Corso domenicale sul vangelo secondo Matteo
Canova – Prof. Antonio Lurgio
IL COMPITO DEI DISCEPOLI (10 novembre 2013)
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LA COMPASSIONE
Mt. 9, 35 “Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe,
annunziando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità”
In questo versetto l’evangelista allarga a tutte le città e villaggi l’azione di Gesù che in Mt. 4, 23 aveva ristretto alla sola Galilea:
“Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunziando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattia e di infermità nel popolo”.
Il messaggio di Gesù ha come immediata conseguenza la guarigione: chi accoglie la sua parola rinasce/risuscita. Occorre ricordarsi che la malattia/infermità era vista come conseguenza del peccato.
L’accoglienza del messaggio di Gesù toglie l’uomo dalla sua condizione di peccato e di conseguenza guarisce. V. 36 “Vedendo le folle, ne sentì compassione (=splanchnìzein=viscere/intestini), perché erano stanche e sfinite/prostrate (=scoraggiate) come pecore che non hanno pastore”. Mosè, all’approssimarsi della sua morte, chiede a Dio che metta un uomo valido a capo del suo popolo. E Dio sceglie Giosuè. Nm. 27, 15-17: “Mosè disse al Signore: il Signore, il Dio della vita in ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo valido che li preceda nell’uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore”.
Ora sono i discepoli che continueranno l’opera di Gesù, ma non ci sarà un sostituto di Gesù, uno che ne fa le veci (cfr. un vicario di Cristo tanto per intenderci).
Ez. 34, 5: “Per colpa del pastore si sono disperse (le pecore ndr.) e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate”. 1Re 22, 17: “Vedo tutti gli israeliti vagare sui monti come pecore senza pastore” All’epoca di Gesù, Israele è senza un pastore capace/valido. C’è il rischio di fallimento del popolo. Senza pastore/guida si rischia di essere preda di chiunque. Gesù prova compassione ed è la stessa compassione che Dio ha sempre avuto per Israele. Quella compassione che spinge Dio, e ora Gesù, ad intervenire come salvatore/redentore.
La compassione, che significa farsi carico della sofferenza per vincerla, è motivata non dalla supplica delle persone, ma dall’amore misericordioso di Dio e di Gesù: “Udito questo, Gesù disse: Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt. 9, 12-13). E l’agire di Gesù avviene attraverso la comunicazione del suo spirito.

IL SIGNORE E GLI OPERAI DELLA MESSE
Mt. 9, 37-38 “Allora disse ai suoi discepoli: La messe è molta, ma gli operai sono
pochi! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe”
“La messe è molta, gli operai sono pochi”: ci troviamo davanti ad un problema, ad una difficoltà, ma la cosa affascinante è che Gesù trasforma il problema in una risorsa. La messe in questo caso è il popolo d’Israele, sono le pecore senza pastore che si trovano sia in Israele che nel mondo pagano. “Gli operai sono pochi” e allora si deve cercare di inventarsi altre forme di operai, di collaboratori. (Anche oggi il problema di avere pochi preti potrebbe essere un’opportunità per ripensare la dinamica ecclesiologica).
Una frase simile la troviamo anche nel Talmud: “Il giorno è breve, il compito è grande, gli operai sono pigri, la messe è abbondante e il padrone di casa è esigente” (Rabbi Tarfon). Nella frase del Vangelo non si dice che il padrone è esigente, ma che il signore della messe vorrebbe dei collaboratori.
Qual è l’azione di Gesù e quale deve essere l’azione dei collaboratori in questa messe abbondante? La proclamazione del Vangelo della vita è avere compassione attraverso la comunicazione dello Spirito. Se Gesù fa questo, allora cerca collaboratori che facciano altrettanto.
Gesù sta cercando operai (non architetti-capo cantieri-geometri-ingegneri…) disposti ad agire come lui, a provare compassione come lui. C’è uno solo che è il signore della messe, ed è il Padre di Gesù. In questo caso anche Gesù ha la stessa signoria del Padre. Attenzione: Gesù non è il padrone della messe, ma il signore della messe.
Altra cosa importante: Gesù vuole collaboratori, operai, tutti sullo stesso piano, che collaborino con lui e come lui alla proclamazione della vita. Il versetto 38 recita: “Pregate dunque il signore della messe”, ma a volte troviamo scritto “il padrone della messe”. Occorre prestare attenzione al termine greco che indica “signore” non “padrone”.
“Signore=Kyrios” compare nel Nuovo Testamento 719 volte: 18 volte nel Vangelo di Marco, 80 volte nel Vangelo di Matteo, 104 volte nel Vangelo di Luca, 107 volte negli Atti degli Apostoli, 53 volte in Giovanni. Il “padrone=despotes” è colui che vuole comandare sulla messe, esserne il proprietario.
Il “signore” di cui si sta parlando in questo versetto non è il padrone della messe, ma è colui che, in quanto signore, si mette al servizio della messe perché ogni componente di questa messe possa diventa come lui, “signore”. Ecco perché l’evangelista è molto preciso nell’uso del termine: pregate non il “padrone”, ma il “signore”. E i collaboratori devono agire come agisce il signore, non come agisce il padrone.

Al tempo di Gesù i capi religiosi hanno sfruttato il popolo per i propri interessi; non solo, lo hanno lasciato senza guida e si sono poi addirittura impossessati di questo popolo. Gesù sta parlando ai suoi discepoli e sta dicendo che il loro ruolo è quello di essere operai/collaboratori, non di comando all’interno della messe. Devono andare a comunicare il Vangelo della vita, devono andare provando compassione per chiunque avranno occasione di incontrare.
“Pregate dunque il signore della messe” significa che sono i discepoli che sono invitati a pregare. Ma qual è l’obiettivo di questa preghiera? L’obiettivo è che non ci si deve mai dimenticare del proprio ruolo all’interno della messe: nella messe vanno da operai e con la modalità della compassione che ha Gesù. Questa preghiera non è perché il Signore chiami preti, frati, suore (le cosiddette vocazioni speciali…), ma perché io che ci sono dentro non devo dimenticare “perché ci sono dentro e come ci devo essere dentro”.
Questa preghiera vuole escludere ogni ambizione di potere e di carriera nella messe.
Il termine greco usato per indicare “operaio/lavoratore=ergates” significa quei lavoratori a giornata che si guadagnano il pane per vivere quotidianamente e che non hanno la possibilità di incrementare il gruzzolo deponendolo in banca o facendo affari di sorta. Fino a che i discepoli avranno chiaro questo compito, l’attività potrà andare avanti, altrimenti si ritornerà alla situazione fallimentare del popolo di Israele. Quindi si esclude ogni ambizione di potere. Non si va nella messe per fare carriera (costruirsi piedistalli e monumenti vari).

L’ATTIVITÀ DEL MESSIA – IL COMPITO DEI DODICI DISCEPOLI
Mt. 10, 1 “E avendo chiamato a sé i suoi dodici discepoli, diede loro il potere di
scacciare gli spiriti impuri e di curare ogni malattia e ogni infermità”.
Ora passiamo al capitolo 10. Per questi versetti che ci interessano, Matteo ha preso un po’ da Marco e un po’ dalla fonte Q e poi ha rielaborato il tutto. Per la prima volta nel Vangelo di Matteo compare l’espressione “dodici discepoli”. Dovete sapere che all’epoca di Gesù erano rimaste solo due tribù (Giuda e parte di Beniamino), tutte le altre erano scomparse. Nel momento in cui l’evangelista parla di dodici discepoli, questo è un segno di speranza. A dire il vero, il popolo d’Israele aspettava il Messia, che avrebbe ricostituito in grande Israele del tempo di Davide con l’unione delle dodici tribù.
Quindi nel momento in cui appare il numero 12, questo è un segno di speranza: cioè è l’attività del Messia che si sta realizzando. Per l’evangelista Matteo l’espressione “dodici discepoli” sta a significare l’Israele escatologico, cioè l’Israele ultimo/definitivo. Non si tratta più di rifare l’antico Israele davidico, come si aspettava la teologia giudaica, siamo invece nell’Israele degli ultimi tempi, quello che porterà a compimento l’opera creativa iniziata da Dio.
Per l’evangelista Matteo in questi “dodici discepoli” si realizzano tutte le promesse di Dio contenute nella Scrittura. Nei versetti precedenti Matteo aveva detto che Gesù aveva guardato il popolo e aveva visto che era come pecore senza pastore; in questo versetto, nel momento in cui parla dei dodici, infonde/ridà speranza al popolo.
Però c’è un problema: mentre la teologia tradizionale pensava alla ricostituzione dell’antico Israele con dei confini che escludevano gli altri, questi dodici discepoli rappresentano l’Israele escatologico, degli ultimi tempi, l’Israele senza confini, aperto all’intera umanità.
Qual è il compito di questi dodici discepoli?
Gesù dà loro alcuni poteri:
• scacciare gli spiriti immondi (gli spiriti immondi non vengono da Dio, ma sono realtà che a Dio si oppongono): cioè aiutare le persone a liberarsi da tutto ciò che le porta ad essere non pienamente umane;
• curare ogni malattia e ogni infermità.
Quindi il compito di questi discepoli è quello di comunicare vita. Mt 10, 2-4: “I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, che poi lo tradì”.
I “dodici discepoli” del versetto 1 diventano “dodici apostoli” nel versetto 2.
Il termine “discepolo=mathetes” ricorre nel Nuovo Testamento 261 volte: 46 volte in Marco, 72 volte in Matteo, 37 volte nel Vangelo di Luca, 28 volte negli Atti degli Apostoli e 78 volte in Giovanni.
Il termine “apostolo=apostolos (=inviato)” ricorre nel Nuovo Testamento 80 volte: 2 volte nel Vangelo di Marco, in Luca (Vangelo + Atti) 34 volte, in Giovanni e in Matteo una sola volta e precisamente qui.
Il termine “apostolo” significa “inviato”. I dodici discepoli diventano dodici inviati. Gesù ha chiamato dodici discepoli (versetto 1) e qui nel versetto 2 li ha fatti apostoli, cioè li ha inviati. I rabbini e Paolo (1Cor. 1, 1; 2Cor. 8, 23) conoscono il ruolo degli inviati da parte della comunità. Essere “apostolo” non indica una funzione particolare della persona o una categoria particolare, speciale di discepolo. Essere “apostolo” significa semplicemente la missione di ogni discepolo. Ogni discepolo è tale in quanto diventa apostolo; ogni discepolo è mandato/inviato altrimenti non è discepolo. E i successori degli apostoli???
Essere inviato a fare cosa? Ogni discepolo deve essere inviato a comunicare vita insieme a Gesù e come Gesù.
Il discepolo non viene inviato per Gesù, ma viene inviato come Gesù (provare compassione, proclamare il Vangelo della vita, far rinascere le persone che lo accolgono). Le istruzioni che Gesù dà ai Dodici, che diventano apostoli, si riferiscono sempre a coloro che sono all’esterno della comunità: sono mandati alla gente, alla messe, non ad intra ma extra del gruppo e sono mandati come operai. Come abbiamo detto prima, questi discepoli inviati, cioè apostoli, non hanno alcuna funzione, non hanno alcun ruolo all’interno della comunità. Il loro compito è solo quello di comunicare vita alle persone che incontreranno sul loro cammino.
Questa comunità dei Dodici è fatta da personalità molto interessanti:
Simon Pietro e suo fratello Andrea (prima coppia di fratelli); Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo (seconda coppia di fratelli). Questi quattro erano già stati chiamati da Gesù: “Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedèo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono” (4, 18-22).
Vengono presentati poi Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano.
Anche Matteo era già stato chiamato da Gesù: “Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì” (9, 9). Ci sono poi Giacomo di Alfeo e Taddeo, Simone il Cananeo (questo appellativo lo prende da Marco, mentre Luca 6, 15 lo chiama Simone lo Zelota) e Giuda l’Iscariota. Ne abbiamo dodici; cinque li ha chiamati direttamente Gesù, gli altri si sono avvicinati a Gesù ma non si sa come. In ogni caso sono lì perché sono nomi rappresentativi: rappresentano quella parte di Israele che darà adesione a Gesù. Qui Matteo non fa cronaca, ma teologia. Per esempio: alcuni li ha messi nell’ottica della chiamata.
Simone il Cananeo (Cananeo in ebraico significa zelante, fanatico, nazionalista) ed è l’equivalente di Simone lo Zelota; indica colui che ha zelo per il Signore, ma ha zelo per il Signore in cui è stato educato e cresciuto, il Signore della tradizione, quel Signore che odia i pagani, i peccatori, i Romani, i collaborazionisti. Erano persone attaccate più alla loro Legge, alla loro tradizione che a Dio. Il loro zelo più che per Dio era per i loro cosiddetti valori, i valori d’Israele e odiavano chi non la pensava come loro. Giuda Iscariota. Per Iscariota ci sono tre possibili traduzioni:
• Ish-Kerioth: l’uomo di Kerioth, un villaggio a sud della Giudea;
• Ish-Karya: l’uomo che è falso, colui che lo tradisce;
• Sikarius: l’uomo che ha la sika=pugnale, il terrorista.
Simone Pietro, il primo della lista, è colui che rinnega Gesù; Giuda è l’ultimo della lista ed è colui che lo tradisce; tutti gli altri sono in mezzo, cioè tutti sono coinvolti. L’evangelista unisce tutti i dodici discepoli nell’ideologia tradizionale di Israele.
L’evangelista vuol dirci che nella comunità di Gesù c’è posto per tutti. Matteo è sempre paradossale: con questo elenco ci dice che nella comunità di Gesù c’è posto anche per nemici acerrimi, il fanatico e radicale Simone da un lato e il suo nemico per eccellenza e cioè Matteo l’esattore delle tasse e quindi collaborazionista dei romani. Far parte della comunità di Gesù non dipende da motivi etnico-razziale (il fatto di essere ebreo non ti dà il lasciapassare per entrare nella comunità di Gesù) o religiosi, ideologici o politici, ma dall’accoglienza e dalla pratica del suo messaggio. Ed è per questo motivo che l’evangelista mette come discepoli, persone chiamate da Gesù, persone che compaiono e non sono stati chiamate da Gesù, persone violente, persone antagoniste, pure e impure.
Viene richiesta solo una cosa: l’accoglienza e la pratica del messaggio di Gesù, cioè provare compassione per l’uomo, agire con compassione, comunicare vita a ogni persona senza distinzione etnico-razziale, religiosa, ideologica, ecc. 10, 5a: “Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti (=dòdeka apésteilen)”. Abbiamo detto che ogni discepolo, in quanto inviato, è apostolo: “Inviati=apostèllein”. A Qumran vi erano dodici laici che rappresentavano le dodici tribù, più tre sacerdoti in rappresentanza delle tre famiglie sacerdotali discendenti di Levi.