Canova, 18 febbraio 2011
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1. Introduzione
È la riflessione più difficile quella di oggi. Per vari motivi:
– il più banale, se si vuole, è quello che ciascuno di noi esperimenta quando vuole passare dall’analisi critica di una situazione (dalla pars destruens, come si usa dire) all’analisi propositiva di essa (la pars construens, evidentemente). È più facile dire ciò che non va che intravedere vie d’uscita creative, capaci di ridare senso e vigore.
– Il secondo motivo sta nel fatto che l’estraneità del cristianesimo nei confronti del mondo postmoderno non è una realtà di superficie, quasi bastasse una spolverata, per far brillare di nuovo il suo «splendore», ma una realtà che ne ha intaccato profondamente la credibilità, sia nei contenuti, sia nel linguaggio che lo esprime, come abbiamo potuto constatare precedentemente. La cultura attuale (il postmoderno) si presenta, infatti, con caratteristiche tali da rendere sempre meno percepibile all’uomo della strada il valore della fede per una vita buona e felice. Essa, nel suo costituirsi, si è liberata di alcune delle matrici fondamentali della civiltà occidentale, su cui finora aveva fatto leva il cristianesimo (si possono ricordare: il platonismo con il suo «dualismo metafisico»; l’agostinismo con la sua storia della salvezza da conquistare con il sacrificio; il «modello romano» nella gestione della «res publica») per l’annuncio del vangelo. Questo determina l’attuale estraneità di quest’ultimo.
– Un terzo motivo riguarda da vicino l’arroccamento dell’istituzione ecclesiastica in una sorta di turris eburnea, di cittadella fortificata, che le impedisce un autentico dialogo con le donne e gli uomini di oggi, sospettati sempre di prevaricare nell’esercizio della libertà di coscienza e considerati moralmente incompetenti (come se si ripetesse che «se non sei credente (anzi cattolico) sei moralmente incompetente», anzi «se Dio non c’è, dio sono io») come vanno ripetendo le più alte gerarchie ecclesiastiche.) A ciò si accompagna l’oblio (o, se si vuole, l’avocare a sé di Roma dell’interpretazione esclusiva) del Concilio Vaticano II e della sua eredità più significativa.
E tuttavia continua a sollecitarci l’idea, la speranza, l’aspettativa che il cristianesimo abbia ancora qualcosa da dire all’uomo moderno. I rapidi cambiamenti cui abbiamo accennato hanno ripercussioni notevoli sull’esistenza ordinaria delle persone. Anche il paganesimo ha i suoi costi.
Per essere all’altezza dello spirito del nostro tempo, sarebbe allora necessario un cristianesimo profetico: un cristianesimo lungimirante, dotato di solida competenza critica, all’altezza di un controcanto deciso rispetto agli slanci e alle sconfitte, alle conquiste e alle delusioni delle donne e degli uomini di oggi; un cristianesimo chiamato a pensare l’impensato, a dire il non detto, ad ascoltare l’inaudito e in tutto ciò a promuovere l’inedito delle promesse di Dio.
2. Questione di sguardo
Il cristianesimo è «questione di sguardo», afferma Armando Matteo all’inizio del terzo capitolo del suo bel testo Come forestieri, che è diventato la guida per la nostra ricerca. Non basta il cuore, come sembra, invece, affermare Saint-Exupéry nel suo famoso testo del Piccolo Principe, mettendo in bocca alla volpe le note parole: «Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi».
La fede riguarda lo stile del nostro guardare. «Come dimenticare che proprio ciò che la Sacra Scrittura indica quale primo peccato nasce da uno sguardo che non coglie più la differenza del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male da quelli degli altri alberi posti nel giardino dell’Eden?» (op. cit., p. 45).
Uno sguardo «cattivo»: un atto d’invidia, incapace di cogliere le differenze, di no-tare le sfumature, di ravvisare le connessioni, le sinergie tra le cose e le vicende del mondo, e tra queste e Dio.
All’opposto, credere ha a che fare con una conversione dello sguardo, con la capacità di assimilare il modo di «vedere» di Gesù di Nazareth, del suo sguardo su Dio, il mondo e se stessi.
Rivolgere lo sguardo a questi tre «oggetti» e «vederli» alla maniera di Gesù di Na-zareth è, allora, il percorso-viaggio verso la fede che il cristianesimo ci propone, un viaggio rispetto al quale nessuno può vantare vantaggi di sorta o corsie preferenziali. Nessuno può credere al posto di un altro o a causa di un altro.
a) L’ordine dell’amore (lo sguardo su Dio)
Anzitutto, perciò, «vedere Dio», con gli occhi di Gesù di Nazareth, vuol dire «vedere il Padre».
«Egli, infatti, indica Dio come sfondo a cui volgere lo sguardo ogni volta che si è tentati di chiudere in se stessi o in un altro o in qualche cosa del mondo il segreto dell’esistenza e, nello stesso tempo, come spazio liberante in cui rinnovare la nostra fedeltà alla bontà della vita, quando ne pariamo i contraccolpi.
Solo un Dio, che è padre, presente da lontano, remoto nella prossimità, può donare all’uomo quell’amore in cui riconoscersi riconosciuto così da poter amare se stesso e non mollare il mai semplice mestiere di vivere» (op. cit., p. 48). Gesù di Nazareth non trasforma mai la paternità di Dio in una chiave risolutrice di tutto ciò che il destino prepara per la nostra e altrui esistenza, ma invita a vedere Dio come colui che salvaguarda e si fa garante della vivibilità dell’esistenza, come colui che promuove la libertà umana (la autonomia dell’uomo), aprendo spazi e continuamente rilanciando la scommessa umana sulla fecondità del futuro, perché è garante di una giustizia e di una verità finali di questo mondo.
Il Dio cristiano è così estraneo ad un amore che non sappia coniugarsi con la libertà, sia a una libertà che non sappia convertirsi in amore, concreto, singolare, specifico. Scrive Paul Ricoeur, acuto indagatore del cristianesimo: «Il rivolgersi a Dio come padre […] è raro, difficile, audace, perché profetico, vòlto verso il compimento più che verso l’origine. Esso guarda […] in avanti verso una nuova intimità plasmata sul modello della conoscenza del figlio […]. La religione del padre, dunque, non è la religione di una trascendenza lontana e ostile, poiché in essa la paternità comporta la figliolanza e la figliolanza la comunità di spirito» (in Il conflitto delle interpretazioni, 1977, p. 505). Significativamente Ricoeur preferisce parlare, anche in altri testi, di Dio onni-amante piuttosto che onnipotente: «Sì, l’unico potere di Dio è l’amore disarmato».
A questo punto non posso non riportare una pagina stupenda del teologo valdese Paolo Ricca che si domanda a sua volta: «E chi è questo Dio che Gesù chiama “Padre” e che ci insegna a chiamare “Padre”?»
Così egli ne delinea i tratti essenziali:
a) È un Dio discreto, la cui presenza è vicinanza e segretezza, un Dio non spettacolare, oggi diremmo non mediatico, non evidente, non invadente, che non si impone, ma chiama, cerca, aspetta.
b) È un Dio attento alla singola persona, non solo al gruppo, al popolo, al collettivo. È un Dio che si accorge se su cento pecore ne manca una. Certo, è il pastore del gregge, ma questo per lui significa non perdere nessuna pecora, neppure una, e conoscerle e chiamarle per nome ad una ad una. Un Dio personale, dunque, e non solo universale, di tutti, sì, ma anche di ciascuno, che conosce il tuo nome (anche senza cognome) e lega, nel battesimo, il suo nome tre volte santo al tuo.
c) È un Dio che perdona, che chiede all’adultera colta in flagrante adulterio: «”Donna, dove sono i tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata?” L’adultera rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù: “Neppure io ti condanno. Va’ e non peccare più”» (Giov. 8, 10-11). Un Dio che perdona. Non c’è in cielo e sulla terra mistero più grande del perdono dei peccati. Gesù lo ha portato dal cielo sulla terra. Scandalizzando scribi e farisei ha detto a molti, su questa terra, la parola che solo Dio ha il diritto di pronunciare: «I tuoi peccati ti sono perdonati» – gratuitamente, immeritatamente, incondizionatamente. Dio ama i peccatori e Gesù «è morto per gli empi» (Rom. 5, 6) – per colpa degli empi, ma a loro favore. Questo è l’evangelo cristiano. Credere significa credere questo.
d) È un Dio che guarisce i corpi e le anime, i singoli e la comunità, da malattie, paure, diffidenze, colpe; un Dio che libera da ogni sorta di servitù materiale, morale e spirituale; un Dio che si ferma davanti all’uomo ferito e avvilito, si china su di lui, gli ridà fiducia e speranza; un Dio che fa fiorire la vita, restituendole gioia e libertà.
e) È un Dio inclusivo, che reintegra nella comunità i lebbrosi, gli esclusi, gli scomunicati, i ripudiati, secondo la grande parola che accompagna l’azione di Gesù: «Anche questo è figlio di Abramo» (Lc. 19, 9); e «Costei, che è figlia di Abramo […]» (Lc. 13, 16). Un Dio non nazionale, non tribale, non razziale, alla cui mensa sederanno persone da Oriente e da Occidente, dal Settentrione e da Mezzogiorno, insieme ad Abra-mo, Isacco e Giacobbe (Lc. 13, 29).
f) Infine, è un Dio che, pur essendo «pietoso e clemente, lento all’ira e di gran benignità» (Salmo 103, 9), resta il giudice degli uomini e della storia. Gesù non è venuto a giudicare il mondo, ma a salvarlo (Giov. 12, 46). Dio però giudica il cuore e la vita di tutti e di ciascuno. La nostra vita è qualcosa di cui dobbiamo rendere conto a lui che ce l’ha data. Ma quando il giudizio avverrà, ci saranno molte sorprese: «Molti primi saranno ultimi, e molti ultimi primi» (Mt. 19, 30). C’è chi pensava di essere innocente, e invece si ritrova colpevole (Mt. 25, 41-46), e c’è chi pensava di aver solo aiutato il prossimo bisognoso a vivere la sua vita terrena, e invece, senza saperlo, s’è guadagnato la vita eterna (Mt. 25, 34-40). Molte sorprese, dunque. C’è un «premio», di cui Gesù parla più volte (Mt. 5, 12; 6, 1; 10, 41; Mc. 9, 41), e c’è una «ricompensa» (Mt. 6, 4). Non che la vita cristiana sia un affare, un calcolo del tipo do ut des. Chi ragionasse così, dimostrerebbe di non aver capito nulla del cristianesimo. Ma Dio è generoso, questa è la verità. E c’è anche un risarcimento: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli o sorelle […] per amore del mio nome, ne riceverà cento volte tanti, ed erediterà la vita eterna» (Mt. 19, 29-30). E questo risarcimento riguarderà anche chi non ha avuto su questa terra la sua parte di vita, di affetti, di soddisfazioni, di felicità.
Ecco, per sommi capi è questo il Dio che Gesù ci ha fatto conoscere, nel quale egli ha creduto e per il quale è vissuto. La fede cristiana è credere con Gesù e come Gesù in questo Dio (in Le ragioni della fede, Claudiana, 2010, pp. 14-16).
b) Altrimenti umani (lo sguardo sul mondo)
Poi, «vedere il mondo», con gli occhi di Gesù di Nazareth, ha a che fare con uno sguardo che sa cogliere in esso il lievito del «regno di Dio». «È essenziale – scrive Ar-mando Matteo – per il pensiero e la prassi cristiana, guardare al mondo (alle realtà mon-dane nel loro complesso) non solo nella sua data attualità ma anche nella sua possibilità, non solo dunque per ciò che è, ma pure per ciò che può diventare: soprattutto quel “mondo” che è il risultato delle mille relazioni tra gli umani, del confluire delle loro libertà e dei loro desideri» (op. cit., p. 51).
A partire dallo «sguardo di Gesù», «la salvezza del mondo passa attraverso l’impegno della costruzione del “regno di Dio”, segno e sogno di un’umanità che non si regge sulla collusione di alcuni contro altri, che non sfrutta la debolezza dei molti a vantaggio dei pochi, che non pone continuamente in essere condizioni di vita talmente degradanti da far desiderare a milioni di esseri umani la fine della vita piuttosto che la vita fino alla sua fine. È segno e sogno, al contrario, di un’umanità che tenta strade di riconciliazione in nome dell’unica paternità divina e che desidera condividere il mondo secondo progetti di equità e di autentica giustizia» (Ivi, p. 51).
Ci sono sempre, nella storia, coloro che categoricamente affermano l’inevitabilità dell’ingiustizia, del sopruso, della violenza, in una parola coloro che giustificano il bruto mondo, dicendo bene del male, facendo una bandiera dell’egoismo, dell’arroganza, della prevaricazione. Di contro, il regno di Dio porta con sé che l’ingiustizia non è il marchio definitivo della storia. Esso, anzi, annunzia che a nessuno dovrebbe essere negato il desiderio di cose davvero belle, piene, gratificanti, consonanti con i ritmi profondi del cuore. A nessuno dovrebbe essere negata la possibilità di una felicità del proprio essere al mondo, a nessuno dovrebbe essere consentito di addurre ragionevoli e fondati motivi per maledire la propria esistenza.
«Ecco il regno di Dio: la radicale possibilità di immaginare un mondo diverso, un mondo semplicemente più umano. Gesù insiste su tale opportunità, si compromette sino in fondo con essa e alla sua luce giudica le istituzioni civili e religiose del proprio tempo: contesta l’autorità religiosa e quella romana, perché, sulla base della loro teologia politica, fissano in uno status definito e definitivo gli esseri umani e li privano di qualsivoglia margine di miglioramento.
Il potere, quando non è vissuto come corresponsabilità e servizio, ma come dominio e conquista, non può che tendere a mantenere in un rigido ordine la situazione di tutti coloro che ricadono sotto il suo raggio d’azione: ha bisogno di uno sguardo d’insieme che fissa e delimita, che struttura ogni movimento e riduce gli spazi di libera invenzione dei singoli, che inventa il mito del nemico e dello straniero e giustifica il ricorso alle leggi e alle istituzioni della forza per dare forza alle sue leggi e alle sue istituzioni» (op. cit., p. 52).
Si potrebbe, qui, riferirsi a un passo importante del vangelo di Matteo, successivo alla proclamazione delle beatitudini, lì dove Gesù di Nazareth avverte: «Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, e a chi vuol portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Dà a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito tu non voltargli le spalle» (Mt. 5, 38-42).
Non si tratta di una regola, ma di uno stile: una sorta di eccedenza della risposta rispetto alla replica che normalmente si aspetta. Sì, ogni risposta dà di più di quanto richieda la prudenza ordinaria: la guancia destra? L’altra guancia! Il mantello? E in più anche la tunica! Un miglio? Uno in più! Non solo questo, ma persino quest’altro!
È la logica della sovrabbondanza, della generosità, che si scontra sempre con la logica dell’equivalenza, quella che regna anche sulle nostre relazioni nel quotidiano, sul commercio, sul diritto civile e penale; la logica di Gesù di Nazareth che si scontra sempre con la logica mondana del diritto, dell’economia (lo scambio), della politica.
Qui si radicano il senso e il compito dei cristiani dentro la storia delle donne e degli uomini. In questo contesto «l’estraneità» del cristianesimo riconquista un valore positivo nel suo confronto della realtà storica, politica, economica, culturale e anche religiosa che sperimentiamo ogni giorno. Enzo Bianchi, il priore della comunità di Bose la qualifica come «differenza cristiana», la quale si connota essenzialmente come la fiducia e l’impegno a realizzare un mondo altrimenti, configurato secondo uno stile di generosa accoglienza degli altri, di mite proposizione di se stessi, di ragionata ricerca del bene comune, di totale attenzione alla costruzione della pace e della giustizia e alla salvaguardia del creato: «La differenza cristiana diventa così stimolo e fermento nella società perché ogni parola, ogni gesto profetico hanno ricadute nella compagine sociale» (E. Bianchi, La differenza cristiana, 2006, pp. 48-49).
È certamente tale compito che attende il cristianesimo futuro: generare comunità che respirino e lascino respirare il profumo liberante e consolante del vangelo, profondamente attraversate dall’interesse verso il Regno di Dio piuttosto che all’autopromozione e all’autoconservazione.
Mantenersi fedeli a simile irrinunciabile ruolo profetico, per il bene del mondo, significa respingere con grande fermezza ogni progetto vòlto a trasformare il cristianesimo in una “religione civile”, in un baluardo dei valori occidentali, in una riserva simbolico-culturale di questa tradizione, in un collante ideale di quella vuota congiuntura burocratica che è diventato lo spazio pubblico, in un serbatoio di identità di un re – l’Occidente – ormai dichiarato nudo da ogni pivello che passa per strada.
Del resto, oggi, la religione civile si esaurisce tutta nel “politicamente corretto”, che reclama uguaglianza di diritti e corrispondenza assoluta alla singolarità di ciascuno; il cristianesimo, da parte sua, critica un tale dogmatismo, collocando tali di per sé giuste aspirazioni in un differente contesto e legittimandole non come rivendicazioni, ma come promesse, la cui forza apre cammini di impegno e di responsabilità.
Il nuovo scenario della mondializzazione dell’economia e dei mercati, delle comunicazioni e degli scambi culturali, d’altro canto, interpella seriamente la componente politica e intellettuale della società, sollecitandola ad una ricerca meno apatica dei modi in cui appassionare i cittadini alle sorti generali del pianeta e dei suoi abitanti, mai come nel nostro tempo divenuto “piccolo villaggio globale”. Il ruolo della comunità credente è quello di ricordare, nella e con la concretezza della propria vita, che la scommessa sul futuro può essere più vantaggiosa della rapina del presente e che la somma dei benefici del perseguimento del bene comune è maggiore di quella dei beni singoli e che, in una parola, il cuore dell’uomo non è irrevocabilmente logorato dal potere che non ha.
c) Questo mondo non è il paradiso (lo sguardo su se stessi)
Il terzo consistente vettore della conversione dello sguardo ha a che fare con l’immagine che ciascuno ha di se stesso. Anche in questo caso è Gesù di Nazareth a rendere «preziosi» ai suoi occhi l’umanità delle donne e degli uomini, certo segnati dalla finitezza, che, però, non va interpretata come «limite», colpa da espiare, un fardello da cui liberarsi. Piuttosto il nostro essere nati al mondo va colto come apertura di uno spazio di libertà e di possibilità, cui dover e poter corrispondere con generosità e passione.
«Non si deve pertanto temere di compromettere se stessi nelle cose in cui si crede, nelle azioni che appaiono degne del proprio operare, in una tensione permanente tra il passato che precede e condiziona e il futuro che viene generato e condizionato a sua volta. Così ciascuno dovrà vivere la sua storia di figlio, di apprendista, di adulto e di maestro. E ogni volta più si saprà donato, preceduto, accolto, più sarà capace di dare, precedere, accogliere, dare forma al (suo) futuro. È indubbio che ci si dovrà lasciare toccare, ferire, e segnare da ciò che precede, perché è solo in questa disponibilità a restare figlio che sarà possibile anche nascere ogni volta come padre, come colui che sa dare una forma alla vita, all’insegnamento, al mestiere, che ha accolto. Si tratta di rispondere con generosità al “patrimonio” ricevuto, alla “tradizione” alla quale si appartiene, perché tutto è donato in prestito affinché possa essere trasmesso ad altri» (op. cit., p. 58).
In un tale continuo agire ogni persona potrà fare esperienza di sé innanzitutto nella relazione con gli altri, che permetta il riconoscimento reciproco, nella fatica che tale passaggio comporta. Non va trascurato, per questo, un essenziale spazio di solitudine, un porsi dinanzi al «santissimo» della propria interiorità, dove possono nascere le domande radicali: che cosa vogliamo, che cosa cerchiamo, che cosa possiamo sul serio, che cosa non è di nostra competenza, che cosa sappiamo e che cosa è, invece, puro oggetto di fantasia, che cosa nasconde il nostro carattere, e che cosa, invece, trama quasi di nascosto a noi stessi…
Solo così ci si potrà accorgere della luce che dall’alto illumina e può donare forza e respiro alla propria esistenza e proiettarla verso il futuro, verso quel compimento, cui rinviare ogni giudizio ultimo su se stessi e sulla storia: «La redenzione non cambia le cose, le leggi e i ritmi della realtà contingente, del corpo e dell’intelligenza, ma lavora sul reale, apre degli spiragli, incide sui parametri del pensare, sentire, agire, volere […] ci ricorda […] la verità che questo vecchio mondo antico non sarà mai un paradiso, mai un luogo utopico, ma può e deve essere ciò che è: il mondo limitato come giardino, come luogo di fatica, di sofferenza e della presenza indicibile e rincuorante della Parola, dello Spirito, di uno spazio e di una dinamica che portano oltre» (E. Salmann, Contro Severino. Incanto e incubo del credere, 1996, p. 288).
Ci si accorge che la dinamica della fede è uno spiraglio aperto, inconcluso ed eccedente. Dio che si fa umano perché possiamo diventarlo anche noi, che siamo ancor sempre pre-umani. Non una parola o un ordine definitivi, ai quali affidare le proprie certezze, o per tessere una rete di inviolabili normative, ma il travaglio di una creazione in fieri, una generazione incompiuta che preme sulla pelle delle forme e delle regole per aprirla ad un di più.
«Come imprigionare l’Aperto in sepolcri chiusi? Perché cercare tra i morti colui che non è qui?» Egli, cioè il Risorto, ci invita ad essere, ciascuno e ciascuna, molecole di Aperto, soglie dell’incommensurabilità del mistero umano e divino.
3. Transito
C’è un gesto evangelico, che capovolge radicalmente il meccanismo umano del più e del meno importante, di una gerarchia verticale di grandezze-potenze che innesca inesorabili processi di selezione, emarginazione ed esclusione, fino alla sopraffazione. Nel momento della sua ultima cena con i discepoli, prima che accada l’irreparabile, Gesù si toglie le vesti, si denuda del proprio, e lava i piedi dei suoi amici, preoccupati a discutere chi fosse il più grande fra di loro, chi avrebbe assunto il comando, una volta insediatisi al governo a Gerusalemme.
Togliendosi la veste, egli rivela una signorìa che si pone fuori di ogni funzione, ruolo e rango sociale, fuori di ogni appartenenza ad un interno, a ogni gerarchia visibile indicata dal vestito. «Solo un grembiule», avrebbe detto don Tonino Bello.
Forse questa è la lezione più grande del postmoderno: spogliati di tanti segni maggioritari, prominenti ed eminenti, il corso degli eventi ci depriva dello sforzo e del monopolio a cui per secoli ci si è assuefatti. Esso ci chiede di rinunciare volontariamente ai vantaggi di posizioni egemoniche conquistate, alle cattedre dalle quali governare o dettare legge al mondo. Rinuncia a servirsi della forza dei poteri costituiti, quando essi si prestano a tradurre nei codici statuali le direttive sacrali, etiche o valoriali della gerarchia ecclesiastica. È lo sfaldamento di una forma di cristianesimo, il regime di Cristianità, nata da un’autorappresentazione della Chiesa come unica mediatrice dell’attuazione del Regno di Dio sulla terra, un’agenzia di valori perenni e universali, «al cui interno si aveva la garanzia sociale e culturale di abitare il campo della verità» (De Certeau, Debolezza del credere, 2006, p. 281.
«Questo travaglio ci potrebbe intonare con lo spirito di pietà per ogni umana vicenda, magari piena di crepe, ad immagine di un Dio crocifisso, ridotto a nulla, accomunatosi ai molti crocefissi della storia… Eppure, in quel vinto, in quel sommerso che s’impatta con il negativo, che si fa carico del dolore innocente, si manifesta tutta la passione consumante ed eccedente, folle e delirante del divino, la sua consumazione eucaristica a favore del mondo. Un Dio affidabile che si affida alla singolare e libera ricettività di ciascuno, alla responsabilità personale che offre la propria carne come spazio incarnatorio, senza previa garanzia, tutela o copertura istituzionale contro il rischio…» (I. Nicoletto, Transumananze, 2008, p. 38).