1° incontro
Canova, 18 gennaio 2008
don Marcello Farina
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1) Introduzione generale

Non è semplicemente una moda quella di tornare allo «stato nascente», al momento aurorale, alla freschezza dell’inizio di una vita, di un’esperienza, di un progetto, di una storia. Si accompagna anche il desiderio di poterne cogliere l’originalità, la purezza e l’integrità, non “inquinate”, per così dire, dai tanti compromessi che la storia chiede continuamente a tutti coloro che la abitano, al di là delle disposizioni d’animo di ciascuno.
Anche la ricerca sulle origini del Cristianesimo e della storia della Chiesa risponde a questa istanza, condivisa da tante donne e tanti uomini nel corso dei secoli passati e diventa “urgente” anche ai nostri giorni, in un’epoca in cui sia il Cristianesimo sia le Chiese sono coinvolti in un grande movimento, culturale e istituzionale, di revisione, di critica, e anche di contestazione, di cui non è certo possibile coglierne interamente gli esiti. Non sono, infatti, retoriche le domande che tanti credenti e cercatori di Dio, accanto a gente pensosa di ogni sensibilità, continuano a porsi: Dove va il Cristianesimo? Dove vanno le Chiese cristiane? Che ne è della Chiesa cattolica nel nostro tempo? Le domande incalzano, così come le risposte, che sono molte, se si osserva l’enorme quantità di pubblicazioni, di libri, di analisi prodotte in questi ultimi anni.
Così si ritorna a interrogarsi, come si è fatto tante altre volte nella storia, sul momento d’inizio, sui primi secoli del Cristianesimo e dell’istituzione-Chiesa, con il desiderio e la speranza che da lì nascano ispirazioni, atteggiamenti, sensibilità, “modelli”, “risorse” spirituali e materiali (soluzioni) e il conseguente coraggio per far fronte ai problemi di oggi.
Se i nostri sono tempi turbolenti, non lo erano anche i primi secoli? Se il nostro disorientamento è grande, come ha saputo la prima comunità cristiana confrontarsi con un mondo di differenti culture e offrire ad esso una testimonianza profondamente umana, portatrice di nuove energie e valori?
Affrontare la questione in tutta la sua importanza e vastità significa introdursi in una ricerca che si presenta molto complicata, non riducibile a schemi prefabbricati, semplificatori, come è, ad esempio, quello che ci presenta una comunità primitiva tutta compatta, unita, pacificata, senza tensione alcuna, o già tutta perfetta nelle dottrine e nei comportamenti. Anche quando ci si avvicina al Cristianesimo e alla comunità cristiana dei primi secoli sono più i problemi aperti che le certezze. Il momento della loro nascita è, come capita per ogni individuo e per ogni società, una tappa di adattamento, di discernimento, di confronto e, insieme, di scoperta della propria originalità, della novità di cui si è portatori. Si può persino dire che ci sono differenti modelli di Cristianesimo primitivo (Gerusalemme, Atene, Roma), con cui le comunità cristiane antiche sono co-strette a confrontarsi, per modellare in unità il volto dell’istituzione dei seguaci di Gesù di Nazareth. Ed è per questo che esiste una letteratura storiografica sconfinata e multiforme su questi argomenti.

2) Uno sguardo d’insieme preliminare

Dal punto di vista della storia delle religioni il Cristianesimo, come l’Ebraismo, come l’Islam, è una religione ‘positiva’, cioè rivelata. La religione cristiana nasce dal tronco di quella ebraica, per opera di Gesù di Nazareth, nella Palestina ormai greco-romana, verso l’anno 30 della nostra era. Per quanto oggi molti studiosi discutano se Gesù volesse veramente fondare una nuova religione e istituire per questo la Chiesa e per quanto altri pongano in termini rinnovati il problema del rapporto tra giudaismo e cristianesimo (tra antico e nuovo Testamento), quest’ultimo resta una religione ‘fondata’ e il suo fondatore è Gesù di Nazareth. È con la comparsa di Gesù, non con la nascita della Chiesa, che ha inizio la nascita del cristianesimo antico.
Ma noi come conosciamo la figura e la predicazione di Gesù? E quale Gesù è realmente alle origini del Cristianesimo?
Le domande sono cruciali, anche perché Gesù non ha scritto nulla. Ciò che di lui conosciamo lo dobbiamo ai suoi seguaci, a coloro cioè che in seguito all’esperienza della risurrezione hanno visto in lui il Messia e il Figlio di Dio. Sono gli evangelisti, il giudeo Paolo di Tarso, altri discepoli che con i loro scritti hanno “ammaestrato” la prima comunità cristiana, cui lo storico deve, naturalmente, aggiungere ogni testimonianza, canonica o apocrifa, letteraria o archeologica, religiosa o profana, che possa gettar luce sulle origini del Cristianesimo. A queste testimonianza va aggiunta anche la riflessione, più teologica che storica, dei cosiddetti Padri della Chiesa dei primi secoli della storia della Chiesa.
I primi quattro secoli, in effetti, costituiscono il periodo delle origini della religione cristiana e della formazione della Chiesa ‘cattolica’ in un contesto prima sostanzialmente ostile (l’impero romano) e poi, con la “svolta costantiniana”, dopo il 313, sostanzialmente favorevole al diffondersi del Cristianesimo dentro la compagine imperiale. Si tratta, evidentemente, della libertà di annuncio della nuova religione, alleata ormai al potere, perché il processo di “istituzionalizzazione” e di “cattolicizzazione” del Cristianesimo si era gia compiuto alla fine del II secolo d.C., in seguito al distacco definitivo dalla tradizione giudaica, alla lotta vittoriosa contro le scuole gnostiche e l’accettazione dell’impero romano come ambito storico per la diffusione del Vangelo (la Lettera a Diogneto ne è la testimonianza più grande e splendida!).

3) La Palestina al tempo di Gesù

Vale la pena di riconoscere fin da ora che per una corretta ricostruzione storica delle origini cristiane è necessario anzitutto conoscere qual era la situazione politica, sociale e religiosa della Palestina al tempo di Gesù.
Sul piano politico-amministrativo la Palestina al tempo di Gesù era divisa. E la re-gione principale del paese, la Giudea, era ormai sotto il controllo diretto dei Romani. Alla morte di Erode, nel 4 a.C., Augusto aveva voluto dividere il territorio palestinese fra i tre figli del re: Archelao aveva ricevuto la Giudea, l’Idumea e la Samaria; Antipa la Galilea e la Perea; Filippo la Batanea, l’Auranitide, la Traconitide e la Gaulanitide. Ma nel 6 d.C., alla morte di Archelao, accogliendo una richiesta che gli era stata fatta dagli stessi Giudei, Augusto aveva ridotto la Giudea, l’Idumea e la Samaria a provincia romana, affidandola a un prefetto (non a un procuratore, come dice Tacito), alle dipendenze del governatore della Siria.
Anche sul piano sociale e religioso la Palestina era divisa. Socialmente il territorio era dominato dalla locale aristocrazia, formata da tre gruppi: i rappresentanti delle più potenti famiglie sacerdotali, gli “anziani”, cioè i membri delle più ricche e influenti famiglie patrizie del paese, e i più eminenti dottori della legge; gli Scribi, che studiavano e insegnavano la Torah. Questi tre gruppi costituivano il Sinedrio, cioè l’organo di governo e il supremo Tribunale della comunità ebraica (di cui i Romani e lo stesso Erode ne avevano ridimensionato il potere). Vicini a questa aristocrazia erano gli Erodiani, cioè i sostenitori della dinastia di Erode, e poi i ceti medi e popolari, cioè piccoli commercianti, artigiani, contadini, accompagnati da una gran massa di poveri e di diseredati, donne e uomini di una religiosità semplice e genuina, fatta di abbandono fiducioso in Dio e di speranze messianiche di liberazione nazionale.
Religiosamente, poi, il mondo giudaico è tutt’altro che omogeneo. Nelle sue opere (la Guerra giudaica e le Antichità giudaiche) Giuseppe Flavio, storico dell’epoca, indica “quattro scuole”, quattro ‘filosofie’ nelle quali secondo lui si divideva il giudaismo del suo tempo: i sadducei, che costituiscono la parte più tradizionalista e conservatrice della religione giudaica, l’espressione dell’aristocrazia sacerdotale e laica che gravita attorno al tempio di Gerusalemme; i farisei, espressione dei ceti medi e popolari, sostenitori del primato della legge sul tempio, una legge che deve saper interpretare i nuovi bisogni religiosi del popolo attraverso la fedeltà alla tradizione dei padri; gli esseni, oggi identificati dalla stragrande maggioranza degli studiosi (ma senza assoluta certezza) con la comunità di Qumran sul Mar Morto (con i loro documenti scoperti nel 1947), separati polemicamente dal giudaismo ufficiale, soggetti a una rigida regola di vita comune; e i seguaci di Giuda il Galileo, che si distinguono per l’amore appassionato della libertà che li spingono a ribellarsi al dominio straniero, quindi ai romani in particolare e si confondono con il partito dei sicari e degli zeloti (anche se questi ultimi sembrano distinguersi per una visione più spirituale, in nome della fedeltà assoluta alla legge mosaica).
Ma ai dati di Giuseppe Flavio bisogna fare, oggi, almeno due integrazioni: quella che si riferisce alla comunità di Qumran, la cui scoperta si è rivelata di importanza straordinaria per una migliore comprensione del cristianesimo delle origini. «In questi scritti della setta si ritrovano infatti tutta una serie di concezioni ed espressioni che gettano luce notevole sulla predicazione di Gesù e la comunità primitiva. Il modo di interpretare la Scrittura, le forme dell’attesa messianica, l’uso di titoli ‘cristologici’, il genere letterario della beatitudine, l’idea di una “nuova alleanza”, aspetti dell’organizzazione comunitaria della setta sono tutti elementi che hanno paralleli evidenti nei testi cristiani delle origini e permettono di ricollocare molte idee e frasi del Nuovo Testamento nel loro ambiente giudaico originario» (G. JOSSA, Il Cristianesimo antico, Carrocci, 2006, p. 19).
E quella che si può chiamare la comunità dei giudei ellenizzati, cioè donne e uomini di lingua greca e di cultura ellenistica, ormai diffusi in tutto l’impero romano e anche a Gerusalemme.
È in questa situazione composita che compaiono in Palestina Giovanni Battista e Gesù di Nazareth. Ci si può chiedere se sia possibile individuare qualche avvenimento che abbia costituito l’occasione particolare per quell’evento. Gli storici ci hanno provato più volte, ma senza successo. La situazione era certo ricca di fermenti e l’attesa messianica era vivissima, ma Tacito afferma nelle Storie che sotto Tiberio in Palestina regnava la calma, mentre l’insurrezione di Giuda il Galileo era passata da circa vent’anni e la guerra contro i Romani era ancora lontana. L’interpretazione “politica” di Gesù, che vuole avvicinare la sia figura a quella dei sicari e degli zeloti (H.S. Reimarus, R. Eisler, S.G.F. Brandon) è allora priva di fondamento. Le motivazioni di Giovanni Battista e di Gesù sono eminentemente spirituali e la loro vocazione è squisitamente religiosa. E dopo il battesimo di Gesù al Giordano ad opera del Battista, la figura di Gesù di Nazareth prende il sopravvento nella narrazione dei vangeli.
Ma come si presentava e che cosa realmente faceva Gesù? Da tutti i testi una cosa appare certa: Gesù non è stato né un maestro che abbia insegnato nelle scuole, né un monaco che abbia vissuto in comunità, né un asceta che si sia ritirato nel deserto. In altre parole egli non è stato né uno scriba, né un esseno, né un battista, ma un predicatore itinerante che girava per la Palestina portando il suo messaggio religioso particolare. Egli è apparso in quella regione nelle vesti e con l’atteggiamento, ai giudei ben noti, di un ‘nabi’, di un profeta, cioè di un uomo ispirato e posseduto da Dio e per questo anche “guaritore ed esorcista”, un ‘taumaturgo’.
La sua predicazione annunciava la venuta imminente del Regno di Dio per tutti gli uomini, non solo per Israele. E Regno di Dio significa la “salvezza” di Dio, non il suo giudizio, ma il disegno di giustizia, di libertà, di pace per le donne e gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo, già presente nella storia e operante attraverso lo stesso Gesù di Nazareth. Anzi, i destinatari di questo “bell’annuncio” erano i “poveri”, i “peccatori”, rispetto ai ricchi e ai giusti. Tutti i valori e le situazioni sociali apparivano così capovolti e l’idea di legge che si era venuta imponendo nella tradizione giudaica, soprattutto con l’insegnamento farisaico, era radicalmente messa in crisi.
Due domande urgono a questo punto:
a) La prima, particolarmente presente nell’esegesi neotestamentaria dell’ultimo secolo, riguarda il problema se Gesù abbia preteso di essere il Messia d’Israele che i Giudici attendevano da secoli. I Vangeli sembrano attestare che nel primo periodo della sua predicazione Gesù non si è presentato come il Messia. L’identità della sua persona era in secondo piano rispetto all’annuncio del Regno. Ma a partire da un certo momento, che l’evangelista Marco identifica nell’episodio della confessione di Pietro (Marco 8, 27-33), Gesù stesso afferma il suo carattere messianico.
b) La seconda domanda, che è come la conseguenza della sua predicazione messianica di liberatore, in nome di Dio, del suo popolo, riguarda il problema di chi ha messo a morte Gesù di Nazareth: il Sinedrio o Pilato, gli ebrei o i romani? E il motivo della condanna è solo politico (Gesù per Pilato era un sedizioso) o anche religioso (Gesù era per il Sinedrio un pericoloso sovvertitore dei valori religiosi e morali della tradizione)? I testi evangelici non lasciano dubbi sul fatto che a condannare Gesù è stato il governatore romano e che la motivazione della condanna è stata politica, ma è il Sinedrio che lo ha fatto arrestare e lo ha consegnato al prefetto con una ragione politica e religiosa insieme.

4) La comunità primitiva di Gerusalemme

Il periodo che va dal 30 d.C. (la data probabile della morte di Gesù di Nazareth) e il 49 d.C. (la data probabile del cosiddetto Concilio di Gerusalemme) è il più oscuro di tutta la storia del Cristianesimo antico. Nessuna fonte ci informa direttamente di quegli anni.
a) Le Lettere di Paolo, che sono gli scritti più antichi del Nuovo Testamento risalgono tutte agli anni Cinquanta e contengono pochissimi riferimenti agli anni precedenti.
b) I Vangeli, scritti alquanto più tardi, si chiudono con i racconti pasquali del 30.
c) Gli Atti degli Apostoli si dedicano più a una ricostruzione teologica che storica e i primi capitoli di essi sono, in proposito, meno attendibili che il loro prosieguo.
Eppure è proprio da Paolo e dagli Atti e dai Vangeli che noi dobbiamo trarre il materiale per tentare di ricostruire le vicende di quegli anni.
C’è subito da dire che la morte di Gesù ha costituito certamente per i discepoli una cocente delusione e ha provocato un grande smarrimento: «Noi speravamo…», ci dice Luca (24, 21). L’idea del Messia sofferente era troppo estranea alla mentalità giudaica del tempo, per poter essere fatta subito propria dalla comunità primitiva e la morte da maledetto sulla croce era troppo scandalosa per non costituire per essa una insuperabile pietra di inciampo.
«Ma poi è avvenuto qualcosa che ha cambiato completamente la situazione. Subito dopo la Pasqua i discepoli di Gesù sono stati protagonisti di eventi straordinari, quelli che le fonti chiamano le apparizioni di Gesù e gli studiosi definiscono le esperienze pasquali. Lo storico naturalmente non può dire che cosa realmente sia avvenuto. Può soltanto constatare che da queste apparizioni, che i testi descrivono non come esperienze psicologiche o come visioni soggettive ma come fatti oggettivi, i discepoli hanno tratto la convinzione che qualcosa di straordinario era avvenuto nella persona di Gesù e che questo qualcosa essi lo hanno espresso con l’idea della risurrezione. La formulazione più antica dell’esperienza che i discepoli hanno fatto con le apparizioni di Gesù è infatti quella, trasmessa da Paolo e da Luca, secondo cui Dio “lo ha risuscitato dai morti”. E con questo essi vogliono dire non che Gesù è tornato a vivere, ma che Gesù è passato da una forma di esistenza a un’altra diversa e cioè, come dice la tradizione, dall’esistenza “nella carne” a quella “nello spirito”» (G. JOSSA, op. cit., p. 32).
La risurrezione ha, però, significato per i discepoli qualcosa di più. In base ad essa, infatti, Gesù è riconosciuto come quel Figlio dell’uomo, al quale nella sua predicazione egli aveva fatto più volte un’allusione abbastanza misteriosa, usando le parole del profeta Daniele (7, 14). Inoltre, e soprattutto, attraverso la risurrezione quel Gesù che aveva ricevuto il potere e la gloria, era ora presente e operante con la sua sovranità nella comunità dei discepoli. Questo è l’inizio vero e proprio di quella che i teologi avrebbero chiamato in seguito la cristologia. Con la risurrezione Gesù viene dunque riconosciuto dai discepoli Signore e Messia e per un tempo abbastanza lungo la comunità primitiva ha sperato che questo Signore e Messia sarebbe tornato presto nella gloria.
Tenuti insieme da questa fede e da questa speranza i discepoli si riuniscono di nuovo a Gerusalemme e danno vita a quell’embrione di Chiesa che è la comunità primitiva, sulla quale secondo la tradizione riportata da Luca, nel giorno di Pentecoste, a inaugurare gli ultimi tempi (l’era escatologica), è disceso lo Spirito Santo con i suoi doni straordinari. Questo è l’atto “ufficiale” di nascita della “comunità di Dio” (ekklesía toú Theoú), l’assemblea dei credenti in Cristo che si considera erede dell’assemblea del popolo di Dio. I caratteri essenziali di questa comunità sono descritti da Luca nei cosiddetti “sommari” degli Atti degli Apostoli in termini fortemente idealizzati:
«Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo» (Atti 2, 42-47).
«La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (Atti 4, 32.35).
La prima comunità cristiana è, allora, una comunità giudaica, unita nella fede del Signore Gesù, della quale si entra a far parte con la cerimonia del battesimo nel nome di Gesù (Atti 2, 38) e che ha il momento culminante della sua vita nella ripetizione della cena del Signore. Questa comunità, caratterizzata soprattutto da una grande solidarietà, ha i suoi leaders negli Apostoli, cioè nei Dodici (a rappresentare l’intero popolo di Israele), accanto ai quali si pongono quasi subito anche i Sette, incaricati del servizio alle mense e anche predicatori e missionari. Con loro gli Atti nominano anche i “presbìteri”, cioè gli anziani, una figura che sembra potersi ricollegare a quella degli “anziani” del giudaismo. Un ruolo particolare poi, accanto a Pietro e Giovanni, che Paolo considera le “colonne” della Chiesa primitiva, assume Giacomo, il “fratello del Signore”, che dopo il Concilio di Gerusalemme diventerà il capo effettivo di quella comunità.
Quanto alla vita di questa comunità, si può dire che essa, esteriormente, non è troppo diversa dalle altre “sette” giudaiche di cui si è parlato sopra: i discepoli osservano la legge mosaica e frequentano il tempio di Gerusalemme. Ma in realtà la loro diversità è grande: essi non sperano più nella restaurazione della monarchia davidica, non partecipano più ai sogni politici e teocratici del popolo d’Israele. La strada del Messia, ormai, non passa per loro per la sovranità e la gloria, ma per l’obbedienza e la croce. Essi non affidano le loro speranze all’osservanza scrupolosa della legge di Mosè, così che nemmeno il ‘partito di Giacomo’ non riuscirà mai ad imporre la concezione farisaica della legge.
Va poi tenuto presente che la comunità cristiana primitiva non è composta soltanto da giudei palestinesi di lingua aramaica, ma anche di giudei di lingua e cultura greca. Sono i cosiddetti “ellenisti” che hanno il loro leader in Stefano. È costui che provoca uno scontro durissimo con le autorità giudaiche di Gerusalemme, con un discorso che è una vera e propria requisitoria di tutta la storia d’Israele (Atti 7, 2-53), che sfocia poi in una vera e propria persecuzione contro la Chiesa da parte del Sinedrio. Ed è qui che si compie una svolta decisiva della comunità cristiana primitiva: la persecuzione, secondo il racconto di Luca negli Atti, tocca solo gli “ellenisti”, non gli Apostoli; sono essi che ora leggono la predicazione di Gesù come la messa in crisi radicale delle istituzioni giudaiche e che quindi sono costretti a fuggire da Gerusalemme e, giunti ad Antiochia, compiono il passo decisivo, annunciando il vangelo anche ai semplici pagani. In questo modo la predicazione cristiana già comincia a staccarsi dalla sua matrice giudaica e tende ad acquistare una dimensione universale. Ad Antiochia i discepoli di Gesù si chiamano per la prima volta “cristiani”. La persecuzione ha compiuto il suo primo grande effetto: ha liberato la Chiesa dal pericolo di diventare una setta.

BIBLIOGRAFIA MINIMA

H. KÜNG, Cristianesimo, 1999, Rizzoli.
K. BIHLMEYER – H. TUECHLE, Storia della Chiesa, vol. 1°, 200314, Ed. Morcelliana.
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G. IOSSA, Il cristianesimo antico, 2006, Ed. Carocci.
Annali di Storia dell’esegesi (23/1/2006), Dal II al VI secolo. Sviluppi e trasformazioni del Cristianesimo, Ed. EDB, Bologna.
D. DEVOTI – G. FILORAMO, I primi cristiani, Ed. SEI, Torino.