Corso tenuto dal prof. Antonio Lurgio
Appunti da incontri presso la canonica di Canova,
PARROCCHIA SAN PIO X
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PREMESSA
San Gerolamo: «Spiegare Giobbe è come tentare di tenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena: più forte la si preme, più velocemente sfugge di mano». È difficile parlare di Giobbe.
Troppo spesso ridotto a un canto della miseria umana e della «pazienza» con cui dev’essere accolta, Giobbe in realtà è un canto della miseria dell’esistere, ma anche dello stupore della fede; è un grido con-tinuo di impazienza, ma è anche la celebrazione di un approdo realizzato su quel terreno dove solita-mente si registrano le sconfitte e le apostasie: il terreno del male.
Nella «Ripresa» di S. Kierkegaard leggiamo: «Se io non avessi Giobbe!… Non posso spiegarvi mi-nutamente e sottilmente quale significato e quanti significati abbia per me. Io non lo leggo con gli occhi come si legge un altro libro, me lo metto per così dire sul cuore e interpreto i singoli passi nella maniera più diversa. Come il bambino che mette il libro sotto il cuscino per essere certo di non aver dimenticato la lezione quando al mattino si sveglia, così la notte mi porto a letto il libro di Giobbe. Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima. Ora svegliandomi dal mio letargo la sua parola mi desta a una novella inquietudine, ora placa la sterile furia che è in me, ora mette fine a quel che di atroce vi è nei muti spasimi della passione» (versione italiana di A. Zucconi, Milano 1963, pag. 117).
Giobbe è una stella polare nella storia del pensiero e della letteratura umana (Péguy). Lo è anche in forme sbiadite, come appare già nel Nuovo Testamento in Giacomo 5, 11 che conia lo stereotipo (d’altra parte già noto al giudaismo) del «Giobbe paziente». Questa tipologia dominerà la tradizione patristica: basti pensare ai 35 libri dei «Moralia in Job» di Gregorio Magno, composti tra il 579 e il 585, che tanta parte ebbero nella tradizione medioevale.
Giobbe sul letamaio, paziente e orante, è il modulo dominante di quasi tutta l’arte cristiana. Scrive-va il poeta francese A. de Lamartine: «Ho letto oggi tutto il libro di Giobbe. Non è la voce di un uomo, è la voce di un tempo. L’accento viene dal più profondo dei secoli ed è il primo e l’ultimo vagito dell’a-nima, di ogni anima».
Lingua e struttura
Ancora Lamartine: «Giobbe ha la lingua del più grande poeta che abbia mai articolato parola umana». Effettivamente Giobbe costituisce da solo una complessa avventura letteraria e un documento poetico di altissimo valore.
a) Stratificazione dell’opera.
Giobbe non è un prodotto fiorito in un unico periodo creativo dalla mente e dalla fede di un unico scrittore, anche se esiste un poeta primario e decisivo a cui deve essere ricondotta la sostanza poetica e religiosa dell’opera che possediamo.
Lo spunto a questo grande artista era stato offerto probabilmente da un racconto popolare avente per protagonista un esotico Giobbe «figlio dell’Oriente». Possiamo affermare con buona approssimazio-ne che il prologo (cc. 1-2) e l’epilogo (42, 7 ss.) in prosa sono il nucleo preesistente di questa parabola assunta dal poeta come base e come «primo strato» per il suo poema.
Nel racconto antico (2, 11-13) la parte della «spalla» del protagonista era recitata dagli amici, le cui parole servivano a ribadire la tesi fondamentale che reggeva l’intera narrazione: la retribuzione «delitto-castigo» e «bene-premio» può avere delle eccezioni transitorie, ma ben presto all’orizzonte della storia essa ritorna intatta e indistruttibile (epilogo).

Il poeta ha raccolto questo spunto drammatico e nel secondo e fondamentale strato dell’opera ha introdotto un dibattito tra Giobbe e i tre amici secondo uno schema di interventi (3×3) già noto alla tra-dizione (è presente nelle «Proteste di un cittadino loquace», un testo egiziano arcaico che ha qualche af-finità con Giobbe).Il panorama di questo strato è frastagliato e sbocca su un monumentale intervento fi-nale di Dio (cc. 38-41), vero e proprio “clou” del dramma.

Il terzo strato è ben riconoscibile: sono i discorsi di un amico inatteso, Elihu (cc. 32-37). La sua funzione è di complemento. Alle argomentazioni dei tre amici precedenti, un nuovo autore ha introdotto questo sapiente, espressione di una teologia più raffinata.

Un quarto strato è rappresentato dall’inno alla sapienza del c. 28, un testo autonomo che anticipa la soluzione dei cc. 38 ss. e che nella struttura attuale del volume ha la funzione di intermezzo.

Alcuni individuano nel testo un quinto strato incarnato dal secondo discorso di Dio (cc. 40-41).

Una pagina nuova, originale, di diverso stile ma anche di difficile collocazione nel piano generale dell’opera, che forse ha conosciuto un sesto strato, quello della censura: la situazione caotica in cui si trova il testo nel terzo ciclo del dibattito tra Giobbe e gli amici (cc. 21-27) sembra nascere da lesioni in-trodotte da un correttore del testo, preoccupato dalla tonalità durissima raggiunta dalla protesta di Giobbe che qui toccava il suo apice.

Se l’opinione prevalente degli esegeti colloca la stesura del secondo strato, quello centrale, attorno al 400 a.C., è inevitabile che su questa architettura testuale mirabile si sia lavorato almeno per un altro secolo, certamente prima del 190 a.C., anno della composizione del Siràcide, che in 49, 9 (testo ebraico) cita la condotta di Giobbe.

b) Struttura finale.
DIVISIONE IN QUATTRO AREE.

La prima area è rappresentata dal prologo in prosa (cc. 1-2), articolato in sei scenette distribuite tra cielo e terra e aventi per tema la sofferenza vista, però, come prova della fede.
La seconda area si espande nel dialogo poetico tra Giobbe e gli amici (cc. 3-27). Il primo amico, Elifaz, ha qualche lineamento che lo accosta al veggente, cioè al profeta; Bildad rimanda al giurista, tu-tore del diritto dell’alleanza, mentre Zofar è il «sapiente» che si riferisce alla sapienza tradizionale empi-rica di Israele. Ma tutti si ritrovano attorno ad un nodo teologico fondamentale ribadito sino alla sclerosi ideologica: quello della retribuzione.
La tragedia esistenziale e religiosa di Giobbe viene dagli amici compressa nello stampo freddo di una ricetta teologica, di un dogma codificato dalla tradizione contro cui si erge l’umanità di Giobbe, contro cui si scatena l’autenticità della domanda religiosa di Giobbe.
L’ansia di «razionalità» degli amici alla fine non distrugge solo la tragica realtà del male, ma anche il mistero stesso di Dio. Ed è questo che Giobbe non riesce ad accettare e a sottoscrivere. Il cuore dell’opera si rivela, quindi, come una vigorosa polemica contro la rigidità delle ideologie religiose.
Giungiamo, così, al vertice dell’opera originale: Dio, continuamente «provocato» da Giobbe e chiamato in causa come l’unico che ha una parola da dire sul gorgo tenebroso del male, accetta di fare la sua deposizione. È la terza area, quella dei cc. 29-31 e 38, 1-42, 6 intessuta su un dialogo tra Giobbe e Dio.
Nei cc. 29-31 Giobbe, attraverso un’evocazione nostalgica del passato, un giuramento di innocenza e una confessione negativa, cita in causa Dio perché si decida a depositare la sua risposta. E JHWH fi-nalmente interviene ma, anziché replicare con un’autoapologia, interroga Giobbe sul mistero dell’essere attraverso due discorsi.
Il primo (cc. 38-39) è strutturato su quattro serie di quattro strofe interrogative nelle quali sfila tut-ta la gamma delle meraviglie e dei segreti dell’essere. Giobbe è come un pellegrino stupito in questa scenografia stupenda di cui non riesce a conoscere la trama generale e le strutture nascoste, anche se es-se ovviamente esistono e sono quindi da riconoscere all’unico Signore e Creatore.
Il secondo discorso (cc- 40-41) convoca due mostri cosmici, Beemot e Leviatan (simboli delle e-nergie negative del creato che sembrano attentare allo splendore dell’essere o, secondo altri, simboli delle due potenze planetarie, Mesopotamia ed Egitto, e quindi di tutti i dinamismi della storia): Dio solo può controllare e dare senso a tutta questa massa incombente sull’uomo.
Giobbe, quindi, scopre che Dio non è riducibile ad uno schema «razionale» e che a lui sono affidati quelli che per la mente umana restano misteri: egli solo li sa inquadrare in un progetto legato alla sua logica infinita e trascendente.
È per questo che la confessione finale di Giobbe non è tanto il riconoscimento di una spiegazione al mistero del male, quanto piuttosto una professione di fede autentica in Dio; non è tanto un asserto di teodicea, quanto piuttosto una proclamazione teologica: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei oc-chi ti vedono» (42, 5).
La quarta area riprende l’inno alla sapienza del c. 28 e il fascicolo dei quattro discorsi di Elihu (cc. 32-33; 34; 35; 36-37), la cui originalità sta soprattutto nella proposizione della teoria «pedagogica» della sofferenza. Il dolore è visto come una «paidéia», un’educazione che Dio compie nei confronto di empi e di giusti perché si liberino sempre più dalle loro scorie e dal loro limite e contemplino il progetto divino accogliendolo e amandolo.

Grazie a questa mappa siamo in grado di intravedere il vero nucleo ideologico dell’opera. Un’opera non tanto di etica e di teodicea, quanto piuttosto di teologia pura. Come scriveva Terriem, con Giobbe siamo alla ricerca del vero volto di Dio demolendo i luoghi comuni, le spiegazioni facili e quindi inutili, il Dio fatto ad immagine dell’uomo, quello che Lutero chiamava «simia Dei», una «scimmiottatura di Dio».
Genere letterario.
Giobbe si basa naturalmente sul genere sapienziale, ben noto in tutta la Mezzaluna fertile e nella Bibbia nelle due forme ideologiche fondamentali: quella proverbiale, ottimistica, tradizionale e retribu-zionalistica, e quella più polemica, pessimistica, critica e originale.
Nell’ambiente culturale dell’antico Oriente era anche in vigore un genere noto come la «disputa tra saggi», una specie di tavola rotonda in cui venivano posti sul tappeto gli argomenti favorevoli o contrari a una determinata tesi.
Ma, osservano altri, il dibattito supposto dall’opera e lo stesso lessico usato sembrano rimandare piuttosto ad un «dibattimento processuale» in cui il protagonista lancia numerose citazioni giudiziarie, in cui si eseguono istruttorie, si adducono testimoni e ci si appella alla fine alla suprema cassazione.
Westermann comprende Giobbe come una grandiosa «lamentazione drammatizzata». Al centro del libro v’è infatti un infelice che si esprime col genere del «lamento» e, come nel lamento salmico, lo sbocco è verso un orizzonte di luce e di liberazione (l’inno finale).
Giobbe è un libro a sorpresa, dalle variazioni continue che vanno dal grido di «una speranza sradi-cata» all’ironia raffinata, dalla protesta per una tragedia alla celebrazione di un trionfo, dalla tonalità a-spra di un processo a quella più pacata di una riflessione sapienziale. Un libro che richiede un udito let-terario e spirituale sempre vigile, pronto a mettersi in sintonia con questa sensibilissima e mutevole mu-sica e poesia.
Splendore della lingua.
Scriveva il critico letterario F. Flora: «A paragone di questa lirica del dolore dell’uomo, ogni lirica posteriore sembra cadere e talvolta apparire come una pallida oleografia». Giobbe possiede un talento particolare nell’oggettivare attraverso la lingua ebraica, che pure è povera e quindi viene tesa al massimo, il suo panorama interiore e le sue istanze teologiche. L’uso di vocaboli rarissimi che hanno reso spesso ardua la trasmissione testuale, lascia incerto nel senso esatto almeno un 30% del testo.
L’uso di simboli, trionfale in Giobbe, acquista talora una fragranza e una luminosità da rendere in-dimenticabile il messaggio sotteso.
L’illusione di un’amicizia solo esteriore e consolatoria è rappresentata in 6, 15 ss.
Il male di vivere è dipinto a più riprese con pagine sempre di altissima verità umana (7, 1-4).
Bildad descrive la fragilità del benessere dell’empio con tre immagini indimenticabili (8, 11 ss.).
Celebre è anche la delicata (e molto semitica) descrizione della formazione del feto (10, 8-11).
Terribile, invece, è l’esperienza dell’ostilità implacabile di Dio rappresentato come un generale sa-dico (16, 12-14).
Ancora altri quadretti interessanti: 24, 13-17; 39, 21-25; 41, 22 ss.; 40, 29.
Gli antecessori di Giobbe.
Se la sapienza tradizionale aveva innanzitutto posto l’accento sull’armonia cosmica, sul senso della vita e sulla moralità della retribuzione, è altrettanto vero che ben presto all’orizzonte era apparsa una sapienza più sofisticata, attenta a registrare le contraddizioni del reale, l’oscurità dell’esistenza, il mistero del male, la necessità di una teodicea.
Giobbe, anche se con molta libertà, si allinea a questa corrente «pessimistica» e critica, ma approda ad un esito sorprendentemente positivo (alludiamo naturalmente non tanto all’epilogo bensì ai discorsi di Dio).
I predecessori di Giobbe su questa via critica sono molti ed appartengono a tutto l’arco della Mez-zaluna fertile; la loro conoscenza serve a collocare correttamente l’esperimento di Giobbe che, però, resta nel suo genere unico ed originale.
Infatti, per i prodotti precedenti Giobbe, il problema resta prevalentemente antropologico: è lo sforzo di ricercare una risposta al male e una via per evaderne. Per Giobbe la questione è eminentemente teologica ed è la definizione della legittimità della ricerca umana nell’interno del mistero di Dio.
Ecco un cenno ai testi orientali il cui confronto con Giobbe può risultare fruttuoso.
Con il mondo greco, il «Prometeo incatenato» di Eschilo, nonostante le evidenti distanze culturali.
Dal mondo sumerico ci proviene «L’uomo e il suo Dio», 131 linee che spesso sono un’accurata fe-nomenologia della sofferenza. Il parallelo più studiato tra questo scritto sumerico e Giobbe riguarda la questione del «dio personale» avvocato del sofferente presso l’assemblea dei grandi dèi. Egli avrebbe connotati simili al gô’el che Giobbe si augura di vedere accanto a sé come mediatore tra li e Dio (9, 33; 16, 19.21; 19, 25-27).
Da Babilonia proviene, invece, «Voglio celebrare il signore della sapienza», un poemetto del 1500 a.C. al cui centro non sono tanto le disgrazie del protagonista, quantopiuttosto gli incomprensibili pro-getti degli dèi.
Significativa anche la cosiddetta «Teodicea babilonese», un poema di 27 strofe databile attorno al 1000 a.C. Essa introduce un dibattito tra il sofferente e un amico teologo, fedele alla religione tradizio-nale, proprio sul mistero della volontà irrazionale degli dèi e sull’arbitrarietà del destino umano.
Più ironico ma altrettanto amaro è il «Dialogo pessimistico», giunto a noi in una versione dell’inizio del primo millennio a.C. I due protagonisti sono un padrone e un servo, il primo espressione della sapienza tradizionale pronta a gustare la vita, il secondo un disincantato e smaliziato lettore della miseria di vivere.
Diversi sono i contatti con la letteratura cananea (due tavolette di Ugarit pubblicate nel 1968).
Collegamenti suggestivi col mondo egiziano. Una posizione di prestigio occupa il «Dialogo di un suicida con la sua anima» (Papiro di Berlino 3024): 156 linee di un testo del 2200 a.C., espressione di un drammatico dialogo interiore e sdoppiato di un suicida col suo «ba», la sua anima, che tenta di con-vincerlo a tornare in vita. Famosa è la strofa: «La morte è davanti a me oggi come la guarigione per un malato, come la liberazione dopo una prigione. La morte è davanti a me oggi come il profumo della mirra, come il piacere di sdraiarsi sotto un parasole in un giorno di brezza».
Le «Proteste di un contadino loquace», opera egiziana del 2000 a.C., offrono invece un paralleli-smo strutturale con Giobbe: una cornice fatta di prologo ed epilogo inquadra nove appelli in posa ritma-ta secondo il modello citato dei 3×3 interventi. Il protagonista si scontra con l’ingiustizia e il male da cui può essere liberato solo attraverso l’azione del dio Anubis.
In ultimo, un testo aramaico, la «Preghiera di Nabonide», presente anche a Qumram ma databile attorno al VI secolo a.C. In essa l’ultimo re neobabilonese, Nabonide, espone alla divinità la sua soffe-renza dovuta ad un’infiammazione maligna, cercandone il senso e la liberazione.
Le comparazioni, però, fanno risaltare l’originalità di Giobbe, la sua coerenza ideologica, la sua genialità poetica, la sua purezza teologica. Il terreno comune da cui esso parte è ben presto abbandonato per raggiungere la propria mèta che è squisitamente teologica. Inoltre la forza critica di Giobbe nei con-fronti della sapienza tradizionale è assolutamente unica: «Voi vi imbiancate di menzogna, siete tutti medici da strapazzo» (13, 4). E altrove: «Quello che voi sapete lo so anch’io, non sono certo inferiore a voi: ma io vorrei incriminare Šaddaj, è contro Dio che io vorrei protestare» (13, 2-3).
Giobbe… è il nome di Dio
Il vertice dell’opera non è la soluzione a una questione umana ma è nel «vedere Dio con i miei oc-chi» rifiutando tutte le spiegazioni di seconda mano, tutto il «sentito dire» (42, 5).
Per questo il messaggio dell’opera, anche se si snoda dall’intreccio tra l’uomo, il mondo, il male, la società, Dio, ha come mèta ultima Dio, la sua parola, la sua teofania, la sua contemplazione.
a) Il mistero dell’uomo.
Giobbe è innanzitutto la storia di un uomo, di un credente, di un sofferente. Non è solo un limite metafisico, ma anche morale (4, 17; 14, 4; 15, 16).
Giobbe è, però, anche la storia di un credente. In ogni istante della sua storia drammatica, anche di fronte alla sua più cupa disperazione e alle sue più dure bestemmie, Giobbe non cessa di essere un cre-dente.
Anzi, la sua storia è per eccellenza quella della ricerca di Dio, evitando tutte le scorciatoie della teologia codificata e semplificata.
Egli non abbandona mai questo filo anche nel silenzio più totale di Dio, anche nell’abisso dell’as-surdo ed è per questo che alla fine «i suoi occhi lo vedono»; ed è per questo che alla fine Dio, ignorando le bestemmie e le proteste, preferisce la fede nuda di Giobbe alla compassata religiosità dei suoi avvo-cati difensori teologi (42, 7). Un forte senso di Dio pervade tutto il libro (12, 10-15). Il cammino di Giobbe è quello di un credente che attraverso l’oscurità vuole giungere all’approccio della luce e del dia-logo col suo Signore.
Ma Giobbe è anche e ininterrottamente la storia di un sofferente. Il dolore d’altra parte, per tutte le teologie mature, è il banco di prova della fiducia in Dio e nella vita. Famoso è lo «status questionis» posto da Epicuro in un frammento conservato dal «De ira Dei» di Lattanzio: se Dio vuole togliere il male e non può, allora è debole (e quindi non è Dio), se può e non vuole, allora è radicalmente ostile nei confronti dell’uomo; se non vuole e non può allora è debole e ostile; se vuole e può, perché esiste il male e perché esso non viene eliminato da Dio?
Le tentazioni dualistiche le proposte moniste o pessimistiche od ottimistiche, le soluzioni esisten-zialiste… costellano tutta l’avventura del pensiero umano. Giobbe usa questo campo di battaglia, il più difficile per la fede, proprio per esaltare la necessità della fede. La sua fenomenologia della sofferenza non è, quindi, romantica o esistenziale ma sostanzialmente canalizzata al mistero di Dio.
Il mistero del male.
Su questo grande interrogativo si attesta Giobbe, ma non con lo scopo di metterlo a tema né tanto meno di risolverlo razionalmente. Giobbe tiene nel suo mirino soprattutto la proposta sapienziale codi-ficata nella teoria della «retribuzione» che largo spazio avrà anche nel resto della teologia di Israele. Se-condo questa teoria ogni sofferenza è sanzione di peccati personali. La sua applicazione può rivestire forme differenti: retribuzione terrena e personale, retribuzione collettiva, retribuzione immediata, retri-buzione differita, retribuzione escatologica. Giobbe rifiuta questa «tecnologia» morale come insuffi-ciente a spiegare storia ed esistenza. Egli adotta la realtà del male lasciandola nella sua forza di scanda-lo, nella sua provocazione bruta veramente coperta dai veli retributivi.
Su questo terreno del male, «la rocca dell’ateismo», Giobbe vuole aprire una nuova riflessione che coinvolga Dio in modo positivo. In un certo senso potremmo dire che per Giobbe il mistero del male, che egli fa balenare in tutta la sua tragica violenza e verità, deve condurre a Dio in un modo molto più genuino di quanto lo faccia l’esistenza del bene.
Il poeta biblico è fermamente convinto che il male, proprio perché mistero, non può essere raziona-lizzato, addomesticato attraverso un facile teorema teologico. Il male e il dolore urlano con tutta la loro forza contro la mente dell’uomo. Ma il poeta biblico è altrettanto fermamente convinto che esiste una «razionalità» da mistero, cioè superiore e totalizzante, quella di Dio: essa riesce a collocare in un pro-getto ciò che per l’uomo sembra invece debordare da ogni progetto.
c) Il mistero di Dio.
Siamo al vero cuore del libro. Giobbe è uno scritto teologico nel senso pieno del termine: fonda-mentale è l’oscillazione tra la ricerca spasmodica di Dio dei cc. 3-27 e l’esaltante esperienza di Dio dei cc. 38-42.
Giobbe resta contemporaneamente teso verso la disperazione e la bestemmia a cui lo conduce «lo-gicamente» la sua intelligenza e verso la speranza e l’inno di lode a cui lo conduce la scoperta di Dio. Dio, infatti, vuole far balenare l’impossibilità di ridurre il suo «progetto» ad un semplice schema. Lo sfidato, Dio, diventa a sua volta sfidante nei confronti dell’uomo facendogli intuire che la «logica» di Dio è onnicomprensiva e ben più autentica di quella limitata della creatura, che si sente continuamente insensata e inceppata nel suo procedere.
Alla fine, però, agli occhi di Giobbe non appare l’incastro perfetto del male nella trama della storia e dell’essere, bensì il volto di colui che questo incastro realizza non secondo quanto noi supponiamo, ma secondo il suo disegno trascendente. E a questo punto Giobbe si abbandona al disegno divino. Giobbe diventa, in questa luce, una grande catechesi sulla fede pura e sul vero volto di Dio contro ogni compromesso e contraffazione anche apologetica.
Come si è detto, per Giobbe è insufficiente ogni lettura antropocentrica, perché l’analisi del mistero dell’uomo e del male è condotta in modo funzionale rispetto al vertice tematico autentico che è teologi-co (23, 3-5). La stessa struttura del libro rivela questa tensione di fondo: la teofania e i discorsi finali di JHWH sono la conseguenza logica e l’esito risolutivo del dialogo e della sfida che l’uomo Giobbe lancia nel c. 31. Lo stesso mediatore, sognato da Giobbe perché funga da arbitro neutrale nella contesa tra l’uomo e Dio, non può che essere Dio stesso.
Ma la centralità della questione teologica si rivela soprattutto nella struttura interna e ideologica dell’opera. Giobbe vive la sua prova come una domanda su Dio ed è solo a Dio che vuole porla. E, come si è ripetuto, il senso ultimo di questo itinerario non è quello di rendere ragione del mistero del dolore in sé preso, quanto piuttosto quello di dire «cose rette» su Dio (42, 7).
In altri termini: la questione centrale dell’opera non è il male di vivere, ma il come poter credere e in quale Dio credere nonostante l’assurdo della vita. Contro il razionalismo etico della teoria retributiva, contro il razionalismo teologico degli amici, Giobbe ribadisce la necessità del «temere Dio per nulla» (1, 9), cioè della gratuità della fede, e l’esigenza del «vedere attraverso un’autentica esperienza di fede».

(L.A.)