussiste alcuna separazione tra potere esecutivo, legislativo e di giurisdizione, ma è sempre la stessa istanza. Quanto in modo elementare appartiene alla consistenza fondamentale della modernità, non è in essa in generale ancora assicurato. Esige verso l’esterno democrazia e divisione dei poteri, cosa che all’interno ancora non vive neppure in modo approssimativo: una situazione precaria, come si vede. Dall’altra parte si deve naturalmente anche dire che il soggettivismo, la ricerca di libertà e di esperienza, oggi, sono forse già giunti ad un limite, che cioè la stessa modernità nella sua fase postmoderna si è spinta sino alle estreme conseguenze e si è già quasi ribaltata. Noi siamo oggi ricercatori di esperienze, vitalmente orientati senza limiti (“Luna Park collettivo”, dice Kohl, non totalmente a torto), urtiamo ad un limite della mobilità umana e di ciò che ci si può permettere a livello di autorealizzazione» (Ivi, p. 30).
Si sa che la Chiesa ha difficoltà con l’ideale democratico, il quale, al momento, non soltanto viene politicamente applicato, ma ci è migrato nell’anima. L’anima stessa è diventata «parlamento», con molte fazioni: noi pensiamo e sentiamo in modo multiprospettico, demo-cratico. Essa viene raccomandata, oggi, dalla Chiesa in modo enfatico e, insieme, gli ambienti che vi fanno riferimento sono molto lontani da questa mentalità.
Ancora, la Chiesa cerca di reggersi su qualcosa di sostanziale, su qualcosa che si op-ponga alla semplice funzionalità di persone e cose e poi continua senza ritegno a presentare un’immagine del prete (e, di conseguenza, del laico cristiano) in funzione del «servizio», cosa che risulta una falsificazione.
«Sorge un’immagine totalmente oscillante tra un sublime e irremovibile tener fermo, che pur sta su piedi di argilla, e dall’altra parte nella prassi un gergo ed una frenesia, dei quali non si sa già più che cosa ne dia ragione. In mezzo a ciò ci si trova un po’ congelati, naturalmente anche più liberi di prima – ciascuno cucina la sua zuppa, cosa che è pure bello: tutto è così cucinato in modo più appetitoso, più soffice, più leggero. Nella cura delle anime i pastori cercano da una parte anche di dire che la Chiesa incentiva tutto ciò che reca gioia all’uomo, ciò che è bello ed umano, dall’altra se la prendono proprio con questo: parlano permanentemente di una “società consumistica”, sono scontrosi e aggressivi. Anche qui mancano un linguaggio ed un atteggiamento che siano abbastanza equilibrati. Non si sa dunque alla fine che cosa fare con il cristianesimo e con la modernità» (Ivi, p. 33).

b) L’immagine secolarizzata del mondo

È la cultura che ha attraversato tutto il secolo ventesimo ed è giunta fino a noi, che ci fa cogliere come sia subentrato, ad un ordine di rappresentazione di tipo gerarchico-sacramentale e a un mondo segnato da una prospettiva centrale, un mondo strutturato multiprospettico e democratico, e questo a tutti i livelli. Alcuni nomi: Proust, Mahler, Schönberg, Picasso… e poi la sociologia di Durkheim, la psicologia del profondo (Freud, Jung), il suffragio universale, la «critica» del linguaggio…
In tal modo non si dà più nulla di centrale, nessun narratore, nessuna oggettività: ecco l’immagine «strutturale» del mondo: concatenamenti e libero gioco… Che cosa si può intro-durre di tutto ciò nella vita della Chiesa e della teologia?
«Pensiamo alla discussione sull’eucaristia: transustanziazione o transignificazione? Modello sostanziale o modello ermeneutico? Al momento sembrano ancora escludersi. Pen-siamo all’intero apparato gerarchico della Chiesa con la sua forza, anche con la sua potente forza nel giusto senso della rappresentazione della doxa, della gloria. Tutto ciò ha qualcosa di impressionante nel duplice senso del termine: imponendosi in modo pesante come il piombo, provocando meraviglia e consolazione al tempo stesso. Passeremo dal modello patriarcale a quello fraterno nella Chiesa? Da una dogmatica verso una mistagogia del cristianesimo, da una morale proibente-prescrivente verso una liberante ed incoraggiante?» (Ivi, p. 37).
A rendere ancora più evidente questa situazione di assenza di un alcunché di centrale, di oggettivo, ci sono anche due passaggi culturali di grande efficacia e consistenza, cui difficil-mente si fa riferimento nei pubblici dibattiti:

– il primo riguarda il primato del pensiero ebraico su quello cristiano: il pensiero
ebraico del secolo appena trascorso significa: impossibilità di una prospettiva centrale, im-possibilità di scrivere una storia di vincitori.
«Si pensi ancora alla sguardo di Kafka, dal basso, dall’ottica della vittima ferita; ad
Adorno e alla scuola di Francoforte, che ci mostrano come ogni affermazione assoluta della verità distrugge troppo e si rende da sé impossibile. Tutto viene visto sempre dall’altra parte. Si riflette subito, appena qualcuno afferma qualcosa in modo troppo convinto, su quali inte-ressi egli nutra, su che cosa nasconda, contro che cosa egli sia effettivamente, che cosa in verità desideri soffocare – e quale posizione ambisce ad occupare. Pertanto non si recepisce più il lieto annuncio della Chiesa.
I giovani hanno una sensibilità acuta per l’attenzione esatta del momento. L’attenzione è l’unico sacramento che oggi resta, la porta attraverso la quale ogni uomo può entrare. Essi sono, dunque, per l’assolutezza del momento e per la relatività del tutto. L’intero ha sempre torto. È sempre dispari, dice Adorno. Non possiamo più in modo veritiero esperire qualcosa di intero, di assoluto, di totale, alcun senso totale.
Al contrario il discorso ecclesiale è ancora sempre determinato dall’antico modo di pensiero: l’“unico Logos”, l’“unico Cristo”, che è il vincitore (nel secolo scorso è stata intro-dotta la festa di Cristo Re e si parla ancora della unità politica dei cattolici oppure di una veri-tà). Con ciò non è detto che un tale pensiero strutturale abbia ragione e che la Chiesa sia nel torto. Qui si descrive solo l’ingranaggio nel quale essa si imbatte» (Ivi, p. 38).

– il secondo è il fenomeno della «riellenizzazione»: il ritorno al mito della Grecia. In-fatti nel postmoderno accade una sorprendente mescolanza di razionalità, tecnica e mistica. Ciascun uomo vuole essere un mistico, vuole avere sentimenti profondi, ma vuole al contempo essere razionale, all’altezza della ragione tecnica: una straordinaria posizione di equilibrio tra irrazionalismo e razionalismo. Lo stesso si dica dell’uomo e della natura, soprattutto sotto il segno dell’ecologia: non si sopporta più l’antropocentrismo ed il centralismo storico del cristianesimo, e si vuole tornare alla natura, circondati dal verde, avere una nicchia… Lo stesso si dica dell’elemento androgino della nostra società, del narcisismo di ritorno, della vita come arrangiamento tra maschio e femmina…
Vi si aggiunga, infine, un’atmosfera gnostico-orfica: il terrestre, l’archetipo, il senti-mentale, l’olistico, qualcosa che oscilla tra scienze naturali ed empatia, e che unisce Est ed Ovest. Si prende un po’ di buddismo e di personalismo, un po’ di meditazione e di fede e ciò che è bello, raffinato, sottile, attraente, ci si può in esso bagnare e cullare. Certamente è diffi-cile ottenere da tutto ciò un concetto di vita e portarlo avanti negli anni – questo è il problema. Al presente ci si muove in qualche modo tra Hermann Hesse, Karl Gustav Jung, Theilhard de Chardin e zen, e a partire da ciò ciascuno mescola la fede a modo suo.

c) Le prospettive possibili

È qui che «potrebbe» tornare in ballo la Gaudium et Spes. Contro l’ordinario risenti-mento antimoderno della Chiesa, che fa male solo a se stessa e la fa essere irrilevante per gli altri, si deve scommettere sul fatto che la modernità e la postmodernità siano un kairos (un tempo opportuno) per la rivelazione di Dio e per la sua presenza. Il Medioevo non era più vicino a Dio e a Cristo della modernità. Il cristianesimo puro non si dà in nessun tempo. Nello stesso tempo la modernità (e la postmodernità) è debitrice di elementi essenziali della Riforma, delle sette, della mistica del cristianesimo (interiorità, pensiero trascendente, democrazia) e il cristianesimo a sua volta si modifica sotto la pressione e il seguito della contemporaneità. Così il tempo postmoderno rappresenta il sacro in modo nuovo, così come resta pure bisognoso di compimento e di redenzione.
Occorre tener conto che gli uomini di oggi reagiscono ancora in modo anticotestamen-tario, pagano, ellenico, almeno per il 90% della loro vita. Il passo nell’effettività del discorso della montagna e del Nuovo Testamento è sempre davanti a loro, perciò l’elemento ebraico, pagano ed ellenico non è oggi qualcosa di inquietante, è qualcosa di normale. La terra pro-messa, la realizzazione del Nuovo Testamento sta ancora davanti anche per gli stessi credenti – ciò è avvilente, ma è anche fonte di consolazione.
Certo, un primo passo da compiere è quello di considerare il cristianesimo non più quale verità ideologica, ma come motivo invitante.
Nel cristianesimo vi è molto da vedere: esso possiede una storia straordinaria, tante cose degne di amore e tanta ricchezza culturale. I misteri che gli appartengono svelano un paesag-gio, nel quale per prima cosa si può a lungo spaziare. Non si deve subito e sempre credere, per una volta si può anche vedere. Che si debba subito ritenere vera la fede è una strettoia. Vi è là moltissimo da scoprire a un primo livello introduttivo al vivere: il cristianesimo come motivo della volontà, incoraggiante, che insegua la scoperta. Che sarebbe, se i misteri del cristianesimo (la Trinità, la creazione, il creato, l’incarnazione, il venerdì santo e la Pasqua, la grazia) venissero offerti e presentati in modo esistenziale, sapienziale, proprio come «motivi»? I cre-denti si risparmierebbero molti spasmi. Un motivo è qualcosa di più forte, non è in alcun modo indefinito, ma ha qualcosa che va verso la direzione del credere, del puntare, della scommessa, del fidarsi. I misteri diventerebbero, allora, spazi e passaggi in cui le donne e gli uomini potrebbero trovare motivi per vivere, per continuare a cercare.
Si dovrebbe trovare gioia in un cristianesimo così riscoperto e allora si potrebbe attra-versare il nostro tempo in modo diverso. E questo sarebbe l’atteggiamento da augurarsi: gioia nell’avventura, gioia nella molteplicità della storia del cristianesimo e delle sue forme, con-fessione della nostra mancanza di linguaggio e un humour che saltelli qua e là tra terra e cielo, tra antico e nuovo, tra angoscia e gioia di una continua scoperta.

3. Conclusione

La rivisitazione della Gaudium et Spes dovrà allora tener conto di questo «mondo muta-to» che ci sta davanti e in cui, contemporaneamente, siamo dentro. Sarà importante una rico-struzione storica, finalizzata a restituire le fila dell’intricato dipanarsi della sua redazione; una ripresa di carattere teologico, che punti a illustrare la novità della lezione conciliare, che sono vive fino al nostro tempo; una rilettura di taglio pastorale, tesa a mostrare quanto il documento del Concilio abbia cooperato al rinnovamento della coscienza credente. L’im-pegno è grande e, tuttavia, merita di essere compiuto da tutti coloro che non rinunciano di far riferimento al Vangelo nella loro esperienza quotidiana.