SCRUTANDO L’AURORA

(Un cristianesimo per domani)
Riflessioni di don MARCELLO FARINA

Parrocchia di Canova (Trento)
Canova, 18 novembre 2005 1° incontro
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(Uno sguardo sulla «crisi» del Cristianesimo)

1. Mi piace iniziare con le parole che Jean Delumeau, lo storico francese di «Scrutando l’aurora» (Un Cristianesimo per domani) , che ci farà da guida in questo ciclo di riflessioni, mette in bocca a mons. Favreau: «Per la Chiesa non basta più “sistemare”, bisogna “traslocare”. In altre parole diventa necessario abitare diversamente un mondo diventato diverso… Non c’è fedeltà se non nel coraggio delle evoluzioni» (Ivi, p. 5).
Il cambiamento in atto nella storia degli uomini e delle donne nella storia del mondo, che riguarda i molteplici ambiti della loro esperienza e della loro cultura, riguarda da vicino anche la religione e in particolare il Cristianesimo, paradossalmente il più coinvolto, da molto tempo peraltro, nel processo di secolarizzazione che tocca soprattutto i luoghi della sua diffusione sul nostro pianeta.
Vorrei, allora, proporre un itinerario in due tappe tra di loro complementari: da una parte analizzare i dati più «eclatanti», anche se incompleti, della crisi «qualitativa» del Cristianesimo, così come essa si avverte soprattutto nei «luoghi» del Cristianesimo tradizionali, cioè in Europa in particolare, e dall’altra affrontare il tema, più impegnativo, della crisi dell’identità cristiana nell’era del pluralismo religioso, cioè della crisi «qualitativa», se così si può dire, dell’annuncio cristiano nel mondo di oggi.

2. «I cristiani sono dei dinosauri, una specie in via di estinzione?»

Jean Delumeau ci ricorda, fin dall’inizio, che la domanda sulla fine del Cristianesimo non è nuova, nella letteratura che la riguarda. Dal 1893 al 1980 si potevano contare più di 250 titoli sullo stesso argomento. Ma è soprattutto nell’ultimo decennio che le domande sono diventate insistenti: «Dobbiamo credere al futuro del Cristianesimo?» si chiedeva un giornalista francese nel novembre del 1999; e il mese dopo il periodico cattolico «La Croix» si chiedeva a sua volta: «I cristiani hanno un futuro?» e più avanti, Bruno Chenu, sulla stessa rivista: «Il Cristianesimo ha fatto il suo tempo?» A sua volta un gesuita belga si chiedeva: «Gli ultimi dei Moicani? I cattolici in Belgio!»
Tutti questi interrogativi nascono dai dati forniti dalla sociologia religiosa. Sondaggi e statistiche non dicono tutto, per fortuna, sul vissuto religioso dei nostri contemporanei occidentali, tuttavia non si possono trascurare.
Le luci d’allarme, almeno in Europa, sono al rosso. «Nel 1996 il 76 per cento dei belgi francofoni intervistati dal settimanale cattolico “Dimanche”, ha riconosciuto che la Chiesa romana attraversa una crisi; il 57 per cento riteneva che “stava morendo”. In una decina d’anni (1990-2000) il numero dei cattolici tedeschi che versavano parte delle tasse alla loro Chiesa è diminuito di un milione, e quello dei protestanti di due milioni. Secondo uno studio del novembre 1998, il 42 per cento dei britannici e il 49 per cento degli olandesi si dichiara senza religione; così pure, secondo un sondaggio del giugno 2000, il 42 per cento dei francesi (nel 1981 erano soltanto il 26 per cento). Se si considera solo la fascia d’età 20-35 anni, la proporzione dei “senza religione” in Francia supera il 50 per cento. In tutta l’Europa sono i giovani a dirsi in maggior numero senza religione. Nella Repubblica ceca un’inchiesta del 1999 ha fissato al 43,2 per cento la proporzione dei “credenti”, al 48,5 per cento quella dei “non credenti” e all’8,3 per cento quella degli “atei” (Ivi, p. 9).
La testimonianza di Delumeau continua poi, sottolineando lo scarto crescente tra la religione vissuta e quella proposta dalle istituzioni religiose. E continua: «È dunque chiaro che in Europa l’audience del Cristianesimo è in calo. Nel gennaio 1999 alla domanda posta in un sondaggio dell’IFOP (Institut Français de l’Opinion Publique – Istituto francese dell’opinione pubblica): “Quali persone vorreste avessero un ruolo più importante nel futuro?” fra le dieci categorie proposte soltanto il 4 per cento degli interrogati scelsero “le autorità religiose e spirituali”, percentuale che scendeva al 2 per cento per quelli al di sotto dei 35 anni. Un altro sondaggio, stavolta della SOFRES (Société Française d’Enquête par Sondage – Società francese di indagini demoscopiche), pubblicato nel novembre 1999 ed effettuato tra giovani dai 15 ai 24 anni, dava la religione all’ultimo posto tra dodici valori (famiglia, amicizia, lavoro, amore, studi, religione, ecc.) da classificare in ordine di importanza; il 10 per cento la giudicava “molto importante”, il 20 per cento “abbastanza importante” e il 36 per cento “per niente importante”.
Ecco ancora, sempre, per la Francia, un sondaggio preoccupante pubblicato in “La Croix” del 23 ottobre 2001: alla domanda: “Ritenete che la Bibbia sia un ‘libro sorpassato’?” il 54 per cento ha risposto “sì”, percentuale che saliva al 59 per cento nella fascia 35-49 anni e al 61 per cento in quella 25-34 anni… con una bella rimonta, per fortuna, nella fascia 18-24 anni. Un ultimo sondaggio (promosso da “Le Pèlerin”), che citerò qui per non allungare una lista già abbastanza convincente: “La domenica per voi ha un significato religioso?” il 70 per cento ha risposto “no”.
I dati sin qui esposti spiegano l’allarme dei responsabili religiosi, specialmente cattolici. Il documento della curia romana che formulava l’ordine del giorno del Sinodo per l’Europa tenutosi a Roma nell’ottobre 1999 affermava: “La supremazia culturale del marxismo è stata sostituita da quella di un pluralismo indifferenziato e fondamentalmente scettico o nichilista. […] È grande il rischio di una progressiva, e radicale scristianizzazione del continente […], al punto di formulare l’ipotesi di una sorta di apostasia del continente”. Durante quello stesso Sinodo, il cardinal Poupard deplorò “l’agnosticismo intellettuale, l’amnesia culturale, l’afasia religiosa” degli europei. “Se nulla cambia, siamo in un vicolo cieco”, scriveva nel 1999 il vescovo di Clermont-Ferrand, monsignor Hippolyte Simon, in un libro molto acuto: Vers une France païenne (Verso una Francia pagana). Con metafora motoristica egli constatava dei “guasti di trasmissione” cristiana tra genitori e figli. Riteneva che le ultime testimonianze di una civiltà cristiana – la cura dei luoghi di culto, il calendario religioso, il rispetto consolidato della domenica – non erano altro che una sorta di “debito” nei confronti di un Cristianesimo del quale ben presto nessuno avrebbe più capito il significato. A meno di un soprassalto, concludeva monsignor Simon, “saremo presto all’insuccesso”. Un simile contesto spiega l’accento posto da Giovanni Paolo II sull’urgenza di una “nuova evangelizzazione”. Sorge allora il problema di sapere se ci troviamo di fronte a una secolarizzazione accelerata o a una vera scristianizzazione. Il card. Danneels da parte sua parla di una “deforestazione della memoria cristiana”» (Ivi, pp. 11-12).
È certo ormai – nota Delumeau – che, soprattutto in Europa, il Cristianesimo non è tanto questione di eredità, quanto di scelta. Ormai esso è, o sta per diventare, minoritario. Inoltre c’è la tentazione di mettere alla berlina il Cristianesimo, attraverso una cultura del disprezzo. Nella sua storia si scelgono le pagine nere, gli errori, i silenzi, i crimini commessi in nome della croce, mentre si passano sotto silenzio gli apporti positivi alla civilizzazione dell’Europa, che fu immenso. Il «genio» del Cristianesimo, per dirla con Chateaubriand, non ha dato il suo apporto decisivo alla promozione del soggetto umano e la permanenza della generosità che esso ha indotto lungo i secoli e continua a suscitare? È forse un caso se, su scala mondiale, è in terra cristiana che sono nate la scienza moderna, la formulazione dei diritti dell’uomo e, persino, il movimento di liberazione delle donne?
In ogni caso una certezza ormai si impone: la modernità e la modernizzazione mettono in discussione il Cristianesimo che abbiamo conosciuto nei secoli precedenti.

3. La crisi dell’identità cristiana nell’era del pluralismo religioso

Abbiamo potuto cogliere dai dati presentati le espressioni esteriori della crisi del Cristianesimo, soprattutto in Occidente. Ma ci rendiamo quotidianamente conto che la crisi principale ha a che fare con Dio e con suo Figlio Gesù Cristo. Questa è una crisi per il Cristianesimo, per le chiese e per i singoli credenti da molti punti di vista. La crisi è «crisi di Dio»: un gran numero di persone ha smesso di credere in Dio e le Chiese non sono più capaci di risolvere questa crisi, cioè a comunicare la buona novella di Dio. Si tratta di un «disincanto» diffuso, rispetto ad un discorso che è stato (ed è) troppo sicuro di sé e di una promessa non mantenuta: che cosa si è avverato di quanto annunciato con forza e sicurezza dalle Chiese cristiane?
Comunque tre sembrano i fattori principali che fanno vacillare la credibilità della religione cristiana.
a) In primo luogo il contrasto tra la freschezza inalterata del messaggio evangelico e le pesantezze dell’istituzione ecclesiastica.
«Non è un fatto nuovo ma, soprattutto nell’ambito della Chiesa cattolica, tale scarto è avvertito con un’intensità tanto maggiore in quanto il Vaticano II aveva fatto sperare in un reale rinnovamento nel governo della Chiesa.
b) In secondo luogo, di fronte alle drammatiche urgenze del mondo contemporaneo sotto il segno di una mondializzazione asociale e di una minaccia crescente che incombe sul futuro stesso della specie umana, il messaggio cristiano sembra registrare quella rottura tra il dire e il fare che è il destino più comune di tutte le ideologie, religiose e non religiose.
c) Infine, tutte le Chiese devono affrontare la sfida di un pluralismo religioso praticamente insormontabile. Per parecchi aspetti, ciò costituisce per il pensiero cristiano una sfida più temibile dell’ateismo o dell’indifferenza religiosa, giacché pone direttamente in discussione la nostra comprensione dell’identità cristiana nella sua pretesa di unicità e di universalità» (C. Geffré, op. cit. p. 25).
È a partire da quest’ultimo punto che qui vale la pena di riflettere su tre argomenti in particolare: la nuova scena del religioso, il paradigma del pluralismo religioso come svolta teologica e la nuova intelligenza dell’identità cristiana.

a) La nuova scena del religioso. Occorre prendere atto che soprattutto in Occidente si assiste alla proliferazione di nuovi movimenti religiosi, il cui successo si pone in stretto legame con la mondializzazione. Il loro tratto fondamentale è la tendenza al sincretismo, come accade a quella «nebulosa mistico-esoterica» che è la New Age. La profonda mancanza di cultura dei nostri contemporanei favorisce un bricolage spesso sorprendente; le credenze diventano fluide così da poter coesistere o anche fondersi a dispetto della loro incompatibilità. Si è tentati di riprendere la felice formula della sociologa britannica Grace Davie: believing without belonging (credere senza appartenere).
«Il successo di tale pluralità di correnti sincretiste d’ispirazione neopagana, soprattutto nell’Europa occidentale e nel Québec, coincide con la perdita di credibilità se non del messaggio evangelico, almeno delle chiese ufficiali. Di fronte alle delusioni di una modernità sotto il segno della secolarizzazione e di una razionalità puramente tecnica, si manifesta un’aspirazione confusa a ritrovare oltre tutte le frammentazioni un’unità primordiale tra l’uomo, l’universo e Dio. Anche se ciò proviene da una profonda ignoranza della tradizione cristiana, soprattutto mistica, occorre riconoscere che il Cristianesimo più diffuso risponde male alle aspirazioni dei nostri contemporanei che sono alla ricerca di una sorta di nuovo incanto del mondo, dell’uomo e di Dio. Soprattutto nella sua tradizione latina, è lecito chiedersi se il Cristianesimo non abbia contribuito, in una specie di rivalità mimetica con una ragione sempre più trionfante, a un certo asservimento della dimensione misterica del cosmo, dell’uomo e di Dio» (Ivi, p. 26).
Dal canto loro, poi, le religioni non-cristiane vengono conosciute sempre meglio, mentre si acquista una coscienza assai più viva della relatività storica del Cristianesimo. Sondaggi recenti mostrano che solo il 4 per cento dei giovani in Inghilterra, in Germania e in Francia ritiene che «la verità si trova in una sola religione». Nello stesso tempo va anche tenuto presente che questo relativismo generalizzato ha come inevitabile contropartita il riaffiorare del fondamentalismo e del fanatismo.

b) Il pluralismo religioso, a sua volta, provoca un nuovo paradigma nella riflessione teologica. È entrata in crisi la coscienza che molti cristiani avevano del privilegio unico del Cristianesimo tra le religioni del mondo; detto in altre parole, l’assolutezza della verità cristiana. A questo fine sarebbe auspicabile distinguere la rivelazione come evento e la rivelazione come messaggio.
«Secondo la fede della Chiesa, è certo che il Verbo fatto carne l’ultima comunicazione di Dio agli uomini; ma la rivelazione contenuta nel Nuovo Testamento, di cui Gesù è il testimone, è una rivelazione limitata che non pretende di esaurire la pienezza di verità che è in Dio. Altrimenti significherebbe non prendere sul serio la piena umanità di Gesù e cedere a una certa forma di docetismo. Non è il Verbo nella sua eternità ma il Verbo nella sua contingenza storica quello testimoniato dal Nuovo Testamento. Ricorrendo alla distinzione tra qualitativo e quantitativo, si potrebbe dire che la rivelazione testimoniata da Gesù è incomparabile per il fatto stesso della prossimità della sua coscienza con il Padre; ma, dal punto di vista quantitativo, il messaggio di Gesù è indubbiamente la Parola di Dio allo stato di un discorso umano contingente. D’altra parte è Gesù stesso a invitarci a valorizzare il carattere escatologico della verità che il Padre gli ha affidata: “Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera” (Gv 16, 13)». (Ivi, p. 30).
Solo la verità che coincide con il mistero di Dio è una verità assoluta.
Ma la Chiesa cattolica crede a questo pluralismo o, piuttosto, non occorre ammettere che il magistero romano ha orrore di esso, tanto che viene interpretato come una ideologia che dispera di ogni verità e conduce al relativismo? (non è questa la teologia del documento Dominicus Jesus del 6 agosto del 2000?).
E l’urgenza della missione? È sempre più necessario mantenere la distanza tra la Chiesa terrena e il regno di Dio!
«La missione della Chiesa non ha perso nulla della sua urgenza, anche se la teologia contemporanea non stabilisce più un legame stretto tra l’appartenenza alla Chiesa e la grazia della salvezza in Gesù Cristo. Allorché la missione non è più polarizzata sulla conversione ad ogni costo dell’altro non cristiano, come se la sua salvezza eterna dipendesse esclusivamente dal suo mutamento di religione, essa conserva tutto il suo senso come manifestazione dell’amore di Dio, come incarnazione del Vangelo nel tempo, come testimonianza resa al regno di Dio che avviene ogniqualvolta i valori evangelici sono onorati. Ciò è particolarmente vero quando gli operai della missione si trovano messi a confronto con una grande religione come l’islam o l’induismo.
In realtà la presenza silenziosa tramite la preghiera, la pratica delle beatitudini, il dialogo sincero con i membri di un’altra tradizione religiosa assicurano la missione della Chiesa come sacramento del regno che viene. La missione permanente della Chiesa non significa l’estensione quantitativa della Chiesa come se essa fosse al servizio di se stessa. Significa invece, in dialogo con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, manifestare e promuovere il regno di Dio che ha cominciato a inaugurarsi sin dal primo istante della creazione e che non cessa di avvenire sui sentieri della storia, ben al di là delle Chiese che gli esseri umani vedono» (Ivi, p. 34).

c) Una nuova intelligenza dell’identità cristiana. Credo che ormai diventi chiaro che il mistero di Cristo trascende la religione cristiana, anche se essa è la religione della sua rivelazione ultima. Occorre andare al di là di Gerusalemme e Atene, al di là della tradizione ebraica e greca, che sono state lo strumento della comunicazione del Vangelo. Il Cristianesimo è nato superando il dualismo tra ebreo e greco; non può avvenire che il nuovo modo di vivere il Vangelo non nasca dal superamento di ciò che è occidentale e non-occidentale? Non è forse pensabile che proprio il contratto tra Vangelo e culture non occidentali possa portare con sé una trasformazione e una chiarificazione che non esclude entrambe? I giudei-cristiani, all’inizio della storia del Cristianesimo, hanno pur continuato a frequentare la sinagoga…! Anche oggi si tratterebbe di tener unite le due parole di Gesù:
«“Non sono venuto per abolire, ma per dare compimento”, e: “Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi”. Se vi è rottura e novità, essa si riassume nell’evento stesso di Gesù Cristo che coincide con l’avvento del regno di Dio e con ciò che esso comporta come novità nella relazione a Dio e all’altro.
Così il rapporto della Chiesa nascente con l’ebraismo ha un valore paradigmatico per il rapporto attuale del Cristianesimo con le altre religioni. Come la Chiesa non integra e non prende il posto di Israele, allo stesso modo essa non integra e non sostituisce la parte di verità religiosa di cui un’altra religione può essere portatrice. Se la storia religiosa dell’umanità attesta che le religioni si escludono a vicenda, radicandosi in tradizioni etniche e culturali particolari, il Cristianesimo non porta necessaria- mente in sé i valori positivi di un’altra tradizione religiosa. Se il Cristianesimo è la religione del Vangelo, se cioè si definisce più per lo spirito che per la lettera, allora non è assurdo parlare per il futuro di una duplice appartenenza nel senso di una sintesi inedita tra l’identità definita dalla relazione con Gesù Cristo e i valori positivi di un’altra religione.
Ciò significa chiaramente che l’identità cristiana non si definisce aprioristicamente. Essa si apre al divenire ed esiste dappertutto dove lo Spirito di Gesù genera un nuovo essere individuale e collettivo. La vocazione del Vangelo è di diventare il bene di ogni uomo e di ogni donna al di là della sua razza, della sua lingua, della sua cultura, e anche della sua appartenenza religiosa» (Ivi, p. 38).