Canova, 16 febbraio 2007
(don Marcello Farina)
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1) Introduzione: un «nuovo» clima culturale nella società e nella Chiesa

La seconda metà del ventesimo secolo (che è la parte della storia che tutti noi abbiamo vissuto intensamente) ha portato con sé, fin dal suo inizio, molte tumultuose metamorfosi in tutti i campi dell’esperienza umana, alcune delle quali non hanno ancora finito di incidere profondamente nella vita concreta delle donne e degli uomini (ad es., la rivoluzione tecnologica, i mutamenti della politica mondiale, il crollo delle «ideologie», la «morte» e la «risurrezione» della religione, ecc. ecc.), mentre altre possono essere colte dai frutti più o meno rigogliosi da loro prodotte nella storia di questo «secolo breve», come viene ormai definito il secolo appena trascorso (ad es.: la dichiarazione dei diritti dell’uomo, lo spirito «democratico», il pluralismo religioso, il primato della coscienza, ecc. ecc.).
Dopo la seconda guerra mondiale si è andati cogliendo, soprattutto in Europa, i sedimenti «ultimi» del grande processo di secolarizzazione iniziato in piena epoca moderna, con i suoi risultati più eclatanti, come la laicizzazione dell’esperienza diffusa e la riconosciuta autonomia delle «realtà terrene», così come sono andati esaurendosi alcuni grandi concetti della modernità (il soggettivismo, la razionalità, ecc. ecc.) per lasciare il posto a quella che viene chiamata ormai comunemente «la condizione postmoderna».
Non ci è permesso, ovviamente, in questo contesto di dedicarci ad un’analisi approfondita di tutti questi fenomeni, decisivi per la comprensione del nostro tempo, ma vale la pena, invece, di sof-fermarci un attimo sulle «tumultuose metamorfosi», per riprendere l’immagine iniziale, che hanno interessato più da vicino le Chiese (e quella Cattolica, in particolare) a partire dagli anni Cin-quanta del ventesimo secolo. Il mutamento riguarda sia la teoria (la teologia) che la prassi (i com-portamenti delle comunità cristiane). Proprio queste «metamorfosi» sono importanti per compren-dere i cospicui mutamenti anche della «Dottrina sociale della Chiesa» (DSC). In breve, necessa-riamente, si possono ricordare i seguenti passaggi:
– la «svolta antropologica», anche in teologia. L’uomo, la sua vita, la sua storia, di-ventano il punto di partenza e di arrivo di tutta la ricerca teologica (Karl Rahner è il teologo che dà l’avvio a questa straordinaria stagione di ricerca!). Si potrebbe recuperare l’immagine dell’enciclica Redemptor Hominis (1979) di Giovanni Paolo II: «L’uomo è la via della Chiesa». È l’Incarnazione, l’incontrarsi dell’uomo e di Dio in Gesù di Nazareth, il mistero che interpreta l’essenza dell’annuncio cristiano.
– Il primato della storia sulla metafisica. Ciò significa che la fede e le verità che essa ricerca hanno una dimensione sempre «in divenire», inserite come sono nel cammino storico dell’umanità. La stessa ricerca religiosa viene colta sempre di più come esperienza, come vita, come «conversione» ad una persona, piuttosto che come deposito indefettibile di «essenze» lontane e astratte.
– Nasce un nuovo rapporto tra Chiesa e mondo, di attenzione e di reciproco ri-spetto: non più una Chiesa «fuori» del mondo, estranea e giudice ad un tempo, e nemmeno una Chiesa «dentro» il mondo, legata in un rapporto privilegiato di alleanza tra trono e altare, dele-terio per entrambi. In qualche modo si può dire, addirittura, che questa è stata la vera, grande que-stione, che stava sullo sfondo anche della DSC: la riforma della Chiesa e la sua missione nel mondo.
Ancora sulla Chiesa del secondo dopoguerra aleggiava (ma è proprio scomparso?) il pensiero di Pio IX, che rivendicava, in un Breve del 1873 indirizzato ai giovani cattolici milanesi, il ruolo as-soluto e preminente della gerarchia e del Papa in particolare. Egli scriveva: «In vero, chiunque consideri l’indole della guerra contro la Chiesa, facilmente comprenderà che tutti gli artifizi dei nemici tendono allo scopo di distruggere la sua costruzione e di spezzare i vincoli che tengono uniti i popoli ai vescovi, al vicario di Cristo […]. Sebbene i figli del secolo sieno più astuti dei figli della luce, le loro frodi e la loro violenza riuscirebbero meno nocive se molti, che diconsi cattolici di nome, non stendessero loro amica la mano […] per mezzo di dottrine che dicono cattolico-liberali, basate su perniciosissimi princìpi, come se non fosse scritto “niuno può servire a due padroni” […]. Ricordate che anche al romano pontefice, che sulla terra tiene le veci di Dio, spetta, per ciò che riguarda la fede, il costume, il regime della Chiesa, quanto Cristo disse di se stesso: “Qui mecum non colligit, spargit”». (“Chi non raccoglie con me, disperde”!).
Ma, forse, è ancora più impressionante prestare un attimo di attenzione al «vuoto» culturale, nell’ambito teologico, che accompagnava la riflessione dentro la Chiesa, nonostante i tentativi com-piuti dai Papi, a partire da Leone XIII, di dare consistenza alla DSC. Il padre Yves Congar, uno dei grandi esperti del Concilio Vaticano II, in una interessantissima relazione su «La situazione ecclesiologica al tempo dell’Ecclesiam suam» (1964), fa un’analisi del Dictionaire de theologie catholique, un’opera immensa di 41.338 colonne (15 volumi), pubblicata tra il 1903 e il 1950, in cui compaiono, o non compaiono, le seguenti voci che si riferiscono all’attività temporale (mondana) dell’uomo: «professione: c’è solo la voce Professione di fede; mestiere: non risulta; lavoro: non risulta; maternità: non risulta; donna: non risulta; amore: un terzo di colonna diviso in: amor di Dio, amore del prossimo, amor proprio, amore puro, ma su ciò che noi intendiamo come amore umano nulla; amicizia: non risulta;… corpo: un brano sui “corpi gloriosi”; sesso: niente; piacere: niente; gioia: niente; male: 25 colonne (!); economia: non risulta; politica: non risulta (!!!); potere: 103 colonne tutte dedicate al potere del Papa nell’ordine temporale (!!); tecnica: non risulta; scienza: un lungo articolo diviso in queste parti: scienza sacra, scienza di Dio, scienza degli angeli e delle anime separate dal corpo, scienza di Cristo, ma niente a proposito di ciò che noi oggi intendiamo per scienza; storia: non risulta (!!); mondo: niente; laico e laicato: niente, salvo un brano sul laicismo stigmatizzato come un’eresia».
Secondo Congar, appunto, attraverso il Concilio si prende coscienza che «il cristianesimo diventa avvenimento dinamico solo ricongiungendosi con questo mondo e con questa storia» nella consapevolezza che «non si tratta di subordinare il temporale alla Chiesa, ma di riferirlo all’escatologia, che è la promessa del suo pieno compimento».
Ciò che stupisce è il fatto che la comunità cristiana, la Chiesa cattolica, abbia potuto camminare per decenni, senza che nascesse una sorta di dialogo costruttivo tra il Dizionario di teologia e la DSC, ciascuna delle due realtà, invece, destinata a vivere, per così dire, una vita parallela.
L’evento del Concilio Vaticano II (1962-1965), il più importante, certamente, per la Chiesa cattolica di tutto il ventesimo secolo, pose definitivamente fine a questa estraneità, prima di tutto dando una «nuova» visione di Chiesa (nella Lumen gentium) e, poi, sviluppando positiva-mente il tema del rapporto Chiesa-mondo (nella Gaudium ed Spes), in un vero e proprio «ag-giornamento» dottrinale e pastorale.

2) La «dottrina sociale» da Giovanni XXIII (1958-1963)
a Giovanni Paolo II (1978-2005)

L’eredità di Pio XII, per quel che riguardava la dottrina sociale, era stata affidata, come si è vi-sto, ad un’enciclica quasi sconosciuta, la Sertum laetitiae (1939), indirizzata ai vescovi americani e, poi, a due radiomessaggi successivi, del 1941 e del 1944. Il primo, per il 50° della «Rerum No-varum», ribadisce la dottrina della Chiesa sull’origine e l’uso dei beni creati e sulla funzione dello Stato rispetto alla persona umana, al lavoro e alla famiglia, alla quale bisogna assicurare uno «spazio vitale» da concretarsi in una «proprietà», base e garanzia di «stabilità economica». In fondo si ri-badiscono i concetti-chiave dell’enciclica di Leone XIII.
Quanto al Radiomessaggio del 1° settembre 1944, rivolto ancora a stabilire il primato della persona umana e i suoi inalienabili diritti, esso apre uno spiraglio nuovo nell’ambito della DSC: quello sulla «democrazia». Pio XII presenta lì dentro la visione di una democrazia intesa come regime di pace, di lavoro, di moralità, di giustizia oltre che di libertà. Nel messaggio papale cittadini e autorità vengono messi di fronte alla realtà di rapporti che permettano la coesistenza di libertà e autorità, di obbedienza e di collaborazione. L’uomo deve restare al centro con i suoi diritti e i suoi doveri e non ci si può accontentare di instaurare la democrazia come una cosa data una volta per tutte, ma si deve viverla e costruirla continuamente con la giustizia e la pace.
Il suo successore, Giovanni XXIII (1958-1963), colui che inaugura una «nuova» stagione nella vita della Chiesa cattolica con l’indizione del Concilio Vaticano II (25 gennaio 1959) e, poi, con la celebrazione del primo periodo (dall’11 ottobre 1962…), è, dal canto suo, il Papa della Mater et Magistra (15 maggio 1961, per il 70° della RN) e della Pacem in terris (11 aprile 1963).
La Mater et Magistra (MM) suscitò subito grandi entusiasmi, a causa probabilmente del momento storico (gli anni della «nuova frontiera») e delle attese di rinnovamento ecclesiale che il cambio di guardia al vertice della Chiesa aveva portato con sé.
Il concetto-chiave intorno a cui tutto ruota nell’enciclica giovannea è quello di «socializza-zione» dei beni provenienti dal lavoro, che determina la nascita dello «stato sociale» (Welfare State), cioè il crescente intervento dei poteri pubblici in settori delicati della vita pubblica, come l’assistenza, la sanità, l’istruzione ecc. ecc. Quello che Pio XII temeva come un cedimento all’ideologia socialista viene riconosciuto da Giovanni XXIII come prodotto «degli uomini, esseri con-sapevoli, liberi e portati per natura a operare in attitudine di responsabilità» (n. 67 della MM).
Contemporaneamente Papa Giovanni riflette su altri due capisaldi della DSC dei suoi prede-cessori, quali il principio di sussidiarietà (Pio XI) e il diritto di proprietà privata (presente in tutti). Del primo egli mette in evidenza la fragilità in un contesto sociale ed economico complesso come quello del rinnovato slancio produttivo degli Anni Sessanta. Se quel principio stabiliva il ripar-tirsi delle responsabilità a cerchi concentrici, a partire dal più piccolo (l’individuo, la famiglia, le as-sociazioni ecc. ecc.), a quale cerchio appartenevano le multinazionali della produzione e della comunicazione? Fatta salva la tutela dell’«iniziativa personale dei singoli», per il resto si dovrà anche accettare una strategia «multiforme, più vasta, più organica» (n. 61).
Quanto al diritto di proprietà privata la MM porta con sé due sottolineature: che il mero pos-sesso del bene materiale conta ben poco rispetto ad altre forme di acquisizione di esso (ricchezza da lavoro più che da capitale) e che la proprietà va diffusa a tutte le classi sociali, abolendo così la di-visione tra padroni e proletari tipica del sistema capitalistico costituitosi nel tempo.
La Pacem in terris (PT) rappresenta, dal canto suo, un punto di svolta dell’insegnamento sociale e dello stile dell’annuncio della Chiesa cattolica. Due anche qui sono gli elementi-chiave del documento:
a) l’espressione evangelica «i segni dei tempi» (Matteo 16, 1-4) e
b) la distinzione tra «errore» ed «errante» nell’esercizio delle attività cui ciascuno è chiamato.

a) Quanto al primo elemento, l’invito a riconsiderare la realtà mondana, politica, sociale, culturale, con lo spirito di chi cerca in essa i «segni» premonitori del Regno di Dio, affidati da lui al tempo attuale, muta profondamente la prospettiva della stessa DSC. Si apre la via ad un insegnamento fiducioso e incoraggiante che finalmente solleciti gli uomini a guardarsi attorno con speranza e a elevare lo sguardo per avvertire il senso segreto delle cose e degli eventi che li interessano, della storia cui appartengono.
«In questa nuova ottica la PT presenta un quadro molto suggestivo della realtà contemporanea. La pro-mozione sociale ed economica del proletariato, l’ingresso della donna nella vita pubblica, la progressiva conquista di un’indipendenza politica da parte di tutti i popoli, il riconoscimento a tutti gli uomini di una pari dignità, l’affermazione di una carta universale dei diritti umani, la crescita del convincimento che le controversie tra i popoli debbano essere risolte con la mediazione e non con la guerra, l’introduzione di organismi internazionali per la rimozione dei più gravi squilibri economici e culturali, il fenomeno della socializzazione a tutti i livelli: ecco i “segni dei tempi” che il credente deve saper leggere alla luce della sua fede. Quella positività delle cose e delle opere umane che il magistero dei pontefici precedenti cercava di riconoscere per lo più in astratto, quale agognato frutto dell’obbedienza alla legge naturale e ai precetti divini, diviene così realtà storica, traccia del disegno di Dio, preannunzio terreno del Regno che verrà. All’argomento deduttivo che si appellava ai princìpi della metafisica e dell’etica per conformare il criterio di giudizio, subentrano invece l’ascolto, la prudenza del discernimento e la speranza che danno vita alla relazione semantica tra il segno e il suo significato ancor latente, ma già operante in modo misterioso».
Ma c’è di più. I «segni» di cui parla la PT ineriscono a fenomeni generali, non contrassegnati da una scelta religiosa, come a dire che non sono appannaggio della «civiltà cristiana», ma appar-tengono a tutti gli uomini di buona volontà, credenti o meno.

b) La distinzione, poi, tra «errore» e «errante» porta con sé un’autentica novità rispetto al magistero politico-sociale della Chiesa precedente (da Pio IX fino a Pio XII!). Se l’errore va re-spinto, è ancor più doveroso che l’errante sia rispettato nella sua dignità dinanzi agli uomini e a Dio, stimato e amato. Sarà la virtù della «prudenza», afferma papa Giovanni, ad indicare di volta in volta i gradi di collaborazione possibile con coloro che sono legati ad altre visioni del mondo.
Certo è che queste prese di posizione del Papa con l’enciclica PT mettevano a repentaglio il carattere di «dottrina» a tutto il deposito fino a quel momento realizzato dal vertice istituzionale della Chiesa cattolica.
E, in effetti, ciò è ancora più visibile nella prima enciclica di argomento politico e sociale di Paolo VI (1963-1978), la Populorum progressio del 23 marzo 1967. Era appena finito il Con-cilio Vaticano II (8 dicembre 1965), che aveva apportato decisive modifiche agli impianti della teo-logia «romana», come si è già avuto modo di accennare nell’introduzione. L’oggetto di annuncio del pontefice diventa «il progresso dei popoli» su scala planetaria. «È il mondo intero nella sua dinamica storica che l’ora presente testimonia, nelle speranze operose di tutti gli uomini per un futuro migliore, ciò che richiede dalla Chiesa la prova di una cura assidua, di un assillo speculativo e pratico dominante: non per impartir ordini e capeggiare il progresso, ma per seguir di lato con amorosa trepidazione e benedire gli sforzi umani». Alle spalle dell’enciclica c’è anche un’iniziativa del presidente americano J.F. Kennedy, il quale aveva fondato nel 1961 un’«Alleanza per il Progresso» che impe-gnava gli Stati Uniti a offrire nel giro di dieci anni venti milioni di dollari agli Stati latino-americani per il loro sviluppo sociale ed economico. Contestualmente all’iniziativa kennediana, era sorto un nutrito movimento teologico che voleva dimostrare, Bibbia alla mano, la necessità di un impegno per il progresso quale condizione previa e imprescindibile della missione cristiana.
(Era nata così una «teologia dello sviluppo», con Alvez, Segundo, Comblin, Gutierrez, da cui sarebbe sorta poi la «teologia della liberazione»).
Ci sono poi alcuni spunti di novità nell’enciclica che vanno sottolineati,

a) come quando papa Montini accentua vieppiù la subordinazione del diritto di pro-prietà all’utilità comune e alla potestà dello Stato di piegarla alle esigenze sociali (n. 23: bella in proposito, è una citazione da s. Ambrogio: «Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Perché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti»).

b) Nuova è la quasi completa revoca del principio di sussidiarietà, con il rico-noscimento che «spetta ai pubblici poteri di scegliere, o anche di imporre, gli obiettivi da perseguire, i traguardi da raggiungere, i mezzi onde pervenirvi» mediante una politica coordinata che coinvolga anche «le inizia-tive private e i corpi intermedi» (n. 33).

c) Nuovo infine è lo spirito di fondo che pervade l’enciclica e che Chenu riassume osservando che: «[per Paolo VI] non basta una conversione degli individui; sono le strutture che bisogna investire e trasformare persino nella redistribuzione dei poteri. È vero che a più riprese [la Populorum pro-gressio] fa appello alla buona volontà dei potenti, alla generosità dei popoli ricchi, al loro senso sociale per un’„assistenza” alla depressione dei popoli poveri. Queste vestigia di moralismo provengono dal fatto che il punto di partenza del discorso è il mondo occidentale capitalista, piuttosto che la contestazione dei popoli sottosviluppati; e resta l’illusione, generale a quel tempo, di una distribuzione omogenea dello sviluppo, mentre è lo sviluppo stesso dell’occidente che genera il sottosviluppo del Terzo Mondo, mediante il saccheggio delle sue risorse».

Con la Lettera apostolica (non perciò un’enciclica, quasi a significare il “declassamento” della DSC) Octogesima Adveniens del 1971, papa Montini compie l’opera iniziata da Giovanni XXIII, sottolineando che sono le situazioni storiche umane a diventare il «luogo teologico» di un di-scernimento guidato dalla lettura evangelica dei segni dei tempi e non più da princìpi astratti legati alla legge naturale e alla morale cattolica.
Scrive Paolo VI: «Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra mis-sione. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere princìpi di riflessione, criteri di giudizio e direttive d’azione dall’insegnamento sociale della Chiesa, qual è stato elaborato nel corso della storia, e particolarmente in questa èra industriale, a partire dalla data storica del messaggio di Leone XIII “sulla condizione degli operai”, di cui abbiamo l’onore e la gioia di celebrare oggi l’anniversario […]».
Alla Chiesa compete di «accompagnare» gli uomini nella loro ricerca. In questo modo il concetto di «dottrina sociale» è reciso alla radice e il suo carattere «immutato e immutabile», cui a-vevano alluso i Pontefici precedenti è respinto addirittura come il peggiore dei difetti. Lasciare o prendere, allora?

3) La DSC di Giovanni Paolo II: alcuni accenni

La risposta di Papa Wojtyła alla domanda appena sopra formulata non porta con sé equivoci o tentennamenti; per lui occorre «prendere» di nuovo in considerazione la DSC e, addirittura, renderla parte della morale cattolica in campo sociale ed economico. Nella Sollicitudo rei socialis del 1987 egli scrive che la Chiesa in tutto il suo insegnamento sociale ha cercato e cerca tuttora «di guidare gli uomini perché essi rispondano, appoggiandosi alla riflessione razionale e sull’apporto delle scienze umane, alla loro vocazione di battezzati che sono responsabili della società terrena». È chiaro che è ancora la gerarchia e in particolare il romano pontefice a dettare la riflessione ai laici battezzati, cui viene riconosciuta la personale responsabilità all’interno della vita sociale, economica e politica. (A ben vedere si tratta di un passo indietro rispetto allo stesso Concilio Vaticano II e alla sua visione di Chiesa intesa come «popolo di Dio» in cammino).
Per Giovanni Paolo II la DSC «ha di per sé il valore di uno strumento di evangelizzazione: in quanto tale essa annuncia Dio e il mistero di salvezza in Cristo ad ogni uomo e, per la medesima ragione, rivela l’uomo a se stesso. In questa luce, e solo in questa luce, si occupa del resto: dei diritti umani di ciascuno e, in particolare, del “proletariato”, della famiglia e dell’educazione, dei doveri dello Stato, dell’ordinamento della società nazionale e internazionale, della vita economica e della cultura, della guerra e della pace, del rispetto alla vita dal momento del concepimento fino alla morte» (Centesimus Annus, n. 54). «L’interventismo sociale» di Papa Wojtyła, che è riscontrabile in tutti i suoi documenti, anche in quelli non direttamente dedicati alla DSC, è da lui interpretato come quella «nuova evangelizzazione» di cui il mondo contemporaneo ha bisogno, tenendo conto che «non c’è vera soluzione della “questione sociale” fuori del Vangelo» (CA, n. 5).
Ciò che fa da trama, poi, al suo pensiero e, in certo modo, da guida ai suoi interventi ripetuti è «la corretta concezione della persona umana e del suo valore unico» (CA., 11). Qui troviamo il punto-chiave di tutta la dottrina sociale di Giovanni Paolo II: è la visione antropolo-gica cristiana (il personalismo cristiano) che fa da sfondo alle sue tre encicliche sociali: la Labo-rem exercens del 14 settembre 1981 (90° della Rerum Novarum); la Sollicitudo rei socialis del 30 dicembre 1987 (20° della Populorum progressio) e la Centesimus Annus del 1° maggio 1991 (100° della Rerum Novarum).
Sarebbe qui sciocco e impertinente il tentativo di render conto della ricca e approfondita te-matica sociale offerta da Papa Wojtiła nel suo lungo servizio pastorale. Mi pare importante, invece, fermare l’attenzione su due questioni: cioè sul a) «metodo» usato dal Pontefice nel trattare la DSC e, poi, b) su tre caratteristiche tematiche ricorrenti negli scritti papali.

a) Sul metodo, per così dire. L’argomentazione dottrinale viene svolta a mo’ di «sillo-gismo», con una premessa maggiore, una premessa minore e una conclusione. La premessa mag-giore è sempre positiva ed è formulata a partire dal pensiero biblico o ecclesiastico sulle questioni proposte: ad es., nella LE (Laborem exercens) il tema è il lavoro, così come è voluto da Dio, vissuto da Cristo, e quindi capace di portare a perfezione «l’amore» (cioè il dono di sé della persona); nella SRS (Sollicitudo rei socialis) il tema è lo sviluppo, che porta con sé l’apertura al bene comune del genere umano, alla famiglia umana, costruito «anche» dal profitto (giudicato positi-vamente!), soprattutto se accompagnato dal rispetto per la natura e dallo spirito democratico; nella CA (Centesimus Annus) è la stessa dottrina della Chiesa che propone ed esalta il primato della persona e, di conseguenza, si prende cura dei poveri, per una promozione umana collettiva e condivisa.
La premessa minore, invece, prende atto della situazione storica concreta e denuncia, in tutti tre i documenti pontifici, la condizione disumana di tante donne e di tanti uomini del nostro tempo. I mali sono noti: disoccupazione, emigrazione, questioni salariali, discriminazioni di minoranze (nella LE in particolare); il terzo mondo sfruttato, oppresso, discriminato, povero ecc. ecc. (nella SRS in particolare); gli errori «antropologici» del totalitarismo, del socialismo e del disastro ecologico (nella CA soprattutto).
La conclusione è, poi, consona ai tre temi trattati: il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro (LE); la solidarietà è la virtù morale che permette uno sviluppo equilibrato (SRS); la Chiesa (e in particolare la DSC) sarà fedele nel fare propria la via dell’uomo (CA).

b) In particolare, infine, si può fermare l’attenzione su tre caratteristiche tematiche che attraversano tutto il pensiero di Giovanni Paolo II in materia «sociale». Ad esse è sotteso un «pregiudizio» fondamentale: che la riforma sociale richiede una conversione morale a tutti i livelli della società. I temi, comunque, sono: la democrazia, l’opzione preferenziale per i poveri e il lavoro.
– La democrazia: negli scritti di Giovanni Paolo II emerge un concetto differente di democrazia. Essa è intesa come l’assunzione della responsabilità della propria esistenza sociale e quindi riguarda qualsiasi forma di partecipazione alla vita collettiva. Se nella teoria liberale l’ideale democratico era quello di massimizzare nella società la libertà individuale, la teoria cattolica propone un concetto di democrazia che mira a massimizzare la partecipazione personale (anche con la riattivazione del principio di sussidiarietà). (Peccato che questo non valga per l’organizzazione della Chiesa cattolica!).
– L’opzione preferenziale per i poveri: sollecitato anche dalle teologie contempo-ranee (della liberazione, della speranza, dalla teologia politica) il Papa invita con insistenza a considerare la società dal punto di vista dei poveri, dei deboli e degli emarginati e a fornire un sostegno pubblico alla lotta unita che ha come scopo la loro emancipazione. Questo «popolo» è chiamato a svolgere il ruolo di agente di cambiamento sociale!
– Infine il lavoro come cultura: secondo papa Wojtyła «il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale» (LE, 3).
«Attraverso il lavoro le persone costruiscono il loro mondo e agendo così ogni individuo realizza simulta-neamente se stesso. Perciò, ciò che forma la mentalità della gente non sono le idee proposte dagli insegnanti, dai predicatori o dai leaders politici; ciò che forma la loro mentalità sono le condizioni del lavoro quotidiano. L’organizzazione del lavoro in industrie, imprese, uffici e altre società decide largamente se la gente sarà nell’insieme cooperativa o competitiva; se diventerà intelligente sviluppando continuamente la mente o se diventerà irriflessiva e ottusa; se sarà creativa, aperta alle nuove idee o se rimarrà attaccata alla routine e sarà spaventata dalle nuove esperienze. Il lavoro, nella Laborem exercens, è parte della cultura, in effetti ne è la parte principale. Noi siamo costruiti o distrutti dal lavoro che svolgiamo».

3) Brevissima conclusione

Forse siamo rimasti frastornati dalla vastità e dalla complessità dei dati e dei temi che accom-pagnano lo sviluppo della DSC nel tempo del Dopoconcilio. Luci e ombre si accumulano e si inter-secano in questo gigantesco castello, costruito dai Pontefici negli ultimi cinquant’anni con esiti di-versi. Si può parlare, perfino, di morte e risurrezione della DSC, se si pensa al travaglio che l’accompagna da Giovanni XXIII a Paolo VI e, di seguito, all’enfasi che le viene riservata nell’opera pastorale di Giovanni Paolo II. Per papa Giovanni e, soprattutto per Paolo VI era «il mondo» a mettere davanti alla Chiesa i grandi problemi dell’umanità, cui la comunità cristiana partecipava, «accompagnando» (è il verbo di Paolo VI!) lo sforzo comune anche con la speranza cristiana e con la fede di un mondo «già» redento, anche se «non ancora» salvato in pienezza; per papa Wojtyła è la Chiesa che è chiamata a guidare (è il verbo di Giovanni Paolo II) la comunità umana verso la sua emancipazione, perché è il germe del Vangelo che ha la forza di trasformare i suoi sforzi quotidiani. Sullo sfondo c’è una diversa interpretazione del rapporto Chiesa-mondo, come si è già visto e, di conseguenza, un diverso modo di concepire la laicità, la secolarizzazione e, in fondo, il senso profondo dell’essere cristiani e dell’autonomia della coscienza e delle «realtà terrene».
Non è facile dare una risposta unica; è già tanto rifletterci sopra e non accettare «luoghi co-muni» e acritiche obbedienze!