IL CIECO, LO ZOPPO, IL MORTO
I TEMI DELLA VITA NEL VANGELO DI GIOVANNI
Frate Alberto MAGGI
Tratto da incontro Cittadella, 06 – 08 settembre 1996
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Introduzione
Quest’anno tratteremo i temi della vita nel vangelo di Giovanni. Perché i temi della vita? Basta un semplice controllo in un dizionario biblico per vedere come l’espressione, il tema della vita, sia presente in misura preponderante in Giovanni. Pensate che, mentre Marco tratta il tema della vita appena quattro volte, cinque Luca e sette Matteo, il tema della vita, la parola vita, la vita indistruttibile, nel vangelo di Giovanni appare per ben 39 volte, al punto che possiamo affermare che il tema della vita è il filo conduttore del vangelo di Giovanni.
E il tema della vita fa parte del progetto di Dio sull’umanità che viene espresso da Giovanni nel prologo, dove dice: in Lui era la vita (in Gesù era la vita) e la vita era la luce degli uomini. Chi accoglie Gesù e il suo messaggio trova una qualità di vita che gli indica la strada. Non la luce è la vita degli uomini, e per luce nell’ebraismo si intendeva la legge; ma la vita, l’esperienza vitale e profonda dell’uomo gli fa da guida. E a questo punto tutte le altre luci si eclissano.
Il vangelo di Giovanni
Segni, potenza, opere – miracoli
I gesti concreti adoperati da Gesù per trasmettere o per restituire questa vita indistruttibile agli uomini, vengono presentati dagli evangelisti con tre termini: segno, potenza e opera. Termini che gli evangelisti adoperano per l’attività di ogni credente e questo è importante e sarà un po’ la linea che seguiremo in questi nostri incontri. Quindi i gesti concreti, visibili con i quali Gesù ha restituito o comunicato vita agli altri e vanno, ripeto, sotto il nome di segno, opera o potenza, non sono specialità di Gesù, non sono caratteristiche straordinarie o dei poteri straordinari di Gesù, ma delle possibilità che ogni credente ed ogni comunità ha la possibilità di ripetere nella propria vita. Ecco perché, per esempio, nel vangelo di Giovanni troviamo un’espressione che può sembrare paradossale. Gesù, nel capitolo 14 versetto 12, dice: io vi assicuro che chi crede in me compirà opere più grandi di quelle che io ho compiuto.
Vedremo che una di queste opere che Gesù ha compiuto è restituire la vista ad un cieco. Ebbene, Gesù dice chi di voi crede in me (credere significa dare adesione), farà cose addirittura più grandi. Oppure, nel vangelo di Marco Gesù dirà: questi saranno i segni che accompagneranno coloro che credono in me e, tra gli altri segni, se berranno qualche veleno non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno. Infine, sempre in Marco, Gesù dice: non c’è nessuno che possa compiere dei prodigi o un gesto potente nel mio nome e subito parlare male di me.
Quindi le opere, i segni e i prodigi compiuti da Gesù per trasmettere vita sono possibilità che ognuno di noi, sia individualmente sia a livello comunitario, può rivivere o rifare nella propria vita, ma in misura ancora più grande di quelli fatti da Gesù. Ripeto, non è un paradosso, ma è Gesù stesso che ci assicura: quello che io ho fatto, voi lo potete fare in maniera più grande. Per questo nei vangeli e spero di usare parole esatte ed attente, si evita il termine greco che viene tradotto nella nostra lingua con “miracolo”. Nei vangeli il termine greco che significa miracolo non viene mai usato per indicare le azioni con le quali Gesù comunica o trasmette la vita.
Per cui possiamo, senza ombra di smentita, affermare che i vangeli non ci narrano miracoli di Gesù. Ci narrano di opere, di segni, di prodigi o meglio opere potenti con le quali Gesù trasmette vita; non si parla di miracoli compiuti da Gesù.
Analizziamo il significato del termine per comprendere meglio. Per miracolo si intende un intervento straordinario che vada al di là delle leggi della natura. Per esempio ad una persona che è monca gli spunta l’arto mancante; questo sarebbe un miracolo, che è distinto dalla guarigione.
La guarigione è un intervento all’interno delle capacità dell’uomo, la persona paralitica o malata di qualcosa che recupera in maniera visibile e concreta la parte colpita dall’infermità. Nei vangeli si trovano guarigioni, ma non si trovano miracoli. Per questo, ripeto ancora una volta, i vangeli non ci parlano di miracoli straordinari compiuti da Gesù, ma di opere che ognuno di noi può fare. Per cui non c’è da chiedere al Signore di moltiplicare pani e pesci, perché Lui si aspetta che condividiamo tra di noi i pani e i pesci che già ci sono. Non c’è da invocare il Signore gridando salvaci, ma da prendere coscienza e rendere operativa la salvezza che Lui già ci ha dato.
Perciò, il termine miracolo nei vangeli non c’è; c’è il termine segno che quando è accompagnato dal termine prodigi ed è al plurale, è sempre negativo. Le espressioni che troviamo nei vangeli, segni e prodigi, sono sempre negative e vengono sempre rifiutate da Gesù. Gesù rifiuterà assolutamente di compiere questi segni e prodigi e, attenzione, perché saranno le azioni compiute dai sedicenti “unti dal Signore” che nel corso della storia, come afferma Gesù, sempre verranno alla ribalta per ingannare, se possibile, pure gli eletti. Sono gli unti dal Signore, i falsi messia e i falsi profeti, dice Gesù, che compiranno segni e prodigi, mentre Lui si rifiuterà categoricamente di attuarli.
Il significato esatto del termine “miracoli”
Vedremo l significato esatto del termine “miracoli”e come Gesù denunci quale generazione adultera e perversa, quella che gli chiede di compiere questi segni. Ma, un altro aspetto importante è che questi segni, queste opere, queste azioni potenti compiute dal Signore, sono in relazione con il Dio in cui si crede. Quindi Dio si manifesta attraverso dei segni, ma è importante e in questi incontri lo sottolineeremo spesso, vedere qual è il Dio in cui noi crediamo. Chi crede in un Dio che viene concepito come potenza, realizzerà le sue manifestazioni esclusivamente come manifestazioni di potere.
Troviamo ad esempio nel libro di Giosuè, al capitolo sesto, la conquista di Gerico. Questo Dio che aiuta il suo popolo a conquistare una città in una maniera e con una semplicità straordinaria: una processione intorno alle mura, crollano le mura, e Dio stesso ordina di massacrare tutti gli abitanti, animali compresi. In altri testi del genere è interessante vedere come il Padreterno fosse stato un verde prima dei tempi, perché, per esempio, in un brano dice: ammazzate tutti quanti, gli alberi no. Prima gli alberi e poi le persone. Bene, l’archeologia, naturalmente, smentisce queste narrazioni che non vogliono essere storiche, ma teologiche. Sappiamo dall’archeologia che quando gli ebrei giunsero a Gerico, nel 1200 a.c., da ben 300 anni Gerico era stata distrutta e abbandonata dalla gente, quindi nessun massacro, consoliamoci, da parte del Padreterno.
Quando Dio viene concepito come potenza, le sue opere sono viste come manifestazione di potere e di morte. Sempre per rimanere nel libro di Giosuè, quando a Gàbaon c’era una battaglia e per gli ebrei si metteva male, allora il Padreterno collaborava, scagliando dal cielo grandine grossa come pietre. Ne massacrava una buona parte, ma visto che c’era ancora da fare, fermava il sole e la luna per permettere agli israeliti di continuare il massacro dei nemici. Naturalmente, ritorno a dire, sono espressioni del Dio in cui si crede.
Segni di potenza; segni di servizio 3
Una persona che crede ad un Dio potente si aspetta segni di potenza. Quando, invece, Dio viene concepito come amore, i segni di questo Dio saranno sempre segni di servizio che trasmettono e comunicano vita.
Chi si aspetta segni di potere non riuscirà a vedere i segni d’amore; per questo è importante cambiare il concetto che abbiamo di Dio. Chi si aspetta un segno prodigioso dall’alto, non si accorge del miracolo che ha sotto le mani. C’è, in un libro di qualche anno fa di un autore americano, una bellissima espressione che descrive una ragazza assetata di segni prodigiosi. La ragazza fa parte di quelle persone che corrono a tutte le apparizioni “madonnare” che avvengono in giro per il mondo, che frequentano i santoni, i veggenti, ecc., quelle persone sempre affamate del prodigio, del miracoloso. E il fratello le dice: ma se non sai riconoscere il miracolo d’amore nel pranzo che tua madre ogni giorno ti presenta, come puoi pensare di scorgere i prodigi al di fuori di questo?
Chi si aspetta un Dio potente che si manifesta attraverso prodigi straordinari, stia attento, perché corre il rischio di non accorgersi del prodigio quotidiano trasmesso da un Dio che si manifesta nell’amore e nel servizio. Ma nessuno poteva esprimere questa tensione meglio di Paolo nella prima lettera ai Corinzi, dove dice: “mentre i giudei aspettano e chiedono miracoli, noi predichiamo Cristo crocifisso”. Da una parte c’è il Dio della potenza e la gente aspetta i miracoli, dall’altra c’è il Dio dell’amore che si è già manifestato attraverso il dono della propria vita. I segni compiuti da Gesù nei vangeli sono quindi manifestazioni d’amore da parte di Dio nei confronti dell’umanità, manifestazioni che esigono e sono condizionate dalla nostra collaborazione.
Per questo Gesù dice: quello che io ho fatto, spetta a voi farlo, ma addirittura in maniera più grande. Perché, noi sommiamo quello che siamo all’amore di Dio e quindi questo amore diventa più efficace.
Narrazioni delle guarigioni
Questa tensione tra l’aspettarsi il prodigio dall’alto, il segno miracoloso e quello che invece Dio si aspetta, cioè che sia ognuno di noi a fare e quindi ad essere coautore o collaboratore con Lui e come Lui di trasmissione di vita agli altri, dall’evangelista Giovanni viene espressa in maniera straordinaria al capitolo 4, nell’episodio della guarigione del figlio del dignitario reale. Ripeto fino al punto di annoiare, è importante cambiare, modificare l’idea che abbiamo di Dio; se non abbiamo un’idea esatta del Padre, quella che Gesù ci ha presentato, anche la nostra vita non potrà essere in pienezza.
Al capitolo 4 del vangelo di Giovanni, al versetto 46, si legge: andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Il cambiamento dell’acqua in vino è il primo dei segni operato dal Signore… Il cambiamento dell’acqua in vino, detto in maniera succinta, è il cambiamento dell’alleanza.
All’alleanza della legge, espressa dall’acqua, Gesù sostituisce l’alleanza dell’amore, espressa dal vino. Quindi c’è un richiamo ad un primo segno. Si diceva che il punto non è se credere o no ai miracoli di Gesù, ma sapere se esistono o no miracoli compiuti da Gesù. S
sono scritte perché in noi aumenti o si alimenti la fede
Abbiamo visto che gli evangelisti nel descrivere tutta l’attività di Gesù di comunicare, trasmettere o restituire vita, evitano il termine “miracolo”. Adoperano altre parole che, ricordo, sono segno, opera o potenza; attività che Gesù si aspetta e richiede che ogni credente e ogni comunità compia. Quindi non segni straordinari compiuti da Gesù, ma possibilità per ogni credente. Non si tratta, dunque, se credere o no ai miracoli di Gesù, o sapere se esistono o no. Nei vangeli non si parla di miracoli.
Quelle che invece troviamo nei vangeli sono molte guarigioni. Guarigioni e fatti che sono stati scritti, lo dirà proprio Giovanni, per alimentare la vostra fede. Ma, in realtà, se non comprendiamo esattamente questi scritti secondo l’intenzione dell’autore, va a finire che i racconti delle guarigioni di Gesù, anziché alimentare o far venire la fede, rischiano di metterla in crisi e di farla perdere. A me, lettore oggi del vangelo di Giovanni, che Gesù abbia guarito un infermo 2000 anni fa, cosa vuoi che mi dica, se l’infermo che io sto curando, che ho a cuore, se la persona cara sta morendo giorno dopo giorno? E l’impotenza della scienza medica è accompagnata dal fallimento delle preghiere, preghiere fatte con fede, fatte con amore. Gesù ci dice chiedete quel che volete e vi sarà dato! Chiedo una cosa buona, chiedo la guarigione di una persona ammalata e vedo che non solo non guarisce, ma addirittura muore. Allora a me, che Gesù abbia resuscitato un morto 2000 anni fa non interessa, se vedo che la persona cara mi muore e non c’è nessuna speranza di resurrezione. Che Gesù abbia guarito un infermo 2000 anni fa, non solo non mi interessa, ma mi mette in crisi, perché se io prego per la persona cara ammalata e vedo che non solo non guarisce, ma il male peggiora, io mi chiedo: ma, Gesù perché non agisci? Tu che hai guarito il tale nel vangelo, tu che hai guarito l’altro, tu che ti sei commosso per questo, perché adesso non fai qualcosa?
E quindi la nostra fede, leggendo queste narrazioni dei vangeli, rischia di andare in crisi. Crisi aggravata, perché sapete che nei momenti difficili della nostra esistenza, di fronte ad avvenimenti luttuosi o tristi, ci sono sempre le persone religiose, le più pericolose da incontrare in questi momenti, che ci gettano addosso tutto l’armamentario dello stupidario religioso, tipo: è la volontà del Signore, è la croce del Signore, accetta il Signore, unisci a Lui le tue sofferenze, ecc. ecc.
Entriamo nel tema di oggi, domandandoci: le narrazioni di guarigione nei vangeli cosa vogliono dire? Nei vangeli, gli evangelisti non vogliono trascrivere, ormai lo sappiamo, una cronistoria delle vicende di Gesù. Noi non abbiamo la certezza che neanche una parola presente nei vangeli sia stata pronunciata da Gesù e quindi figuriamoci per i fatti! Basta leggere un vangelo per accorgersi che anche parole importanti, gli evangelisti non si preoccupano di trasmetterle fedelmente.
Prendiamo, tanto per ritornare in tema, il Padrenostro. Gesù in tutta la sua esistenza insegna una preghiera, tra l’altro molto breve; ma possibile che gli evangelisti non abbiano avuto la preoccupazione di portarcela fedelmente, secondo le parole uscite ed insegnate da Gesù? Non è che Gesù abbia insegnato un rosario! Ha insegnato una preghiera. Ebbene, Matteo ha un Padrenostro e Luca ne ha un altro. Prendiamo le parole della “cena del Signore”, quelle parole chiamate della consacrazione “questo è il mio corpo…”; sono in tre vangeli e in una lettera di Paolo, ma quattro versioni completamente differenti!
Ma santo cielo, parole così importanti, le ultime, praticamente, pronunciate da Gesù, e nessuno degli evangelisti ce le riporta fedelmente. Perché? I vangeli non ci vogliono riportare le esatte parole o gli esatti fatti compiuti da Gesù, ma un insegnamento teologico vero, che è valido per noi tutti. Per cui se Gesù abbia guarito o no un infermo, non lo sappiamo, sappiamo quello che l’evangelista nella guarigione, o nell’episodio di questo infermo, vuol trasmettere a tutti noi.

Entriamo subito nel testo, così questa premessa si chiarisce.
LA GUARIGIONE DEL FIGLIO DEL DIGNITARIO REALE
Ma ritorniamo al nostro brano. Qui si trovava un dignitario reale. Chi era un dignitario reale?
Il termine che usa l’evangelista sta ad indicare un appartenente alla famiglia reale ed è interessante che questo personaggio venga presentato dall’evangelista per il ruolo e l’importanza che ha nella società. E’ una persona di un’importanza straordinaria, un appartenente alla famiglia reale. Questi aveva il figlio ammalato. Questo personaggio nella narrazione non viene presentato mai con il nome. Sappiamo già, siamo diventati ormai esperti, (ricordate i personaggi anonimi nel vangelo di Marco) che quando nei vangeli un personaggio è mantenuto anonimo significa che è un personaggio rappresentativo. L’evangelista scrivendo di questo personaggio vuol dire al lettore o all’ascoltatore di specchiarsi in esso, in quanto vi potrà ritrovare il proprio caso e la propria situazione. Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da Lui e lo pregò di scendere a guarire suo figlio poiché stava per morire.
In questo verbo della richiesta del dignitario reale a Gesù, c’è tutto il nocciolo della questione. Gesù deve scendere dalla Giudea che sta in alto fino a Cafarnao che si trova in basso; attenzione non sono soltanto particolari topografici, ma è uno scendere teologico. Un dignitario, un personaggio che sta in alto, quando ha bisogno non va mai dall’inferiore, specialmente in una società rigorosamente divisa per classi come lo era quella orientale, va da chi ritiene un suo pari, o in un caso del genere dove c’è un bisogno impellente, va da colui che ritiene un suo superiore e gli chiede: scendi. Dio viene sempre concepito in alto; noi siamo qui con i nostri bisogni e con le nostre miserie e la richiesta che più volte viene fatta a questo Dio è: vieni, scendi, intervieni, non vedi che…
Può sembrare strano, qui l’evangelista ci presenta una persona, un padre in angoscia per un figlio ormai morente e sentite la risposta terribile che dà Gesù. Gesù gli disse: se non vedete segni e prodigi non credete. Come si fa a rispondere così a un padre angosciato per il figlio che ti viene a dire “Signore mio figlio sta per morire, vieni a guarirlo”. Gesù gli risponde bruscamente e addirittura, gli risponde al plurale. Ma perché Gesù risponde al plurale quando sta parlando ad una persona?
Ci sono due casi nei vangeli, nei quali Gesù risponde bruscamente, malamente a persone angosciate e parla loro al plurale. Ricordate la donna cananea che va da Gesù e gli dice: Signore, mia figlia è ammalata, intervieni. Gesù non risponde e questa insiste, e Lui ancora non le parla. E questa donna continua ad insistere e finalmente i discepoli intervengono presso Gesù invitandolo a dire qualcosa. Gesù, anziché consolarla, risponde: non sono venuto per i cani, ma sono venuto soltanto per il popolo eletto di Israele. Come si fa a rispondere così ad una madre angosciata che è in pena per la propria figlia, a trattarla come un cane. Sappiamo la risposta della donna che dice: va bene, ma anche i cani sotto la tavola mangiano le briciole.
In tutti e due i casi la risposta, che può sembrare brusca, è dovuta ad un malinteso dell’interlocutore e come vedremo non è di Gesù. La donna cananea sbaglia perché si rivolge a Gesù chiamandolo “figlio di Davide”.
Ecco dove sta l’errore. Cosa significa “figlio di Davide”? Abbiamo visto altre volte che la parola figlio nella cultura ebraica sta ad indicare colui che assomiglia al padre. Il messia era atteso come il figlio di Davide, cioè colui che doveva assomigliare a Davide. Davide era stato il re che per primo era riuscito a riunire tutte le tribù disperse ed inaugurare il regno di Israele. Naturalmente l’aveva fatto sterminando e massacrando. Nella tradizione era questo il messia che si aspettava; uno che avrebbe inaugurato il regno di Dio che, tra i primi progetti, includeva la dominazione e la sottomissione dei popoli pagani, considerati inferiori. Loro, il popolo eletto, avrebbero dominato tutti gli altri popoli. Allora, questa donna si rivolge a Gesù e lo chiama figlio di Davide, cioè il messia che verrà a dominare i pagani. Gesù risponde: “Pensi che sono il messia figlio di Davide? Ed eccoti la risposta”. Non risponde Gesù, ma risponde il figlio di Davide, Gesù dà la risposta che avrebbe dato il messia figlio di Davide. Ma Gesù non è il messia figlio di Davide, Gesù è il figlio del Dio vivente che è venuto a comunicare vita.
Ritornando al brano precedente, anche in questo caso c’è un malinteso, ci si aspetta da Dio un prodigio, che intervenga con segni e prodigi.
Gesù non è venuto per intervenire con segni e prodigi, ma attraverso una comunicazione di vita.
Non è Gesù che deve scendere, Lui ha detto “non sono venuto per essere servito, ma per servire”. Ecco perché Gesù parla al plurale al dignitario reale. La sua risposta non riguarda soltanto lui, ma tutta la popolazione che ha questa idea di Dio e dice loro: se non vedete segni e prodigi… Questa espressione “segni e prodigi”, segni e prodigi che Gesù rifiuterà sempre di fare e metterà in guardia contro coloro che li fanno, è l’espressione usata nell’A.T., specialmente nel libro dell’ Esodo e del Deuteronomio, per indicare le azioni con le quali Mosè ha liberato il popolo. Cominciando dalle piaghe d’Egitto, tutte quelle azioni con le quali Mosè ha dato botte e a quelli del popolo e ai ministri del popolo, vengono chiamati segni e prodigi.
Un Esodo all’insegna della violenza. Sapete che, presi con l’inventario, ma secondo i numeri che ci danno questi libri dell’Esodo e del Deuteronomio, ha ammazzato più ebrei Mosè per liberarli dalla schiavitù del faraone, che il faraone per mantenerli schiavi. Piccola parentesi: sapete che storicamente hanno ammazzato più cristiani i papi per difendere la fede che gli imperatori romani per perseguitarla. Quindi Mosè ha compiuto un Esodo all’insegna della violenza e del proprio popolo e dei nemici del proprio popolo. Questi sono i segni e i prodigi e questo è quello che la gente aspetta da Dio, il Dio potente, il Dio onnipotente.
Quante volte, diciamolo, abbiamo ascoltato da persone espressioni del tipo: ah, se fossi il Padreterno! Se si fosse il Padreterno in cinque minuti si sistemerebbe l’umanità. Un terremoto a quelli, una paralisi a quegli altri, far morire tutti questi qui, resto io e qualche altro, poi vediamo se ci sopportiamo. C’è un’idea non di un Dio onnipotente, ma di un Dio prepotente, questo è il Dio che manda segni e prodigi. Poi si sente anche il contrario; quando succede una calamità ad un popolo, si dice: ma perché proprio a quelli che sono tanto bravi. O Dio, già che ci sei, se devi mandare un terremoto, non mandarlo a questi che sono tanto bravi, mandalo a quelli là che sono più malvagi. Quindi vedete che non sono idee, ideologie di tanti secoli fa, ma ce l’abbiamo ancora nel sangue l’idea dei segni e prodigi straordinari che Dio può compiere non per comunicare vita, ma per eliminarla.
Ecco, allora, perché Gesù parla al plurale. E il funzionario, il dignitario insiste: Signore scendi.
E’ importante vedere come l’evangelista mette in bocca del dignitario reale tutte le sue richieste usando il tempo imperativo. Non va a richiedere, costui comanda. E’ una persona importante, è un 7 dignitario reale. Gesù sarà pure il Padreterno, ma insomma, siamo alla pari. Scendi, fai! E’ un po’ quello che spesso facciamo anche noi con il Padreterno quando gli diamo tutta quella serie di consigli e di ordini. Quella del dignitario non è una preghiera, ma sono ordini imperativi. Scendi, intervieni, guarisci! E continua a richiedere a Gesù quello che Gesù si aspetta che sia lui a fare. C’è sempre questo equivoco e questo equivoco, purtroppo, si infila anche nella preghiera. Noi chiediamo nella preghiera a Dio, quello che Dio si aspetta che siamo noi a fare. Ecco perché la preghiera diventa inutile ed inefficace. E intanto si perde il tempo; il figlio sta per morire, il dignitario reale insiste, Gesù non si piega, non muove un passo e il dignitario rimprovera Gesù.
Dice: scendi prima che si aggravi. Se si aggrava è colpa tua. E’ sempre colpa di Gesù quando arriva il male. Lo ritroveremo nel vangelo della resurrezione di Lazzaro: se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Rimproverano Marta e Maria a Gesù. Oppure: non ti importa che noi moriamo? I discepoli nella barca sopra un mare in tempesta, inveiscono ad un Gesù addormentato. Si rimprovera sempre il Signore per quello che il Signore, invece, si aspetterebbe fossimo noi a fare. Gesù risponde al dignitario: va, tuo figlio vive. Notate il contrasto tra le richieste: il dignitario che dice scendi; Gesù dice di no, non sono io che devo scendere, perché io non sto in alto.
Ricordate l’episodio della lavanda dei piedi? Gesù che è Dio, la manifestazione visibile di Dio, non si mette in alto, ma si mette in basso, si mette a lavare i piedi agli altri. L’azione di Dio nei confronti dell’uomo non si fa dall’alto elargendo grazie e vita all’uomo, ma dal basso cominciando a lavare le sue sozzure, per purificarlo completamente. Gesù non sta in alto e non aspetta e non attende di essere supplicato da noi, ma l’azione di Gesù si fa dal basso, Lui si mette sotto di noi per innalzarci al suo stesso livello. Quindi Lui resiste alle richieste del dignitario reale, perché non può fare altrimenti. Scendi, scendi! E dove scendo? Più sceso di così Gesù non può. Gesù si è messo in basso, al di sotto dell’umanità per innalzarla. Gesù dice: guarda che sei tu che devi scendere, va e tuo figlio vive. Quell’uomo credette alla parola e si mise in cammino. Notate il cambio dell’identificazione del personaggio; inizialmente ordina a Gesù come un dignitario, quando finalmente accoglie la parola di Gesù diventa un uomo. Ma ancora non è terminato il passaggio. Finalmente si umanizza, ma non è ancora completo il processo di comunicazione e di trasmissione di vita. Perché? Come vedremo nel finale, la malattia del figlio si chiamava “dignitario reale”, ciò che mancava al figlio era il rapporto con l’unico che gli poteva trasmettere la vita.
Dobbiamo calarci nella cultura ebraica
Per comprendere questo brano dobbiamo ancora una volta calarci nella cultura ebraica. Nella lingua ebraica non esiste il termine “genitori”, perché nella mentalità ebraica il figlio non riceveva la vita dal padre e dalla madre, ma unicamente dal padre. Per cui in ebraico c’è il termine padre, c’è il termine madre, ma con ruoli completamente differenti. C’è nel libro del profeta Isaia questa espressione: il padre è colui che genera, la madre è colei che partorisce. La madre nello sviluppo del figlio non ci mette assolutamente niente. Secondo la cultura dell’epoca la madre veniva definita come un’incubatrice che accoglieva il seme del marito, questo seme cresceva e poi veniva partorito, ma la donna non ci metteva niente. Quindi il figlio per ricevere vita ha bisogno della comunicazione paterna, ma non soltanto al momento del concepimento. Ancora oggi i nomi nel mondo ebraico, sono sempre nomi nei quali la componente principale è “padre”, il figlio è sempre il figlio del tale.
Se notate anche nella bibbia, troverete Abramo figlio di questo, figlio di quest’altro, si è sempre figlio di qualcuno. Perché il rapporto tra il padre e il figlio non si limita al concepimento, ma il figlio per vivere ha bisogno della continua comunicazione vitale del padre. Il padre, che non soltanto trasmette la vita biologica, ma che trasmette tutta la tradizione religiosa. Ecco perché Gesù nei vangeli non viene presentato come figlio di Giuseppe. Se leggete nel vangelo di Matteo tutta la genealogia, alla fine vedremo che Gesù non nasce da Giuseppe, ma da Maria. Perché Gesù non riceve da Giuseppe la tradizione religiosa. Pertanto figlio è colui che dipende per la vita e per il mantenimento di questa vita dal padre e quindi nel brano che stiamo esaminando non c’è un padre, c’è un dignitario reale. E il dignitario reale non può comunicare vita al figlio, c’è una distanza, c’è un rapporto che non è quello d’amore tra un padre e un figlio, ma 8 quello burocratico, giuridico al livello di un dignitario reale. Di conseguenza la causa della malattia del figlio era la “dignità reale”. E la grave responsabilità di questo dignitario reale è stata quella di essere stato risucchiato dal ruolo assunto nella società, che lo ha assorbito al punto di arrivare a sacrificare la paternità alla dignità reale. Notate che questi vangeli sono di grande attualità nella vita familiare e nei rapporti interpersonali di ogni giorno.
Quanti mariti non sono più il marito per la moglie, ma sono il professionista tal dei tali e ugualmente quante mogli non sono più la moglie per il marito, ma sono soltanto la madre del proprio figlio. E quanti genitori per i figli non sono più tali, ma sono altre cose. Analizzando questi vangeli possiamo trovare tanti esempi tratti dalla vita quotidiana; ognuno di noi, poi, sarà capace di adattare questi testi alla propria esistenza, ma questo soltanto per sottolinearvi che l’evangelista non ci racconta un episodio avvenuto 2000 anni fa al quale andare con ammirazione o con commozione, ma ci dà delle indicazioni utili e capaci di trasformare la vita di ognuno di noi.
Continuiamo la lettura. Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i servi a dirgli: tuo figlio vive. L’uomo aveva chiesto a Gesù di scendere, di mostrare un segno e Gesù gli propone che sia lui a scendere, che sia lui a diventare questo segno per il figlio.
Il capovolgimento tipico nel vangelo di Giovanni.
Mentre la gente, specialmente le persone religiose, chiedono continuamente a Gesù di mostrar loro un segno visibile per poter poi credere a Lui, Gesù ci chiede di credere a Lui per diventare noi stessi dei segni, affinché altri possano vedere. E’ un cambio: non dobbiamo aspettarci un segno straordinario da poter vedere e poi dare adesione a Gesù, Gesù dice di no, credi!
Ricordo che il verbo “credere” non significa accettare delle verità di fede, ma dare adesione ad una persona o ad un messaggio; in questo caso, a Gesù e al suo messaggio. Gesù propone: se mi dai adesione, tu stesso e la tua stessa vita diventerà un segno e perciò non ne avrai bisogno di altri, perché già ce l’hai all’interno di te stesso il segno e gli altri lo potranno vedere. Ecco, infatti, il dignitario che chiedeva un segno, diventa lui stesso un segno e scendendo, da dignitario accoglie la parola di Gesù e diventa uomo e finalmente arriva a casa e per la prima volta appare il termine “padre”. Il padre riconobbe che proprio quella era l’ora che Gesù gli aveva detto: tuo figlio “vive”. Quindi abbiamo visto un dignitario che ordina, un uomo che crede e finalmente un padre che salva. Questa è l’indicazione che il vangelo dà ad ognuno di noi.
Chiediamoci subito: in questo episodio, chi ha guarito il figlio? Gesù, o l’uomo, o tutti e due?
Un ritornello che molti conoscono e che altri sentiranno spesso in questi giorni è: la trasmissione di vita non avviene per segni prodigiosi dall’alto, ma con Dio e come Dio. La trasmissione di questa vita esige ed è condizionata dalla collaborazione dell’uomo. Quest’uomo poteva insistere quanto voleva con Gesù perché suo figlio guarisse, ma il figlio sarebbe peggiorato e morto. Quando il dignitario ha compreso e si è dapprima umanizzato e alla fine è diventato padre, il figlio è ritornato alla vita. Ecco allora che comprendiamo l’espressione di Gesù al capitolo 14, versetto 12 che può sembrare un paradosso: e io vi assicuro, chi crede in me compirà opere ancora più grandi di quelle che io ho compiuto. E’ quello che Gesù si aspetta da ognuno di noi. Da questo vangelo, capiremo come Gesù s’attende da ognuno di noi quella che è stata l’indicazione e la proposta di missione a tutti i credenti: andate, guarite gli zoppi, restituite la vita ai morti (resuscitare i morti) e restituite la vista ai ciechi. Cose che sembrano impossibili, ma che vedremo sono fattibili se soltanto comprendiamo il loro significato.
LA GUARIGIONE DELL’INFERMO
Esaminiamo dal vangelo di Giovanni, al capitolo 5, i primi 18 versetti. La guarigione dell’infermo e sottolineo “infermo”. Perché? Sappiamo quanto sia difficile leggere il vangelo, perché noi lo leggiamo, ma siamo condizionati da quello che crediamo di sapere. Lo leggiamo, lo esaminiamo, ma la lettura rimane alterata da quello che pensiamo di sapere del testo. Un esempio ormai classico è quello di quando leggiamo il brano della visita che Elisabetta riceve da Maria, nel vangelo di Luca. Ebbene, sapete quante volte, in tante parti, ho fatto questo esperimento; prima ho letto il testo e dopo ho domandato alla gente: e allora, Maria è andata a visitare Elisabetta, che parentela c’era tra di loro? Ho avuto sempre la stessa risposta: cugine! Ma nel testo non c’è, da quello che sappiamo potrebbero essere state pure zie, chissà. Il testo dice che andò a visitare una parente, non la cugina! Ma siamo talmente condizionati dal fatto che la tradizione ce le ha presentate come cugine, che pur leggendo il testo non ci togliamo la nostra idea. Così pure l’episodio delle cadute di Gesù sul calvario, sul quale mi è capitato di essere contestato da preti, quindi non da persone che non conoscono il vangelo, ma da persone religiose.
Commentando il vangelo e dicendo che Gesù non era caduto mai portando la croce, una volta un prete mi ha fermato dicendo: tre volte forse no, padre, ma una senz’altro. Sfogliava il vangelo per trovare questa caduta di Gesù che porta la croce, ma Gesù non cade mai; cade nella via crucis, ma la via crucis non è il vangelo. Quando leggiamo il vangelo, dobbiamo stare attentissimi a leggere il testo così com’è.
L’episodio che ora commentiamo, normalmente viene intitolato o conosciuto come la guarigione del paralitico. La guarigione dell’infermo della piscina è definita come la guarigione del paralitico, ma come vedremo non è un paralitico e questo è importante.
La festa dei giudei
Incominciamo la lettura del brano: “Vi fu poi una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme”. Ci sono sei feste nel vangelo di Giovanni e una sola non ha altra specificazione se non quella di essere dei Giudei. C’è la festa di Pasqua, la festa delle Capanne, un’unica festa è senza nome, se non la specificazione che vi fu una festa dei Giudei. Ricordo che il termine “Giudei”, nel vangelo di Giovanni, non indica il popolo ebraico, ma le autorità, i dirigenti.
E allora già si nota la punta polemica dell’evangelista: vi fu una festa, ma è la festa del potere, è la festa delle autorità, il popolo non ha nulla da festeggiare. Dai calcoli che i biblisti fanno su questa festa anonima, si deduce, abbastanza chiaramente, che è la festa della “pentecoste”, naturalmente ebraica. La pentecoste ebraica era la commemorazione del dono della legge sul Sinai, da parte di Dio a Mosè. Per cui, è la festa della legge e questo è importante. Poi c’è una descrizione dettagliata del luogo, al versetto 2: vi è a Gerusalemme, presso la porta delle pecore, una piscina chiamata in ebraico Betzaetà con cinque portici. Chi è ormai pratico delle lettura dei vangeli, sa che ogni particolare presente nella narrazione, che di per sé non è importante per la comprensione del testo, in realtà è un particolare teologico molto, molto importante. Per la guarigione dell’infermo che fosse su una piscina con 5 portici o con 3 portici, non significa niente, ma il fatto che l’evangelista, che non spreca una virgola, abbia voluto aggiungere questo particolare, è perché, ancora una volta, ha un significato importante.
Anzitutto spieghiamo il termine “portici”; l’evangelista poteva scegliere le espressioni archi o arcate, ma ha scelto un termine che nell’Antico Testamento riguarda sempre il tempio e nel suo vangelo riguarda sempre i portici di Salomone. Perché? Il porticato, chiamato di Salomone, era il luogo dove veniva insegnata la legge. Quindi vedete, la festa della legge, nel luogo dove viene insegnata la legge. Ed ecco in particolare il “cinque”. Niente viene messo a caso nei vangeli; infatti, i libri della legge sono cinque. I primi cinque libri della bibbia, il “pentateuco”. Allora l’evangelista ci vuol dire: alla festa della legge, la legge che viene insegnata con i primi cinque libri, ecco qual è la realtà. E’ la festa dei capi, ma sotto i portici giace un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Qui è importante tradurre bene il testo, ma prima spieghiamo il termine piscina, che è tradotto malamente, perché a noi può dare l’idea delle nostre piscine, ma sono vasche, serbatoi per l’acqua piovana, non certo piscine con il trampolino. Scrive l’evangelista che c’è una folla, una moltitudine ci ciechi, zoppi e paralitici.
L’infermità
L’evangelista non sta descrivendo le categorie di questi ammalati: ci sono gli infermi, una parte di ciechi e un gruppo di zoppi e un altro di paralitici. L’evangelista dice: sotto questi portici 10 giace la gente inferma, che è allo stesso tempo cieca, zoppa e paralizzata, ossia è una infermità di tutta la folla. Come dicono i giovani: la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede bene… Più disgraziati di così si muore… Ma non è questo, naturalmente, quello che l’evangelista vuol dire, ma ci sta dando delle indicazione teologiche ben precise. La folla, descrive, giaceva li; il verbo giacere di norma si usa per gli animali da sacrificare. E’ la festa dei capi e il popolo è l’animale da sacrificare, affinché i capi facciano festa. E qui, nel sottofondo, si sente l’eco delle denunce di Dio che troviamo nel profeta Isaia: io detesto le vostre feste, quando voi intonate gli inni liturgici io mi tappo le orecchie, quando voi accendete l’incenso mi tappo il naso, quando voi fate tutte quelle capriole davanti all’altare io mi volto dall’altra parte, perché non è questo il culto che io voglio; il culto che io voglio è rendere giustizia agli oppressi. Perciò qui c’è una festa, bella, liturgica, la festa dei capi, la festa dell’autorità, del potere, ma la gente inferma è cieca, zoppa e paralizzata.
C’è un richiamo ad un altro profeta nel sottofondo, Ezechiele, che dice ai capi: vi ho dato un gregge da pascere, ma voi l’avete tosato e reso stremato e le pecore sono malate. Vi è poi l’importanza del nome; abbiamo visto che l’evangelista mette un nome a questa piscina. Tre volte, nel vangelo di Giovanni, appaiono termini ebraici e tutte e tre le volte sono collegati con la morte di Gesù. Il primo è la piscina di Betzaetà, dove viene presa la decisione di assassinare Gesù, il secondo è il luogo chiamato Gabbatà, cioè il tribunale dove Gesù viene condannato a morte, infine il terzo termine, il Golgota, il luogo dell’esecuzione. E niente viene a caso: tre nomi ebraici e tutti e tre legati alla morte di Gesù.
Riprendiamo il brano e vediamo la descrizione di questi infermi. Le prime due infermità, ciechi e zoppi, sono un chiaro riferimento al secondo libro di Samuele, dove si narra che il re Davide odiava ciechi e zoppi e aveva proibito loro di entrare nel tempio. Quindi questa folla non partecipa alla festa, perché essendo cieca e zoppa, non può entrare nel tempio, il luogo dove si fa la festa. Aggiunge l’evangelista che questa folla, oltre ad essere cieca e zoppa, è, traduciamo, “paralizzata”. Ma il termine che usa l’evangelista, (ripeto che niente viene messo a caso nei vangeli) lo prende di peso dal profeta Ezechiele, capitolo 37. In questi versetti, Ezechiele narra la visione di una valle di ossa inaridite, che rappresenta il popolo di Israele, un popolo senza vita; ma quando verrà lo Spirito, ritornerà in vita. Pertanto questa folla è, dice letteralmente il testo, rinsecchita, cioè senza vita, è inaridita e allora è chiara l’allusione al profeta Ezechiele: questa folla rappresenta il popolo di Israele. L’evangelista non ci fa la cronistoria di una passeggiata di Gesù ai bordi di una vasca, ma ci comunica una verità teologica molto importante: la legge, l’osservanza della legge ha reso il popolo infermo. Il popolo è impedito a partecipare alla festa, la festa è solo dei capi ed è ormai senza vita.
Da 38 anni era ammalato
Saltiamo il versetto quarto che era un’aggiunta mitologica messa nei secoli passati; oggi non c’è più la storia dell’angelo che ogni tanto andava lì a muovere un po’ l’acqua e il primo che si tuffava veniva curato. Il versetto 5 dice: si trovava lì un uomo che da 38 anni era ammalato. Anche qui la precisazione, perché per la guarigione che l’uomo fosse ammalato da 10 anni o da 50 anni non conta niente. Perché proprio il numero 38? Perché nel libro del Deuteronomio si racconta che il popolo d’Israele, uscito dall’Egitto verso la terra promessa, andò errante per 38 anni. L’esodo, dal punto di vista storico, è stato un grande fallimento, perché nessuno del popolo uscito dall’Egitto è arrivato alla terra promessa, nessuno, neanche Mosè. Il numero 38 è il numero degli anni che il popolo ha vagato nel deserto, prima di giungere alla morte definitiva. La generazione dell’uomo veniva fissata a quell’epoca, in maniera naturalmente figurata, in 40 anni. Il numero 40 significa una generazione. Allora qui, abbiamo un uomo che è lì per morire, al massimo si arriva a 40 anni ed è da 38 anni che è infermo. Cosa vuol dire questo passo? Che quest’uomo oppresso dai mali non spera più in una guarigione, ma attende ormai la morte. Viene quindi rappresentata la situazione del popolo che non ha ancora raggiunto la libertà, nonostante sia entrato nella terra promessa ed è vicino alla morte esattamente come i loro progenitori nel deserto. Nella figura di questo malato l’evangelista rappresenta la situazione di tutto il popolo.
Continua il vangelo: “Gesù, vedendolo…” E’ importante l’uso del verbo vedere nei vangeli, Gesù è manifestazione visibile del Dio creatore. Per sette volte, nel libro della creazione, nel libro della Genesi, si dice che Dio, quando crea, vede che è cosa buona. E’ il Dio che vede il caos e lo trasforma in armonia, è l’azione del creatore. Allora Gesù vede, è Lui per primo che vede la sofferenza delle persone e lì continua il lavoro del creatore che comunica vita. “Vedendolo disteso e sapendo che da molto tempo stava così, disse: vuoi guarire?”. L’iniziativa non è dell’infermo, l’iniziativa è presa da Gesù ed è Gesù che lo stimola a volere la guarigione. Il malato, che non ha nessuna speranza di guarigione, esclama: “Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita”. La speranza della guarigione, ovvero della liberazione è ancora posta in un intervento divino. Vi era l’idea di questo intervento divino che faceva muovere l’acqua e chi si tuffava veniva guarito.
Ancora una volta si aspetta la soluzione dei propri problemi da un intervento divino. “Ma Gesù gli disse: alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”. Una delle deformazioni che abbiamo nella lettura del vangelo è che accorciamo quasi sempre questa frase. Quando si chiede ad una persona: cosa ha detto Gesù all’infermo? Alzati e cammina! E’ interessante che, proprio l’aspetto più importante e che è la causa e la condizione necessaria per la guarigione, venga omesso: prendi il tuo lettuccio. Gesù non gli ha detto alzati e cammina, ma alzati, prendi il tuo giaciglio, il tuo lettuccio e cammina. Caricarsi del lettuccio o del giaciglio è la condizione per poter camminare; perché? Lo vediamo subito. Continua il vangelo: “E sull’istante l’uomo guarì e preso il suo lettuccio cominciò a camminare, però quel giorno era un sabato”.
Quella del potere è una festa di morte.
Dissero dunque i giudei all’uomo guarito: è sabato e non ti è lecito prendere il tuo lettuccio”. La festa delle autorità religiose rovinata dalla guarigione di un infermo, ovvero dalla guarigione del popolo. Le autorità possono far festa fintanto che il popolo è oppresso, fino a che hanno il gregge da tosare, ma attenzione, perché quando il gregge non tollera più di farsi tosare, è finita la festa. Qui c’è un individuo che era conosciuto, 38 anni che era infermo, ritorna alla piena guarigione; ebbene, i pastori del popolo, anziché dire che il senso della loro festa è la guarigione dell’uomo, si mettono in allarme, perché l’irruzione della vita turba il festino della morte.
Di fronte alla guarigione, la reazione delle autorità religiose è completamente negativa, perché è sabato! Gli ebrei, amanti della casistica, si chiedevano quale fosse il comandamento più importante ed erano arrivati alla conclusione logica che il più importante era quello del riposo del sabato, perché è l’unico comandamento che anche Dio osserva. Il sabato anche il Padreterno non fa alcuna attività. L’osservanza o la trasgressione di questo comandamento significa l’accettazione o la trasgressione di tutta la legge. Nel giorno di sabato sono proibiti 39 lavori principali, presi dai 39 lavori che servivano per la costruzione di un tempio; suddivisi a loro volta in 39 sotto lavori, cioè ognuno dei primi ha altri 39 lavori proibiti per un totale di 1521 azioni rigorosamente vietate nel giorno di sabato. Anche oggi, nel giorno di sabato è proibito curare.
Ricordo, ad esempio, che lessi un giorno sul Jerusalem Post, il quotidiano di Gerusalemme, la lettera di un religioso angosciato che diceva: “Sabato scorso mi ha morso il cane, cosa potevo fare? Perché è proibito telefonare, andare all’ospedale non potevo perché non si può prendere la macchina, cosa posso fare se mi capita un’altra volta?”. La risposta del direttore fu:”Devi andare da un vicino che non sia ebreo o che non sia osservante e dire a lui di telefonare al tuo posto”. Questo ancor oggi, immaginatevi al tempo di Gesù. Il sabato è vietato non soltanto curare gli ammalati, ma anche visitarli, però è lecito ricordarli nelle preghiere. Come molte persone, che quando noi siamo nella sofferenza non muovono un dito, ma dicono: ti ricordo nelle preghiere! Prega di meno e aiutami di più ,che io sarò più contento. Il Talmud prescrive che se una persona si frattura un arto in giorno di sabato, è vietato addirittura metterlo sotto l’acqua fredda. Quindi il giorno del sabato è il rispetto della legge, ma non il rispetto dell’uomo. E Dio stesso, nel libro del profeta Geremia, dice: per amore della vostra vita guardatevi dal trasportare un peso in giorno di sabato. La trasgressione del giorno del sabato causava la pena di morte.
Due ordini contrari
E’ interessante vedere i due ordini contrari: Gesù ha ordinato all’infermo “alzati prendi il tuo giaciglio e cammina”; notate, le autorità comandano esattamente il contrario, “è sabato e non ti è lecito prendere il giaciglio”. Chi obbedisce alle autorità religiose rimane infermo e impossibilitato a camminare e guardate che le autorità religiose parlavano in nome di Dio (Dio stesso proibisce di portare pesi il giorno di sabato e noi siamo i custodi di questa legge). Ma se l’uomo obbedisce alle autorità religiose rimane lì, infermo, se ha invece il coraggio di accogliere il messaggio di Gesù e trasgredire l’imposizione della legge, riacquista la vita. La trasgressione della legge comunica la vita, l’obbedienza ne causa la morte! Leggi e autorità ebraiche, beninteso. Continuando nella lettura del passo: ma l’uomo rispose “colui che mi ha guarito mi ha detto prendi il tuo lettuccio e cammina”. Ecco allora che si scatena l’allarme. Chi è stato a dirti prendi il tuo lettuccio e cammina? Che una persona,
un misero, un plebeo trasgredisca un comandamento, anche se importante, è un problema da poco, c’è subito il modo di rimettere le cose a posto, ma che ci sia una persona che inviti gli altri a trasgredire il comandamento, causando pure il bene, questo allarma. Chi è stato a dirti… Che non sia questo il tanto atteso segnale dal cielo, l’acqua che si agita, che provoca la liberazione del popolo? Noi autorità possiamo festeggiare fintanto che riusciamo a tosare il popolo, quando il popolo non accetta più di lasciarsi tosare, per noi è la fine.
Mentre nell’autorità il bene e il male dipendono dall’osservanza o no della legge, per Gesù il bene o il male e questo è l’insegnamento di questo episodio, dipende dal comportamento che si tiene nei confronti degli uomini. Per Gesù, non è l’uomo che deve aver rispetto della legge, ma la legge che deve avere rispetto dell’uomo.
Tanta difesa dell’ortodossia, tanta difesa della legge da parte delle autorità religiose, smaschera che, infondo, a loro della legge non importa un bel niente. Costoro, sono i primi a trasgredirla quando va contro i loto interessi. Sempre nel vangelo di Giovanni, Gesù stesso dirà all’autorità: non è stato forse Mosè a darvi la legge, eppure nessuno di voi osserva la legge.
Quindi, loro che impongono la legge agli altri, sono i primi a non osservarla. Il loro interesse per l’obbedienza della legge da parte del popolo è uno strumento per sottomettere il popolo. Il popolo, osservando la legge, riconosce il loro dominio e la loro autorità. L’obbedienza della legge serve all’autorità, soprattutto per saggiare fin dove può giungere il suo potere. Per questo Gesù denuncerà: caricano gli uomini di pesi insopportabili, che loro non spostano neanche con un mignolo. Il ragionamento dell’autorità è questo: ci hanno ubbidito fino a qui, proviamo ad aggiungere un altro precetto in più, un’altra osservanza, restringiamo ancora la libertà, vediamo fino a dove può estendersi il nostro potere, sarà più difficile che dopo lo possano toccare. A loro non interessa che Gesù osservi o no la legge, ma che così facendo sfugge al loro potere e questo è inammissibile.
La trappola
Poco dopo, Gesù trovò l’infermo guarito nel tempio e gli disse: ecco, sei guarito, non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio. Vedremo poi, nella seconda parte, nella guarigione del cieco nato, il rapporto che c’è tra il peccato e la malattia, o almeno quello che credevano. L’uomo che è guarito, che è liberato, è tornato con i suoi piedi nell’ambito della schiavitù. Uscito, liberato da Gesù dalla trappola, c’è ritornato, perché Gesù lo ritrova nel tempio, il posto che, nel vangelo di Giovanni, è il luogo dove domina la morte, perché Dio se ne è andato dal tempio, è stato esautorato dal dio denaro che produce soltanto morte. Restare nel tempio significa accettare volontariamente di essere dominato dall’istituzione religiosa, che causa la morte per mantenere sé stessa. Ecco che allora Gesù dice: non peccare più. Il termine “peccato” è apparso una prima volta nel vangelo di Giovanni poco dopo il prologo e significa la rinuncia volontaria alla vita che Dio comunica.
Allora Gesù, che ha comunicato e ha restituito la vita a questo infermo, che rappresenta il popolo, vuole dire: guarda che se torni di nuovo al tempio, per sottometterti, per te non c’è nessuna speranza. Una persona che è stata guarita dall’incontro con Gesù e con il suo messaggio e poi ritorna nelle vecchie istituzioni, non ha più speranza. Dirà Gesù, in un altro vangelo: il vino nuovo ha bisogno di otri nuovi. La novità zampillante, effervescente dell’amore del Signore, non può essere incanalata nelle rigide istituzioni religiose, ha bisogno di un ambiente e di uno spazio nuovo. Per questo i Giudei incominciarono a perseguitare Gesù, perché faceva tali cose di sabato.
E più avanti nel testo: cercavano ancora di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo padre, facendosi uguale a Lui.
Ecco cosa significa essere figli di Dio
è quello di un Dio ottimista, non il Dio dei salmi, che s’affaccia tra le nuvole, vede le persone, che poi ha creato lui, e dice: che schifezza, non ce n’è uno perbene. A che l’uomo potrebbe ribattere: oh, ci hai creato tu, ci potevi far un po’ meglio, no? Ma il Dio del vangelo di Giovanni non è il Dio pessimista, è il Dio che guarda l’umanità e dice: che meraviglia, che splendore, ma è poco questa vita che ho donato, li voglio innalzare alla mia stessa realtà divina, voglio dare ad ognuno di loro la possibilità di avere la mia stessa condizione divina.
Quindi il progetto di Dio sull’umanità è che ognuno di noi diventi suo figlio. Ebbene, il progetto di Dio sull’umanità per le autorità religiose, che dovevano insegnare la volontà di Dio al popolo, è una bestemmia, un crimine degno della morte. Di conseguenza chi obbedisce all’autorità religiosa non può realizzare in sé il progetto di Dio, perché l’autorità glielo impedisce. Allora, non soltanto Gesù viola il sabato, ma si fa figlio di Dio e questo crea il panico; perché? Le autorità religiose si erano poste quali mediatori tra Dio e l’uomo. L’uomo, a quel tempo, non poteva rivolgersi direttamente a Dio, ma doveva passare attraverso i sacerdoti. C’era bisogno di una preghiera, di una grazia, di qualcosa? L’uomo comune non poteva sapere cosa Dio pensasse di lui e doveva rivolgersi alle autorità religiose.
Quindi i sacerdoti diventavano mediatori tra l’uomo, che viveva la condizione di servo, e il Dio, il sovrano. Guardate che questa mentalità blasfema è ancora presente! Mi capita, a volte, come prete, di essere avvicinato da certi individui che mi domandano: mi dica una “avemaria” alla Madonna. E io rispondo: perché tu non la puoi dire? No, lei è più degno, a lei il Signore l’ascolta di più! Io ho il filo diretto. Vi è ancora questa idea che una categoria di persone stia in una situazione privilegiata con Dio e che la gente debba ricorrere a questi mediatori per arrivare a Dio. E qui scatta l’allarme, perché Gesù si presenta come il figlio di Dio e il figlio non ha bisogno di mediatori, il figlio ha la confidenza totale con il padre, il figlio per dire al padre che gli vuol bene, non deve andare da qualcuno che gli faccia da tramite, glielo dice direttamente. Il padre, per dimostrare il suo amore al figlio, non ha bisogno di altre persone. La relazione tra padre e figlio, non solo non ha bisogno di mediatori, ma se si frappongono i mediatori si crea un diaframma, un ostacolo che la impedisce.
Questo, le autorità lo capiscono bene. Se Gesù, che va al di là della legge, ci ignora, per Lui sembra proprio che noi non esistiamo, ha questo rapporto con il Padre e dice alle persone che ognuna di loro può avere questo rapporto diretto con il Padre, oh per noi è la cassa integrazione! La gente non ha più bisogno di noi! La gente non ricorre più a noi! Se quando peccano non vengono da noi a portarci quel ‘pollastrello’ che noi abbiamo loro domandato per ottenere il perdono, qui, alla cassa integrazione si accompagna pure la fame! Per noi è finita! Perciò scatta l’allarme per le autorità, esattamente quello che Dio aveva denunciato attraverso il profeta Ezechiele: “Voi non vi state prendendo cura delle pecore, ma le state tosando e mangiate le loro carni. E allora prenderò io stesso, Dio, cura del mio gregge”. I pastori? Tutti licenziati! Nell’autorità religiosa c’è questa paura, c’è questo terrore. All’inizio del vangelo di Giovanni, quando appare Giovanni Battista, si scatena il panico a Gerusalemme e si manda una commissione di teologi e di autorità: sei tu il messia? Le autorità religiose non aspettavano il messia, lo temevano, erano terrorizzate dall’arrivo del messia, perché sapevano che il messia sarebbe stato il pastore promesso da Dio nel profeta Ezechiele: prenderò io stesso cura delle mie pecore e i pastori, tutti licenziati.
Quindi la pretesa di Gesù di essere figlio di Dio, destabilizza l’istituzione religiosa che, da questo momento, decide di assassinarlo. Ma Gesù risponde loro: il Padre mio opera sempre e anch’io opero. Era fuori discussione che Dio, come è scritto nel libro della Genesi, il settimo giorno, come era terminata la creazione, si fosse riposato: la creazione è completa, è fatta, poi gli uomini l’hanno rovinata. Gesù dice non è vero! La creazione non è finita! Come dirà Paolo, fintanto che ognuno non ha la possibilità di diventare figlio di Dio e quindi di eliminare tutti quegli ostacoli che impediscono all’uomo la libertà, perché se non si è liberi non c’è la possibilità di essere figli di Dio, fintanto non c’è questo, il Padre lavora. Ma il testo della Genesi lo dice chiaramente: Dio cessò la creazione il settimo giorno e riposò. Quindi per il libro della Genesi, Dio la creazione l’ha completata. Gesù dice non è vero, la creazione non è completata. Fintanto che ogni uomo non avrà la possibilità di realizzare in sé il progetto di Dio, il Padre mio lavora, io lavoro. E qui Gesù provoca ognuno di noi, perché ha bisogno della collaborazione di tutti noi.
IL BRANO DEL CIECO NATO
L’episodio che ora terminiamo è legato al tema dell’attività creatrice di Gesù che, come abbiamo visto, non riconosce la tradizione religiosa che afferma che Dio ha ultimato la creazione e si riposa, ma asserisce che continua a lavorare affinché la creazione termini. E’ un brano molto importante che stride con l’ideologia pessimistica della tradizione religiosa ebraica secondo cui Dio ha creato un mondo stupendo, ma gli uomini lo hanno rovinato. Da qui l’immagine idilliaca, o è il caso di dire paradisiaca, del paradiso terrestre, dell’armonia tra l’uomo e la donna e tra questi e il creato, che poi, però, si è irrimediabilmente rovinata e la conseguenza è lo star male dell’uomo.
Visione profetica
Ma Gesù non è d’accordo con questa idea, dice: quella realtà descritta nella Genesi, non è la realtà di quello che c’era, ma è una visione profetica di quello che ci deve essere; per cui dobbiamo lavorare tutti assieme per arrivare a realizzare il progetto di Dio sull’umanità, cioè che vi sia armonia tra gli uomini e armonia tra gli uomini e il creato. Questo concetto è importante anche per leggere certe pagine del Nuovo Testamento.
Negli Atti degli Apostoli leggiamo che la primitiva comunità cristiana era un cuor solo e un’anima sola, si volevano tanto bene, ecc.; ora le nostre comunità sono piene di divisioni, di inimicizia e andiamo con nostalgia a un tempo d’oro della chiesa. e rimpiangiamo il modello della primitiva comunità cristiana, che col tempo abbiamo rovinato. Ma non è così! Anche in quei passi Luca dice: che la comunità dei credenti sia un cuor solo e un’anima sola e che tutto sia in comune è un modello, ma la realtà è un’altra. E fa vedere subito una divisione all’interno della comunità, dove quelli di origine pagana non vengono trattati bene come quelli di origine ebraica, fa vedere gli imbrogli. Conoscete l’imbroglio di Ananìa e Saffìra che fanno finta di mettere in comune quello che hanno ed invece tengono una parte per loro. Quindi la realtà è quella che è, il progetto è un altro e dobbiamo tutti quanti lavorare e collaborare per realizzare questo progetto. Per questo Gesù continua a lavorare, affinché con la collaborazione di ognuno di noi la creazione raggiunga la pienezza.
Lo sguardo creativo di Gesù
L’altro episodio, intimamente legato a questa attività creatrice, lo troviamo al capitolo 9 del vangelo di Giovanni, versetti 1-41; si tratta dell’episodio del cieco nato; è ricco, complesso ed importante. Ancora una volta c’è da notare la finezza e l’abilità teologica dell’evangelista, che scrive: passando, vide un uomo cieco dalla nascita. Fa parte dell’attività di Gesù andare in cerca delle persone, è lo sguardo creativo di Gesù. Gesù, vedendo un uomo ancora immerso nelle tenebre, che mai ha saputo cos’è la luce, continua e completa l’attività del creatore che vide le tenebre e creò la luce e vide che la luce era cosa buona. E, in questo brano, l’evangelista attualizza, mette in pratica quello che Gesù ha già detto e che ripete in questo brano: io sono la luce del mondo.
Attenzione, non è una prerogativa esclusiva di Gesù, ma una possibilità e una attività di ogni credente. Gesù afferma di essere la luce del mondo; la luce è ciò che trasmette la vita, un ambiente senza luce non ha vita. Quindi Gesù è colui che è fautore di vita per il mondo. Ma, si legge nel vangelo di Matteo: voi siete la luce del mondo: non ci sono azioni straordinarie compiute da Gesù con il suo potere divino, ma possibilità di ogni credente di praticare tali azioni nella propria esistenza, singolarmente e comunitariamente. Quindi Gesù, luce del mondo, dice: voi siete la luce del mondo. L’attività delle luce nel mondo, quella di Gesù e la nostra è quella che ora segue. Gesù vede un uomo cieco dalla nascita e i discepoli lo interrogano: Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?
In quale Dio noi crediamo
Qui bisogna fare una distinzione importante. Abbiamo già sottolineato l’importanza del Dio in cui si crede, perché se il Dio nel quale noi crediamo non è il Padre di Gesù e il suo volto non ha il volto trasparente del Padre, la nostra vita e spirituale, ma anche psichica, fisica, ne può venire fortemente squilibrata. Perché dal Dio in cui crediamo dipende la nostra esistenza, e allora è importante vedere in quale Dio crediamo.
Il libro del Siracide, nell’Antico Testamento, era lapidario: bene e male, vita e morte, tutto proviene dal Signore. Addirittura si legge, dal profeta Isaia, che Dio dice: io sono il creatore della sventura. Nel profeta Amos si trova quest’altra espressione: non avviene nella città una disgrazia che non sia causata da Dio. Quindi se il bene viene da Dio, anche il male viene da Dio. Niente ha un’origine casuale, tutto viene da Dio.
La credenza contenuta nell’A.T., che tutte le sciagure provengono da Dio, lascia all’uomo l’unica possibilità di accettare, rassegnato, quello che il Padreterno gli manda, sperando che non calchi un po’ troppo la mano. Deve fare come nel libro di Giobbe, dove Giobbe dice alla moglie che lo rimprovera di aver benedetto il Signore anche per tutte le disgrazie: se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male? E poi solennizza: Dio ha dato, il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia lodato il Signore.
Questa è, tristemente, spiritualità di molti cristiani. Perciò, prima di continuare con gli altri versetti di questo episodio, è importante vedere in quale Dio noi crediamo e per questo è determinante il lavoro dei traduttori. Purtroppo la gran parte delle traduzioni, specialmente quelle in italiano, sono fatte o da incompetenti, o in malafede, o in maniera frettolosa. E’ importante, invece, un serio lavoro di traduzione. Qual è il Dio al quale si rivolge Giobbe? Perché è chiaro, se io prendo una bibbia qualunque, trovo l’espressione il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il Signore, penso al Signore in cui io credo. Se io trovo scritto che Dio ha fatto questo, penso che sia il Dio di Gesù.
Ma il testo cosa dice veramente? Perché vedete, nell’A.T., ci sono diversi nomi di Dio, che corrispondono all’evoluzione del concetto di Dio nell’esperienza del popolo. Man mano che il popolo cresceva, aveva una visione sempre più esatta di Dio, ed è importante che questi nomi vengano conservati nel loro significato originale. Per esempio, qui Giobbe non dice “il Signore”, è il traduttore che erroneamente ha tradotto così, Giobbe dice: Jahvè ha dato, Jahvè ha tolto, sia lodato Jahvè. Se io lo leggo in questo modo posso prendere le distanze, ma se leggo il Signore, penso sia il mio Signore che è colui che dà e che toglie. Se invece nel testo originale, leggo che è Jahvè, allora posso capire che a quell’epoca loro lo pensavano così. Capite l’importanza della traduzione.
Prendete un altro episodio che fa arrampicare sugli specchi parecchi commentatori: quello di Abramo. Abramo, poveretto, ha pazientato tutta la vita per avere un figlio e quando gli nasce, arriva Dio e gli domanda di farglielo arrosto. E Abramo obbedisce…. ah, la fede di Abramo. Ma quale fede, si dimostra un delinquente! Uno che gli nasce un figlio e lo ammazza? Altro che fede, è un delinquente, un bandito! Invece si plaude alla fede… tutte sciocchezze che fanno parte dello stupidario religioso che è enciclopedico! Ma cosa dice veramente il testo? Parla di Elohim, gli dei. La gente, a quell’epoca, credeva che esistesse Jahvè, ma che esistessero anche tante altre divinità.
Quando il popolo degli ebrei è entrato nella terra di Canaan credeva a Jahvè, ma era circondato e credeva anche alle altre divinità. Allora il testo è importante, è chiaro che non dice Dio; se io penso che sia Dio che chiede ad un uomo di ammazzare suo figlio, mamma mia, chissà cosa chiederà a me. Ma il testo parla di Elohim, che è un nome di dio, cioè gli dei. Sono le divinità che chiesero ad Abramo di sacrificare loro il figlio. Questo era normale, perché in quell’epoca i figli non contavano niente ed era usuale, che prima di un’impresa, il primogenito venisse arrostito a Molok. Nella valle della famosa Geenna c’erano tanti forni crematori, dove la persona che doveva intraprendere un viaggio all’estero, con tutti i pericoli presenti a quei tempi, o la persona che doveva fare qualcosa di importante, prendeva un figlio e lo arrostiva offrendolo a queste divinità. Gli Elohim, questi dei, chiedono ad Abramo di continuare con quell’usanza, ma interviene Jahvè nel momento in cui
Abramo sta per sacrificare suo figlio e dice: no, non è questo che io voglio! Allora è il conflitto tra due aspetti di Dio, il dio di una tradizione religiosa e il nuovo Dio che Israele sta imparando a conoscere, che non vuole sacrifici umani e tanto meno di figlioli. Ma è naturale, se io leggo “dio” invece dei nomi di questi dei, questa descrizione si appiattisce. Quindi è chiaro, in Abramo c’è il conflitto tra le divinità dell’ambiente circostante, per le quali è normale sacrificare un figlio, e Jahve che non vuole questo. Abbiamo visto che nella bibbia ci sono diversi nomi di Dio: c’è Elohim, che viene tradotto con “dio”, c’è Jahvè, normalmente tradotto con “signore”, poi c’è un termine che non si sa come tradurre, perché in ebraico è Shaddai che significa “il dio della steppa”.
Non sapendo come tradurlo, il buon Girolamo ha pensato bene di tradurlo con “onnipotente”, e da lì sono usciti tutti i guai che possono nascere dall’avere un Dio onnipotente. Poi, c’è all’interno della comunità cristiana il nome “Padre”; questo è il volto di Dio nel quale noi crediamo. C’è un Dio creatore e c’è un Dio Padre.
Qual è la differenza tra il Dio creatore e il Padre di Gesù? Creare significa agire al di fuori di sé; se io adesso creo una statua di argilla, ho creato qualcosa al di fuori di me, ma se io metto al mondo un figlio, lo genero dall’interno di me. Perciò Gesù prende la distanza dal termine “creatore”, perché il creatore è colui che crea qualcosa all’esterno di lui, il Padre no. Il Padre è colui che trasmette la sua stessa vita agli uomini, per questo si dice che Gesù non è stato creato, ma generato e così ognuno di noi. Scusate questa parentesi, ma è importante, perché altrimenti si continua ancora a credere, come i discepoli, al dio che manda le disgrazie, al dio che manda le malattie. Dico questo perché mi è capitato, purtroppo, di fronte a tragedie, lutti, scomparse di persone, che la persona “pia” (ho detto più volte, la più pericolosa da incontrare) dice: il Signore ha dato, il Signore ha tolto, benedetto il Signore. No, questo è Jahvè e se io so che è Jahvè è tutta un’altra cosa.
Malattie conseguenza del peccato?
Comunque la convinzione che le malattie fossero una conseguenza del peccato, era normale nell’ambiente palestinese. Tant’è vero, scrive il Talmud, che quando si incontra una persona, che oggi definiremo un “portatore di handicap”, bisogna considerarlo “castigato da Dio”. Sapete che la vita di un ebreo è tutta cadenzata da benedizioni e da ringraziamenti e, prescrive il Talmud, chi vede un mutilato, un cieco, un lebbroso, uno zoppo, dica: benedetto il giudice giusto, perché se è così, qualcosa ha commesso. Oppure, quando si trova una persona brutta, “racchia”, bisogna benedire il Signore che rende racchie le persone.
E’ interessante, perché è ancora la spiritualità di oggi. Ma se la malattia è sempre in relazione con il peccato, la sofferenza dei bambini, indubbiamente innocenti, come poteva essere spiegata? Un bambino che nasce già infermo? Ebbene, anche per i bambini avevano una spiegazione. Del resto lo dice la stessa bibbia, nel libro dell’Esodo, che Dio è un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione.
Non c’è scampo! Perché, anche se la prima, la seconda e la terza generazione si comportano rettamente, ma la quarta fa uno sbaglio, per altre quattro generazioni ci saranno disgrazie; quindi non c’è scampo. Il Talmud dice: quando in una generazione ci sono dei giusti, questi vengono puniti per i peccati della loro generazione. Se non vi sono giusti, allora i bambini soffrono il male dell’epoca. Perciò un bambino infermo, un bambino sofferente, sconta i peccati della gente. Siccome il Signore non vedeva nessuno a cui farli scontare, ha preso gli innocenti. Frutto di questa mentalità è la domanda che i discepoli rivolgono a Gesù, vedendo un cieco nato. La cecità non era considerata un’infermità tra le altre, ma se l’infermità era un castigo, la cecità era considerata una maledizione, perché impediva lo studio della legge e di conseguenza la salvezza dell’individuo. Perciò, se tutte le infermità erano considerate un castigo per i peccati commessi, la cecità no, la cecità era una maledizione che colpiva l’individuo escludendolo per sempre dalla salvezza.
Non solo, abbiamo già visto prima ed è il collegamento tra i due brani, che Davide, che odiava ciechi e zoppi, li aveva maledetti e aveva proibito loro di entrare nel tempio. Risponde Gesù: né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché in lui si manifestassero le opere di Dio. Gesù risponde escludendo tassativamente e definitivamente qualunque relazione tra la colpa e la malattia. Non ha peccato né lui, né i suoi genitori, e avverte i discepoli che proprio in quell’individuo, che è ritenuto peccatore maledetto dalla religione ed emarginato dalla società, (si leggerà più avanti che è un mendicante) si manifesta l’attività creatrice del Signore.
L’escluso dalla società, il maledetto da Dio, non sono tali per Gesù, che va in cerca dell’individuo; ricordate, infatti, che è Lui che lo vide, e in lui manifesta l’azione creatrice del Signore. Gesù ripete sul cieco i gesti del creatore, quando ha creato l’uomo. Scrive l’evangelista, che detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva e spalmò il fango sugli occhi del cieco, poi disse: vai a lavarti alla piscina. Come il primo uomo era stato creato dal fango, dalla polvere nella terra, ecco Gesù che continua l’attività creatrice e questo maledetto da Dio ed escluso dalla società, viene ricreato con la nuova creazione. Ecco allora, che Gesù ripete gli stessi gesti del Dio creatore. Invitato ad andare a lavarsi nella piscina di Sìloe l’uomo tornò che ci vedeva. E’ la creazione che è completata.
La persona ritrova dignità e libertà dall’incontro con Gesù
Continuo con i versetti 8 e 9: “Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante (ecco che adesso sappiamo che era un mendicante) dicevano: “Non è egli quello che era seduto a chiedere l’elemosina?” Alcuni dicevano è lui, altri dicevano no, ma gli assomiglia ed egli diceva sono io”. Cos’è questa confusione? C’è questo cieco che è andato a lavarsi alla piscina, torna che ci vede, ma i vicini non lo riconoscono più. Non ha cambiato fisionomia, naturalmente anche queste sono tutte indicazioni teologiche. Quando una persona ritrova dignità e libertà dall’incontro con Gesù è sempre la stessa, ma è una persona nuova, è una persona rinata e la rinascita si vede, si vede anche fisicamente. Quando una persona che da tanti anni è stata oppressa da una religione, da un dio che lo dominava, scopre che Dio la ama così com’è, che l’amore di Dio non si lascia condizionare dai suoi atteggiamenti, la persona rinasce, la persona risorge; è la stessa di prima, ma è una persona completamente nuova. E’ questa l’attività che Gesù si aspetta da ognuno di noi. Prima dicevo che le autorità religiose si sono trovate disoccupate, in cassa integrazione, perché se non c’è più bisogno di mediatori tra Dio e gli uomini, cosa ci stanno a fare? Ebbene, Gesù dice: mediatori no, ma collaboratori si! Dio non ha bisogno di mediatori con l’uomo, ma ha bisogno di collaboratori che si mettano, come Lui, al servizio degli uomini per comunicare quella vita che fa riscoprire alle persone la dignità. Dignità che è la condizione divina.
Qui, il cieco esclama: sono io. Attenzione, perché la traduzione non vuol fargli rivendicare la sua stessa esistenza, Giovanni mette in bocca al maledetto da Dio, all’escluso dalla società, la definizione del nome di Dio. Sapete che quando Mosè chiede a Dio dimmi il tuo nome, Dio dice “io sono” e questo è il nome di Dio, il nome divino. Gesù rivendica più volte per sé questo nome, dicendo “io sono”, mentre l’unico personaggio nel vangelo di Giovanni che rivendica la condizione, la pienezza del figlio di Dio, è questo cieco. Egli dice, esattamente in greco: io sono! Pensate che quando i sacerdoti vanno ad interrogare Giovanni Battista, Giovanni pur di non dire “io sono”, pur di evitare di usare per sé il nome di Dio, fa tutta una acrobazia verbale. Ebbene, il cieco, il mendicante ricreato da Dio, può affermare “io sono”, in me c’è la pienezza della condizione divina.
Allora gli chiesero: come dunque ti furono aperti gli occhi? Egli rispose: quell’uomo che si chiama Gesù. Anche qui la traduzione non ci fa comprendere appieno il messaggio; per noi che l’uomo si chiamasse Gesù o Beppe cambierebbe poco, ma in ebraico Gesù significa “Dio salva”. Nei vangeli, molte volte, ci sono dei ‘giochi’ di parole che le nostre traduzioni non possono rendere comprensibili. Nel vangelo di Matteo per esempio, l’angelo dice ai genitori di Cristo: si chiamerà Gesù, perché salverà il suo popolo. Se si fosse chiamato Beppe, lo poteva salvar lo stesso, ma in ebraico, Gesù significa “Dio salva”. In ebraico, “Gesù” si dice “Yeshuà”, mentre “salverà” si dice “yoshua”; quindi “Yeshuà yoshua” è un gioco di parole che non è possibile rendere bene nella nostra lingua. Il cieco dice: quell’uomo che si chiama “Dio salva” o “salvezza di Dio”, ha fatto del fango, ecc. Intanto (versetto 13), condussero dai farisei quello che era stato cieco. Era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Certo Gesù, un altro giorno non lo poteva scegliere? Se quest’uomo che era cieco dalla nascita e l’altro che era 38 anni che era infermo, venivano guariti il venerdì o il lunedì, cosa cambiava, non erano contenti lo stesso?
Gesù non trasgredisce la legge, la ignora
Possibile che Gesù sceglieva di andar a rompere le scatole alle autorità religiose effettuando queste guarigioni proprio il sabato? Gesù, sistematicamente, tutti i sabati, non trasgredisce la legge, la ignora, che è peggio! Qualcuno che la trasgredisce riconosce un valore, Gesù fa come se questa legge non esistesse. C’è l’attività della creazione e l’attività delle creazione dell’uomo non conosce impedimento. Ma la gente è frastornata e questo è triste, perché è talmente sottomessa all’autorità religiosa, che è incapace di avere un’opinione propria. Cosa pensi tu? Ah, io penso quello che dice il sommo sacerdote. Qui c’è uno che era cieco e adesso ci vede; facciamo festa, rallegriamoci, il fatto è talmente evidente! La gente dice no, bisogna vedere cosa ne pensano le persone che ci comandano, perché questo episodio è avvenuto in un giorno che non si poteva fare; quello che loro diranno, quello che loro decideranno, sarà quello che noi pensiamo.
La religione mantiene le persone in una condizione infantile
Le persone hanno sempre bisogno di un capo, o di un padre (santo, a volte) che dica loro cosa devono fare, sono incapaci di autonomia propria. E Gesù dice no, Gesù ci vuol far crescere e vuole che diventiamo persone capaci di ragionare con la propria testa. Lo portarono, quindi, dai farisei. Anche i farisei, dunque, gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Notate che è la quinta volta che l’espressione “come” viene usata. C’è un uomo che è ritornato a vedere, non si rallegrano, ma sono preoccupati sulle modalità di questo recupero della vista. Che l’uomo sia passato da una condizione di sofferenza ad una di felicità, non interessa. Questa è gente che non ha a cuore il bene dell’uomo, ma ha cuore soltanto il proprio prestigio, il proprio interesse. Per questo nell’unica domanda che fanno, vogliono sapere le modalità, il come. Ed egli disse loro: mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo.
Allora alcuni farisei dicevano: quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato. La bellezza del catechismo è che ha una risposta per ogni situazione. C’è uno che era cieco, ora ci vede, ma è stato curato nel giorno di sabato; andiamo a vedere il catechismo, cosa dice? Il sabato non si può! Quindi, la sentenza delle autorità religiose: Gesù non viene da Dio, perché non osserva il sabato! Questi uomini sanno tutto quello che Dio può o non può fare. Altri dicevano: come può un peccatore compiere tali prodigi? E c’era dissenso tra di loro. L’evidenza del fatto era tale che manda in crisi una parte di loro. Quindi la guarigione del cieco mette all’erta i farisei. Loro, cultori della morte, Gesù li chiamerà “i sepolcri imbiancati”, non tollerano alcuna manifestazione di vita. Pensate, il termine “farisei” significa “separati”; difatti, loro evitavano di sfiorare una persona che non osservi, come loro, tutti i 613 precetti della legge, per paura di diventare impuri. Gesù all’incontrario dice: attenti, non avvicinate i farisei, perché sono loro impuri e se li avvicinate, non solo non venite contagiati dalla loro santità, ma venite contagiati dalla loro condizione di impurità.
Sepolcri imbiancati, dice Gesù, all’esterno sono belli, ma dentro c’è putridume. Costoro sono abituati a rapportarsi ai fatti con il codice in mano, valutano ogni fatto, anche nuovo, in base al codice. L’impastare il fango è uno dei 39 lavori principali proibiti nel giorno di Sabato; da qui il loro allarme e la loro sentenza. Di fronte all’intervento divino, il cieco, maledetto perché non poteva leggere la bibbia, ci vede e loro, questi assidui lettori del testo sacro, sono ciechi.
E’ un avviso che l’evangelista dà ad ognuno di noi. La bibbia, queste pagine, possono essere comprese soltanto se l’obiettivo principale della nostra esistenza è il bene dell’uomo. Se non c’è questo, sono pagine che, non solo non ci danno la luce, ma ci accecano. Qui abbiamo dei farisei, che erano delle persone pie, delle persone devote che dalla mattina alla sera leggevano, rileggevano e pregavano sulla bibbia; ebbene, tanto studio, ma davanti ad un intervento di Dio, diventano ciechi, perché non hanno a cuore il bene dell’uomo, ma soltanto il loro prestigio. Quindi definiscono Gesù come uno che ha compiuto un’azione contraria a Dio. Del resto, nel libro del Deuteronomio, Dio stesso dice che bisogna mettere a morte un profeta che anche compiendo prodigi, fa deviare il popolo dall’insegnamento della legge. Perciò i farisei avevano le spalle al muro.
In nome della legge si può comunicare morte.
Per questo è importante la sostituzione del nome di Dio che Gesù farà nei vangeli; Gesù evita di parlare e di rivolgersi a Dio, ma userà preferibilmente il termine “Padre”. Mentre per la difesa di Dio e in nome di Dio si può togliere la vita, in nome del Padre la si può soltanto trasmettere. Versetto 17. “Allora dissero di nuovo al cieco: tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi? Egli rispose: è un profeta, cioè un inviato di Dio”. Il fatto è talmente evidente, talmente palese, ma l’autorità non lo può ammettere. Non lo possono ammettere non perché siano stupidi, loro sono le autorità religiose, non sono l’ultimo analfabeta del popolo, è gente istruita, è gente colta, ma se ammettono questo fatto scricchiola e va in crisi tutto il loro sistema. Infatti i giudei, (ricordo le autorità e i capi del popolo) non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista.
Di fronte ad una verità teologica, dogmatica da una parte e ad un fatto esistenziale dall’altra, va sacrificato il fatto esistenziale. Non può essere, la nostra legge non può sbagliare e quindi non può essere vero che quest’uomo era cieco. Non potendo ammettere alcuna contraddizione nella loro dottrina, cercano di negare la verità dei fatti. E incominciano a insinuare, emerge il dubbio della frode, dell’imbroglio. Scrive l’evangelista: chiamarono i genitori di colui che aveva recuperato la vista. Li interrogarono: è questo il vostro figlio che voi dite esser nato cieco? E di nuovo: come mai ora ci vede? Notate la finezza, prima chiedono se davvero è il loro figlio e poi “voi dite che è nato cieco”; siete degli imbroglioni ed avete usato l’imbroglio per fare quattrini, perchè il ragazzo è mendicante.
La guarigione del figlio viene considerata dalle autorità religiose un crimine del quale i genitori devono rispondere o sapersi difendere. E’ tragico questo! Non potendo negare la verità del fatto, che era palese, cercano di insinuare che fosse un imbroglio. Ma i genitori risposero: sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco, come poi ora ci veda non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l’età, parlerà lui di sé stesso. Annota l’evangelista, per giustificare i genitori: questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei giudei. Infatti i giudei avevano stabilito che se qualcuno avesse riconosciuto Gesù come il messia, venisse espulso dalla sinagoga. Immaginate queste persone, quanto fossero intimidite e impaurite davanti alle massime autorità religiose, con tutti quei paramenti con i quali si voglio distinguere dalle persone normali per far vedere che loro sono in comunione diretta con Dio e soprattutto, può sembrare una nota di colore, con il copricapo.
Avete notato che chi vuole comandare gli altri si deve sempre mettere un cappello, un copricapo; perché? E’ importante questo atteggiamento. Il copricapo innalza la statura e quindi si domina. Se io adesso mi metto una scuffia sul capo, sembro più alto di quello che sono. Immaginate quindi queste persone, portate davanti a queste autorità, con tutti i paramenti sacri, intimidite e impaurite scaricano ogni responsabilità sul figlio. Dall’espressione che usano sappiamo che il figlio è poco più che un ragazzetto. Il termine “ha l’età” significa che si tratta di un ragazzo di età compresa tra i 13 e i 18 anni non ancora compiuti. La codardia dei genitori viene giustificata dagli evangelisti, perché le autorità religiose hanno già stabilito: chi di voi riconosce che Gesù è il messia, verrà espulso dalla sinagoga.
L’espulsione dalla sinagoga
E’ una terribile e temuta conseguenza nell’ambiente sia sociale che religioso. Sempre il Talmud prescrive che con gli espulsi dalla sinagoga non si può né mangiare, né bere e bisogna tenere una distanza di 4 cubiti, cioè circa 2 metri. Per cui, l’espulso dalla sinagoga è trattato come un appestato, non si può più avere rapporti con lui, è la morte. Nell’ambiente cittadino o nell’ambiente del villaggio un individuo, una persona che veniva espulsa dalla sinagoga, era espulso dalla società, per questi c’era la rovina e la disgrazia. Per questo i genitori, che non vogliono rischiare, scaricano tutto quanto sul figlio. E qui, se si dovesse mettere un titolo, sarebbe: da miracolato a imputato.
Nel giro di pochi minuti, questo povero disgraziato si trova da miracolato a imputato. Chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: dà gloria a Dio, noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore. L’espressione “dar gloria a Dio”, è un’espressione ebraica che significa “sii sincero di fronte a Dio”, quindi confessa. E poi la sentenza: noi (il plurale di queste autorità religiose) i rappresentanti di Dio, coloro che esprimono la volontà di Dio, sappiamo che questo uomo è un peccatore. E un peccatore, appunto, non può far recuperare la vista ad un cieco. E’ la terza volta che quest’uomo viene convocato ed interrogato dalla autorità che cercano di fargli ammettere che per lui è un male aver recuperato la vista per opera di un peccatore. Era meglio per lui rimanere cieco, piuttosto che aver recuperato la vista per opera di un peccatore.
Ma tra la verità dogmatica e la propria esperienza vitale, è la seconda la più importante. E abilmente l’uomo non entra in questioni teologiche: io di teologia non capisco, parlo della mia esperienza, se sia un peccatore non lo so, una cosa so, prima ero cieco e adesso ci vedo. Voi mi parlate con i libri di teologia in mano, è peccato, dà gloria a Dio, non può fare questo di sabato; io so una cosa sola, prima non ci vedevo e adesso ci vedo. La mia esperienza mi dice che questa è stata un’azione positiva, la vostra teologia dice di no; ma, tra la vostra teologia e la mia esperienza, io preferisco la mia esperienza.
Dare il primato alla propria esperienza vitale
Guardate che questi sono temi attuali ed importanti. L’evangelista invita ogni credente a dare il primato, per orientare la propria vita, alla propria esperienza vitale. Ogni qual volta c’è un conflitto tra la verità dogmatica e la propria esperienza vitale, scrive l’evangelista, è quest’ultima che deve aver la meglio. Quando si deve sacrificare qualcosa tra una legge religiosa o divina e la propria esperienza di vita, è la prima che va sacrificata e non la seconda. Abituati a trovare nei libri sacri, scritti secoli e secoli prima, una risposta valida per ogni situazione dei loro contemporanei, queste autorità non pensano di aver nulla da imparare e da modificare. Vedono ogni novità come un attentato a Dio, che ha sancito una volta per sempre la sua legge e la sua legge determina una volta per sempre il comportamento dell’uomo. Uomo, al quale non resta che sottomettersi a leggi e norme emanate in altri tempi, in altre situazioni e in altri luoghi. E’ la legge, devi fare così. Ma quello che ha scritto la legge non poteva sapere che io oggi mi sarei trovato in una situazione nuova, che a quell’epoca non c’era. Non importa, tu devi sacrificare la tua vita per farla entrare nei dettami della legge.
E’ quello che i primi cristiani non fecero e mentre l’Antico Testamento è il testo sacro immutabile, è proibito cancellarne una virgola, così è scritto e così rimane, la bellezza del messaggio di Gesù è che le prime comunità cristiane non lo hanno considerato un testo sacro al quale conformare la propria vita, ma un testo vivente che andava arricchito e modificato in base alle proprie esperienze. Ecco perché i vangeli sono così diversi l’uno dall’altro, perché corrispondono a esperienze diverse di diverse comunità. Abbiamo l’insegnamento di Gesù, benissimo, lo prendiamo, ma adesso noi viviamo una situazione che all’epoca di Gesù era impensabile, non esisteva, abbiamo dei problemi che all’epoca di Gesù non esistevano; allora impariamo dall’insegnamento di Gesù che l’amore e il bene dell’uomo sono al primo posto, e sapremo come comportarci in ogni caso. L’insegnamento di Gesù si arricchiva dell’esperienza delle persone e veniva proposto non come una legge che determinava il comportamento dell’uomo, ma come un aiuto per migliorare il proprio comportamento.
Non so se sia chiara questa differenza. Il testo dell’Antico Testamento è scritto, fissato e non si tocca, il testo dei vangeli no. I vangeli, per secoli, si sono modificati, sono cresciuti e si sono arricchiti, perché rispondevano alle varie situazioni della comunità. Per cui, mentre l’Antico Testamento sacrifica gli uomini a osservare leggi e norme scritte in altri tempi e in altri momenti, il vangelo no. Il vangelo va sempre attualizzato e arricchito dell’esperienza della comunità dei credenti. Ci si può domandare: ma non bastava un vangelo? Perché quattro vangeli e così diversi?
Ma ne bastava uno, fatto bene e su quello ci si conformava. No, perché le esperienze dell’umanità sono tante e siccome il vangelo vuol essere un messaggio universale e l’universo da sempre era simboleggiato dai quattro punti cardinali, ecco che nella chiesa si sono raccolti ben 4 vangeli. Quattro differenti maniere, ma tutte identiche, per vivere il messaggio di Gesù, quattro come i quattro punti cardinali. Ma i dirigenti, a costo di negare l’evidenza, non possono ammettere la guarigione dell’uomo, perché questo farebbe scricchiolare e rischierebbe di demolire tutta la loro costruzione teologica.
Attenzione, qui non abbiamo gente scema, sono persone istruite, colte, ma se ammettono che la legge in un punto, soltanto in un punto, può essere modificata, è la fine. Perché poi la gente dirà che si può modificare anche in altre parti. Anche se la gente deve soffrire a causa dell’osservanza della legge, non importa, Dio poi in qualche maniera li compenserà e provvederà, l’importante è che la legge non venga scalfita. Perché, se cominciamo a modificare qui, a tagliare di là, tutto questo castello teologico si scioglie e dove andremo a finire? Non c’è più religione! Ed è quello che Gesù ha fatto. Allora gli dissero di nuovo: che cosa ti ha fatto, come ti ha aperto gli occhi? L’ostinazione dell’uomo che non vuol ammettere che per lui sarebbe stato meglio rimanere cieco, piuttosto che riacquistare la vista per mano di un peccatore, aumenta l’ira dei capi e ritornano ancora ad insistere. Attenzione alla parola, perché è la parola chiave per la comprensione di questo brano: come ti ha aperto gli occhi?
L’azione liberatrice di Dio
E’ questo che li preoccupa, perché “aprire gli occhi” nell’Antico Testamento è l’immagine dell’azione di liberazione, dell’azione liberatrice di Dio da ogni forma di oppressione e di tirannia. E questa sarà un’azione specifica del messia quando verrà. Scrive il profeta Isaia che l’azione del messia sarà quella di aprire gli occhi ai ciechi, far uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre. Per ben sette volte in questo episodio viene ripetuta l’espressione “aprire gli occhi”; l’evangelista sottolinea quel che realmente preoccupa le autorità religiose, che la gente apra gli occhi. Perché i dirigenti religiosi possono spadroneggiare e imporre la loro volontà fintanto che il popolo non vede, ma quando il popolo comincia ad aprire gli occhi, per loro è la fine.
Quando la gente si accorge che il re è nudo, non ne ha più soggezione e incomincia il ridicolo. Avevamo terminato la lettura al versetto 26, dove l’allarme delle autorità è posto tutto sulle modalità della guarigione. Ricordate che a loro, che sia guarita una persona non interessa, ma che questa guarigione possa in qualche maniera scalfire il loro prestigio, il loro potere, li allarma. E ogni volta chiedono: come ti ha aperto gli occhi? L’espressione “aprire gli occhi”, appare in questo brano ben sette volte; il numero sette nella simbolica ebraica significa la totalità, ed è un’espressione che l’evangelista prende dal profeta Isaia, nei brani che indicano l’azione del messia. Il messia, la sua azione di liberazione, viene descritta come “luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi”. Abbiamo visto che “aprire gli occhi ai ciechi”, nell’A.T., significa liberazione da una prigionia. Sempre nel profeta Isaia si legge che il compito e l’attività del messia sarà anche di “far uscire dal carcere i prigionieri”. Cecità e prigionia, nel loro linguaggio, sono la stessa cosa, perché a quell’epoca i prigionieri, i carcerati non abitavano in celle, ma nei sotterranei dei palazzi reali o delle carceri e stavano completamente al buio. Ecco, allora, che spesso troviamo nei vangeli, come in questo brano, le espressioni aprire gli occhi ai ciechi e far uscire dalle carceri i prigionieri.
Quindi cecità e prigionia sono la stessa cosa, perché i prigionieri passavano la loro esistenza, per il poco che riuscivano a campare, completamente al buio. Aprire gli occhi ai ciechi, perciò, significa liberare le persone da una prigionia. Abbiamo anche visto che “aprire gli occhi ai ciechi” allarma le autorità, perché loro sanno che se la gente apre gli occhi per loro è finita. Se la gente mette in sintonia il proprio sguardo con lo sguardo di Dio che, come dice la bibbia, non guarda all’apparenza, ma guarda ciò che è nel cuore dell’uomo, per i capi, che spadroneggiano e tiranneggiano il gregge per conto e in nome di Dio, è la fine: quando la gente si rende conto che il re è nudo, per il re è finita l’autorità e il prestigio, perché cade nel più grande ridicolo. A questa interrogazione dell’autorità, “cosa hai fatto, come ti ha aperto gli occhi”, risponde l’individuo: ve l’ho già detto e non mi avete ascoltato, perché ve lo debbo dire di nuovo, volete forse diventare anche voi suoi discepoli? Nonostante l’individuo abbia più volte detto che è stato Gesù che gli ha 22 aperto gli occhi, che lui pensa che Gesù sia un profeta, da parte delle autorità non c’è ascolto di questo messaggio.
La denuncia che viene dall’evangelista
E’questa: quando l’autorità è sorda alle istanze del popolo, rende cieca la gente; quando l’autorità non ascolta le esigenze e i bisogni della gente, è chiaro che il suo insegnamento rende il popolo prigioniero, non è un insegnamento di liberazione. E stanco di questo ennesimo interrogatorio, l’uomo guarito rifiuta di rispondere ancora una volta e chiede alle autorità se per caso tanto interesse, sono cinque volte che viene interrogato, derivi dal fatto che anch’essi vogliono diventare discepoli di Gesù. A corto di argomenti, visti inutili i tentativi di fargli smentire la verità del fatto e visti inutili le pressioni per fargli ammettere che per lui sarebbe stato meglio rimanere cieco, piuttosto che recuperare la vista per opera di un peccatore, l’autorità, non avendo più possibilità di replicare, non fa un esame di coscienza, ma passa alla violenza. Violenza verbale prima e violenza istituzionale poi. Infatti il brano continua: “Allora lo insultarono e gli dissero: tu sei suo discepolo, noi siamo i discepoli di Mosè”. Loro sono i discepoli di Mosè e non intendono seguire il vivente, loro sono i difensori e i custodi del passato che hanno terrore di qualunque cosa sia nuova. I difensori del Dio legislatore non possono comprendere e riconoscere le azioni del Dio creatore, perché il Dio creatore non si manifesta nelle leggi, ma si manifesta nella comunicazione di vita.
L’idea del Dio in cui noi crediamo
Questo conflitto, qui siamo proprio al centro, è il conflitto che c’è nelle prime pagine della bibbia e che arriva fino ai vangeli. Noi leggiamo la bibbia come un libro, tutto di un getto, ma la bibbia è un insieme di decine e decine di libri scritti durante secoli, in situazioni diverse e soprattutto da autori diversi, dove normalmente, colui che arriva dopo, cerca di mitigare o addirittura smentire quello che era stato detto in precedenza. Ricordare quell’espressione che abbiamo letto nel libro dell’Esodo: Dio è colui che castiga le colpe dei padri nei figli, fino alla terza e alla quarta generazione. Arriva il profeta Ezechiele e dice di no, ognuno sconta per sé stesso, i figli non sconteranno più il peccato dei padri e i padri non devono pagare le colpe dei figli; ad ognuno il suo. Man mano che passa il tempo, c’è un progresso nella comprensione di Dio. Nella bibbia ci sono due linee molto importanti. Ricordo che è estremamente importante l’idea del Dio in cui noi crediamo, perché dal Dio in cui noi crediamo dipende il nostro atteggiamento e la nostra vita. C’è l’immagine del Dio della creazione (ripreso nel prologo del vangelo di Giovanni) che, innamorato ed entusiasta della sua creazione, comunica vita agli uomini, li aiuta. Ma, quando dopo l’esilio si inaugura una riforma religiosa, viene presentata l’immagine del Dio legislatore, del Dio che emana le leggi e alle quali bisogna obbedire a costo di lasciarci la pelle. Tutta la tensione dell’A.T. è tra queste due immagini di Dio: da una parte il Dio che comunica vita e dall’altra il Dio che la impedisce e la toglie. Gesù prenderà decisamente posizione a favore del Dio creatore, con il quale dice di continuare a collaborare e si metterà contro questa immagine del Dio della legge.
Dicevamo che coloro che credono e sono i difensori di un Dio legislatore, non possono scorgere le azioni del Dio creatore, perché il Dio creatore si manifesta comunicando vita. Queste persone hanno il terrore della vita, perché la vita mette a rischio le loro credenze e le loro sicurezze. Apparentemente animate dallo zelo per l’onore di Dio, (ricordate “dà gloria a Dio”) in realtà, le autorità pensano soltanto a salvaguardare il loro potere e usano, è questo il loro crimine, il nome di Dio per soffocare la vita che Dio stesso comunica.
E questo per Gesù è intollerabile! L’evangelista sottolinea qui la gravità del comportamento di queste autorità, che non solo non vogliono vedere, ma impediscono che la gente veda e per non perdere il proprio prestigio, come denuncia il profeta Isaia, chiamano bene il male e male il bene. In concreto, quella che negli altri vangeli viene chiamata “l’imperdonabile bestemmia allo Spirito”. Cos’è la bestemmia allo Spirito Santo che, dice Gesù, non verrà mai in assoluto perdonata? E’ l’affermare da parte delle autorità, allo scopo di mantenere saldo il proprio prestigio, che ciò che è bene per l’uomo è invece un male, anche se hanno piena coscienza della veridicità del contrario. Non ci vuole un gran titolo di studio per sapere che se uno era cieco e ora ci vede, fosse stato pure un Belzebù a fare quest’opera, per lui è un bene; ma le autorità arrivano a dire che ciò che è evidente sia un bene per l’uomo, ciò che gli dà serenità, è invece un male, per non perdere il proprio potere e il proprio prestigio. Questo, dice Gesù, è il peccato contro lo Spirito.
Questo episodio del peccato contro lo Spirito lo troviamo nel vangelo di Giovanni, ma anche negli altri evangelisti la situazione è la stessa. Gesù, con il suo messaggio, libera e guarisce le persone; si scatena l’allarme a Gerusalemme, scende la commissione degli scribi, cioè i teologi ufficiali, il magistero infallibile dell’epoca, e vede la liberazione che Gesù fa, guarendo una persona. Ma con quell’astuzia raffinata, con quel linguaggio che le persone religiose sanno trovare, dicono, in maniera naturalmente suasiva, alla gente: attenti, perché è vero che Gesù vi guarisce (non lo possono negare, perché prima la persona era inferma e adesso è guarita), ma lo fa in virtù del potere che gli dà “Baal – zebul”, il Belzebù.
Il potere
In quell’epoca si pensava che tutto il “mondo sconosciuto” facesse parte della demonologia. Tra le centinaia di categorie di demoni ai quali credevano vi erano anche gli “zebul”, quelle mosche dal colore verde fosforescente che vivono in campagna, preferibilmente sopra le cacche e comunque sempre nello sporco, trasmettendo di conseguenza sporcizia e malattia. Sempre in ebraico signore si dice “baal”.
Le autorità, pertanto, dicono alla gente: attenti, sembra che vi guarisca, ma in realtà, vi infetta con un male ancora peggiore, perché lui agisce con il potere che gli dà Baal zebul (lo potremmo chiamare “il signore delle malattie, il signore delle infezioni”). Ripeto, non possono negare la realtà, perché se uno era zoppo e adesso salta è sicuramente guarito, ma mettono in allarme la gente: attento, perché sembra una guarigione, ma per te sarà ancora peggio, perché lui, in realtà, ti ha infettato. Perché fanno questo? Perché non possono ammettere che Gesù venga da Dio, perché capiscono che riconoscendo l’autorità di Gesù non potrebbero più dominare la gente, ma dovrebbero mettersi al servizio della gente. Ed è questa la linea teologica portata da Gesù: un Dio che si mette al servizio dell’uomo. Ad esempio: l’episodio dell’obolo della vedova: la vedova che va al tempio e dona quelle due monete, tutto quello che le rimaneva per vivere, al tempio, e Gesù che dice in verità, in verità vi dico… Ecco, attenzione a leggere bene l’episodio, non è un elogio che Gesù fa di questa povera donna, ma un lamento per qualcosa che Gesù non vuole sia fatto.
Perché, il libro del Deuteronomio stabiliva, Dio stesso stabiliva, che con i ricchi proventi del tempio, sapete che il tempio di Gerusalemme era la più grande banca del medioriente, bisognava mantenere le vedove.
Nella bibbia trovate spesso questa associazione di orfani, vedove e stranieri; chi sono? Sono le persone senza alcuna protezione. Una donna, quando diventava vedova, non aveva più un uomo che la difendeva ed era in balia di qualunque sopruso. La vedova, perciò, rappresenta gli emarginati e i deboli della società. Ebbene, Dio stabilisce: con le ricche offerte del tempio dovete mantenere le vedove. Qui succede il contrario; è la vedova che si dissangua per mantenere il tempio, la vedova che dà la sua vita per mantenere in piedi un’istituzione che la opprime. Quindi vedete: non è un elogio che Gesù fa sulla posizione della donna, ma un lamento. Questo, i sacerdoti e le autorità lo capiscono, ma non possono accettare l’insegnamento di Gesù, perché ne va del loro prestigio, perderebbero il dominio sulle persone e verrebbero compromessi i loro affari economici. Ecco perché Gesù dice: chi dice che ciò che fa bene all’uomo è male e lo fa, non per errore, perché gli errori sono perdonati, ma coscientemente allo scopo di non perdere il proprio prestigio, incorre nella bestemmia allo Spirito, una bestemmia che non è perdonabile. Rispose allora l’uomo: (e qui c’è tutta una diatriba che Giovanni mette in bocca all’uomo) da che mondo è mondo non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi ad un cieco nato.
Nella bibbia non si trova mai la guarigione di un cieco. E quest’uomo, che parte dalla propria esperienza dice: se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla. Le autorità che prima erano ricorse alla violenza verbale, dicendo che lui era un discepolo di Gesù e loro, invece, del messia, ora gli replicano: sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi? E lo cacciano fuori. Ricordate che all’inizio del brano i discepoli chiedono a Gesù: chi ha peccato, lui o i suoi genitori per essere cieco? E Gesù esclude categoricamente qualsiasi relazione tra peccato e malattia. Qui, invece, loro danno una sentenza: sei nato tutto nei peccati. Tradotto: sei un maledetto da Dio e vuoi insegnare a noi? Le autorità non hanno nulla da apprendere, loro sono gli insegnanti, è la gente che deve ascoltarli. Ma quando l’ascolto non è reciproco, quando l’autorità non ascolta le istanze e i bisogni della gente, il suo insegnamento, per usare una immagine evangelica, indemonia le persone, cioè le rende impossibilitate ad accogliere il messaggio di Gesù. E lo cacciarono fuori.
L’autorità quando non è capace di imporre ragionamenti, passa alla violenza
Abbiamo appena detto che l’autorità quando non è capace di imporre ragionamenti, passa alla violenza. Lo hanno già fatto. Quando Nicodemo, sempre in questo vangelo, tenta una tiepida e debole difesa di Gesù, dicendo: ma, la nostra legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa? I farisei hanno già deciso di uccidere Gesù e Nicodemo, che è uno di loro, dice che non si può uccidere una persona senza nemmeno averla ascoltata. L’ingenuo Nicodemo non sa che a loro non interessa ascoltare le ragioni di Gesù, ma interessa soltanto la sua eliminazione. Ebbene, insultarono anche Nicodemo dicendo: sei forse anche tu della Galilea?
Scrive Giuseppe Ottavio, uno storico dell’epoca, che l’espressione “galileo” non indicava un abitante della regione del nord, ma significava “testa calda”. Siccome era la regione di tutti i rivoluzionari, di tutti i facinorosi, dire o dare ad una persona del galileo, significava dargli della persona violenta, della persona fanatica, della testa calda. Sei forse anche tu della Galilea? E poi, a un dottore della legge: studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea. Falso, perché nel secondo libro dei re, si parla proprio di un profeta, Giona, che è appunto della Galilea.
Ma l’odio contro Gesù li rende ciechi (ecco ancora la metafora della cecità) e non riescono più a vedere neanche quello che hanno sotto gli occhi. Queste persone dal mattino alla sera non facevano altro che leggere e rileggere il libri sacri e il profeta Giona, il profeta a cui poi è stato attribuito l’omonimo libro, anche se erroneamente, non era un profeta sconosciuto. Ebbene Giona, dice la bibbia, era appunto della Galilea, ma quando l’odio e la violenza si intrecciano, annebbiano il cervello. E del resto, questa violenza verbale l’hanno usata pure con Gesù.
A Gesù diranno: noi diciamo con ragione che sei un samaritano e hai un demonio! Scrive il Talmud, che non c’è insulto peggiore di dare del samaritano ad un altro e chi dà del samaritano ad un altro ebreo è punito con 39 frustate, quindi è il massimo degli insulti. A Gesù danno del samaritano e dell’eretico e del pazzo. Le autorità non sanno quale argomentazione teologica opporre all’evidenza del fatto. Per loro la colpa dell’uomo è di aver recuperato la vista e di volerla mantenere, forse, per far contente le autorità avrebbe dovuto cavarsi gli occhi, così era a posto con Dio e con loro. Ma, i capi religiosi, che scomunicano in nome di Dio, sono in realtà i veri scomunicati da Dio. Infatti Gesù va a recuperare l’uomo guarito, prima che succeda come con l’infermo della piscina che era ritornato nel tempio. Gesù seppe che lo avevano cacciato fuori e incontratolo gli disse: “Tu credi nel Figlio dell’uomo? Ed egli rispose: e chi è Signore perché io creda in Lui? Gli disse Gesù: tu l’hai visto, colui che parla con te è proprio Lui. Ed egli disse: io credo, Signore. E gli si prostrò dinanzi”. L’espulsione dall’istituzione religiosa, non causa alcun danno all’uomo, ma anzi è un grande vantaggio.
La scomunica: cacciato dalla religione trova la fede.
Se vedete nel vangelo, subito dopo Gesù comincia a presentarsi come il pastore. Non il buon pastore, non con l’immagine del ‘pastorello’ con la pecora, perché questa immagine è assente nei vangeli. Gesù dice che lui è il modello, o meglio, l’unico pastore. Abbiamo visto che, in questo brano, più volte è venuto fuori il riferimento alla denuncia di Ezechiele, che i pastori non si curano delle pecore e che Dio stesso prenderà il loro posto. Ecco, allora, che in realtà non è stato l’uomo ad essere espulso dall’istituzione religiosa, ma è l’azione stessa del pastore, che entra nell’ovile e spinge fuori le pecore per fare un unico gregge.
Con Gesù è finita l’epoca degli ovili, per santi che siano, e si forma il gregge, l’unico gregge di quanti lo accolgono e lo accettano. Abbiamo detto che coloro che scomunicano sono in realtà i veri scomunicati e, infatti, Gesù denuncia le autorità religiose con queste parole: io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi. Alcuni dei farisei che erano con lui, udirono queste parole e gli dissero: siamo forse ciechi anche noi? Gesù rispose: se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma siccome dite noi vediamo, il vostro peccato rimane. L’indifferenza al bene degli uomini, unita alla pretesa di essere le loro guide, di indicare loro la strada, li rende colpevoli della loro cecità. Se uno è cieco perché lo hanno accecato le istituzioni religiose, per Gesù è un innocente che va liberato, ma loro che volontariamente accecano le altre persone, sono dei ciechi inguaribili. Gesù li denuncerà, in un altro vangelo, come guide cieche. Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma siccome dite di vedere, siete i veri ciechi. Poi, nell’Apocalisse, troveremo l’invito di Gesù ad acquistare da Lui il collirio per recuperare la vista. Anche per l’autorità c’è una possibilità: il collirio, questa capacità d’amore, consente anche all’istituzione religiosa, anche all’autorità di avere una possibilità di salvezza. Quando? Quando al posto del proprio interesse e prestigio, come prima cosa metterà il bene dell’uomo. Questo episodio termina qui e, insieme col precedente, viene ripreso dall’evangelista Giovanni nella narrazione della resurrezione di Lazzaro.
DOMANDE E INTERVENTI…
Domanda: Parlando dell’istituzione, è possibile rinnovare o bisogna avere il coraggio di creare, oggi? Alberto: Questa domanda mi permette di spiegare meglio alcuni temi. C’è una tensione nei vangeli tra quello a cui Gesù è venuto a dar vita e quella che poi è la tentazione sempre presente negli uomini. Gesù è venuto a dar vita, a comunicare dinamiche animate dallo Spirito. Cosa significa? E’ l’insieme dei credenti che, vivendo questo messaggio, hanno uno Spirito che consente loro di essere dinamici, cioè di rinnovarsi sempre e continuamente in base ai bisogni degli uomini. La tentazione sempre presente, che non è solo religiosa, anche se noi qui stiamo parlando della chiesa, è che quest’ultima, da dinamica comunità animata dallo Spirito, si trasformi in rigida istituzione regolata dalla legge. E’ la tentazione sempre presente. Si parte animati dallo Spirito, generalmente la prima generazione e poi questa esperienza viene codificata e si costringe quelli che vengono dopo ad osservala.
Tutto questo si vede benissimo negli ordini religiosi. C’è stato un fondatore o dei fondatori, che sono stati an\imati dallo Spirito; poi i seguaci sono stati obbligati a non essere più animati dallo Spirito, ma ad osservare quello che aveva detto il fondatore. Allora, la comunità dinamica diventa rigida istituzione. E’ tipico negli istituti, negli ordini religiosi, dove si mortifica la persona perché il fondatore ha detto così! Faccio un esempio, tanto per far comprendere cosa vuol dire essere animati dallo Spirito e cos’è l’istituzione rigida. C’è una congregazione francese dell’ottocento, la cui fondatrice, una donna straordinaria, si era messa al servizio dei poveri e per non umiliarli aveva stabilito che le sue seguaci, le suore, vestissero esattamente come loro. Aveva prescritto che indossassero sempre degli zoccoli di sughero, perché gli zoccoli facevano parte dell’abbigliamento dei poveri delle campagne francesi. Benissimo, animata dallo Spirito capì che non si poteva andare dai poveri e umiliarli con abiti e calzari signorili, bisognava essere come loro. Come diceva Gesù, il servizio dal basso. Bene, queste suore oggi, dopo un secolo, spendono un patrimonio per farsi fare le calzature di sughero. Perché? Per essere fedeli allo spirito della fondatrice! No! Lo spirito della fondatrice non era il sughero, ma era quello di essere a disposizione dei poveri con un abbigliamento che non li mettesse a disagio.
Facciamo un esempio più recente. Teresa di Calcutta, in India, ha capito che era ridicolo andare in giro con l’abito da monaca e si è messa un saio. Benissimo. Le suore di Teresa di Calcutta vengono qui da noi in sari, tanto ridicole quanto potevano esserlo in India vestite da monache; mettiti l’abito della gente normale. Siamo perciò tutti chiamati ad essere comunità dinamiche animate dallo Spirito. Cosa significa? Che di fronte a una nuova situazione, di fronte a nuovi problemi, siamo capaci di strutturarci, perché la struttura naturalmente ci vuole per rispondere al bene della gente. Il guaio sarebbe, quando si è fatta un’esperienza che ci è piaciuta, voler mantenerla sempre uguale. Facciamo un esempio ancora più concreto. Per fare questi incontri ci è voluta l’istituzione, ci è voluta una struttura, ci sono volute persone che si sono messe al servizio di tutti noi. A noi quest’anno, questo orario ci è andato bene; poniamo che il prossimo anno cambino ora solare, o che so io. Cosa faremo? A no, si è sempre fatto così e bisogna continuare in questo modo! Cioè si fa soffrire le persone per sottometterle ad una esperienza del passato. Penso che sia chiaro: comunità dinamica è quella comunità che è capace di rispondere alle nuove esigenze delle persone, esigenze che magari nei libri di teologia o di catechismo non erano state previste in quanto allora non erano attuali. Quando Giovanni ha scritto il vangelo non poteva pensare che oggi c’è Internet; probabilmente, se lo avesse saputo, avrebbe scritto un vangelo differente.
E’ soltanto una battuta sciocca, ma serve a far comprendere come bisogna modificare e il linguaggio, perché spesso è questione di linguaggio, e le modalità, per essere sempre comunità dinamica.

Domanda: Con rispetto parlando, mi sembra che oggi ne hai sparata qualcuna di grossa! Mi hai fatto venire in mente una frase di padre Turoldo, in una intervista televisiva qualche giorno prima di morire. Diceva che Dio ha parlato una volta sola nella storia, attraverso Gesù Cristo. Questo vuol dire che prima non ha mai parlato? Alberto: L’espressione che citavi di Turoldo, (voi sapete, tra l’altro, che siamo dello stesso ordine) è importante.
E’ importante per comprendere anche quello che abbiamo detto. Il prologo, nel vangelo di Giovanni, termina con queste parole: Dio, nessuno lo ha mai visto. Ma come, anche Giovanni la spara un po’ grossa, perché non è vero. Perché Mosè ha visto Dio, Elia, Isaia sono tutti personaggi che hanno visto Dio, c’è scritto! Giovanni dice no, nessuno ha visto Dio! L’unico che lo conosce e ce ne dà la conoscenza, la spiegazione, è Gesù. Cosa vuol dire Giovanni? Che tutte queste visioni, queste conoscenze di Dio, sono tutte limitate, sono tutte incomplete. L’unico che ci fa comprendere chi è Dio, è Gesù. Allora qui, lo sforzo che dobbiamo fare è capire che non è che Gesù è come Dio, ma Dio è come Gesù. Se noi pensiamo che Gesù è come Dio, significa che abbiamo già un’idea di Dio, che già sappiamo chi è Dio; è evidente quindi che non è altro che un’idea della religione, della filosofia. Il vangelo di Giovanni dice il contrario. Non Gesù è come Dio, ma Dio è come Gesù! Perché l’unico che ci fa conoscere Dio è Gesù, nei fatti e nelle parole. Per questo Gesù, rispondendo a Filippo, dice: non hai capito che chi ha visto me ha visto il Padre? Filippo aveva chiesto: facci vedere il Padre e ci basta. Vedendo Gesù si capisce chi è Dio. Perciò Gesù, con quello che ha detto e fatto, modifica le interpretazioni che una certa tradizione religiosa ci può aver presentato di Dio: il Dio che giudica, il Dio che condanna, il Dio che detesta i peccatori. Gesù, invece, non giudica e non condanna, dirige il suo amore proprio ai peccatori e, questo è importante, presenta un Dio che non accetta di essere servito. San Paolo lo chiarirà benissimo: non bisogna servire Dio, di cosa ha bisogno Dio? La grossa novità che ha portato Gesù è proprio quella del Dio che si mette al servizio degli uomini. Perché Gesù, che è manifestazione visibile di Dio, si è messo al servizio degli uomini e chiede collaborazione. Quindi Gesù è la parola di Dio nella storia, tutte le altre parole vengono relativizzate, o meglio vanno comprese alla luce della parola di Gesù. Allora, bisogna conoscere bene Gesù per conoscere bene il Padre. Se la conoscenza di Gesù è limitata, la conoscenza di Dio sarà limitata, se poi la conoscenza di Gesù è addirittura imperfetta, è chiaro che la nostra conoscenza del Padre sarà altrettanto imperfetta.
Domanda: Sono d’accordo con te quando esprimi la latente ipocrisia di chi, rispetto ad una persona che sta male o sta morendo, si ferma alla preghiera. Sono rimasto abbastanza perplesso leggendo un paio di libri di medici e scienziati e leggendo, qualche settimana fa sul Times, di diversi studi ed esperimenti che sono stati fatti su “cavie umane” gravemente ammalate, addirittura di mali incurabili, oggetto di preghiera altrui. Sembra che l’esperimento, sarà propaganda statunitense, abbia dato esito favorevole; di fatto, le persone oggetto di preghiera da parte di gruppi religiosi, o meno, hanno evidenziato miglioramenti effettivamente più rilevanti rispetto agli altri. Ora, è vero che chi vive un’esperienza di fede può essere più facilmente portato a vivere meglio le avversità della vita e quindi a migliorare in caso di patologie, ma addirittura si riscontravano miglioramenti nei casi di persone che non vivevano un’esperienza religiosa e non sapevano di essere oggetto di preghiera altrui. Cosa può essere? L’intervento umano che chiede Dio? Il muovetevi voi? Alberto: A volte uso delle battute che è meglio spiegare, perché possono causare dei malintesi. Quello che viene stigmatizzato è la preghiera “fine a sé stessa” e, se ricordate, dicevo di non chiedere a Dio quello che Dio si aspetta siamo noi a fare. Abbiamo preso altre volte come esempio, e anche questo è tipo battuta, la benedizione della mensa: ti ringraziamo Signore di questo cibo e ti preghiamo di darne a chi non ne ha, buon appetito. E il mio vicino di casa, che non ne ha da mangiare, salta il pasto lo stesso. Non è il Padreterno che, appena avvertito, manda un angioletto a portar da mangiare. La preghiera dovrebbe essere: ti ringrazio Signore per tanta abbondanza, fa che sia capace di essere tanto generoso da condividere con il vicino che non ne ha. Non bisogna chiedere a Dio, quello che Dio si aspetta siamo noi a fare. L’altra cosa negativa, è quella di scaricare o riservare soltanto alla preghiera quell’aiuto che l’altro si aspetta da me. Se so che una persona soffre la solitudine, non basta che io le dica mi dispiace, pregherò per te. Se alla preghiera unisco pure la telefonata, o meglio ancora la visita, questo sarà molto più efficace. La persona che soffre la solitudine e sa che io prego per lei, non so che sollievo possa avere. Quindi la preghiera deve sempre precedere, accompagnare e seguire un’azione. Ma questo non toglie che la preghiera sia efficace, specialmente la preghiera per gli infermi, per gli ammalati. Cosa significa pregare? Pregare non significa altro che aggiungere, addizionare il nostro amore all’amore che già Dio ha per l’individuo e quindi il pregare può portare degli effetti benefici, positivi o sul fisico o sul morale della persona. Quindi non era un invito a non pregare, ma, ripeto, la preghiera deve essere preceduta, accompagnata e seguita da gesti concreti. Pregherò per la persona che è nel bisogno, ma questa mia preghiera si dovrà sempre tradurre in un sollievo del suo bisogno o della sua sofferenza. Il principio generale è questo: non chiediamo mai a Dio quello che Dio si aspetta siamo noi a dover fare, perché altrimenti non ci si incontra.

Domanda: Vorrei avere dei chiarimenti su cos’è la legge. Mi sembra che la legge ne sia venuta fuori con le ossa rotte e credo sia il caso di andare un po’ più a fondo. Sto pensando a Giovanni Battista, quando dice ad Erode non ti è lecito di prendere la moglie di tuo fratello. Allora io domando: a quale legge Giovanni si riferiva? A quella scritta, alla coscienza, ad un fatto esistenziale? Credo ci sia un’esigenza di parametrare un po’ la nostra coscienza. Alberto: Cerchiamo di chiarire meglio questa legge che, come hai detto, è uscita con le ossa rotte. Cosa si intende per legge? Nell’ebraismo per legge o Torà, si intende l’insieme dei primi 5 libri della legge, che determinano nei particolari la vita dell’individuo. Tutto è prescritto, è previsto. Questa è la legge. Come ho detto prima, il popolo di Israele considerava la legge essere stata data una volta per sempre, immutabile e, anche se cambiavano le esigenze e le persone, la legge andava osservata. Si mortifica perciò la gente ad osservare legislazioni e quello che nasce dopo è l’ipocrisia. Sapete che nella legge c’è scritto: Dio dice che in terra di Israele non può essere allevato il maiale, perché il maiale è un animale impuro. Fatta la legge, fatto l’inganno; in Israele ci sono allevamenti di suini, ma tutti posti sopra una pavimentazione di legno, non stanno sopra la terra di Israele. La si butta in ridere, ma serve a far vedere che la legge scritta in altri tempi e il altre culture, obbliga gli uomini a fare dei salti mortali. La novità che ha portato Gesù è quella che dicevamo prima, non l’uomo deve avere rispetto per la legge, ma la legge deve essere a dimensione d’uomo. Norme e ordinamenti naturalmente servono, ma devono servire per favorire la vita dell’uomo. Quando una legge va contro l’uomo, Gesù dice di non seguirla, anche se è una legge di Dio. In nome della legge di Dio si afferma di uccidere le persone che trasgrediscono il sabato, in nome di questa legge Dio dice di uccidere il nemico del popolo. Non so se avete visto il processo per l’uccisione del premier israeliano: l’imputato ha ucciso seguendo un precetto della legge. Dice la legge: ucciderai colui che mette in pericolo l’esistenza del mio popolo. Allora, la legge, se osservata, produce danno e produce morte. Gesù dice di no, non è che Dio abbia determinato la legge una volta per sempre. Se le situazioni cambiano, gli uomini non devono essere costretti ad osservare comunque la legge. Gesù, come lo definisce Matteo, è il Dio con noi. E’ il Dio all’interno della comunità che, man mano che le situazioni mutano, darà ordinamenti o norme di comportamento adatte ed attuali. Quando ti riferivi a Giovanni Battista, attenzione, ciò che rimprovera il Battista ad Erode non è il divorzio e nemmeno la poligamia. Giovanni non rimprovera Erode di essersi preso un’altra moglie oltre quelle che già aveva, non gli rimprovera il divorzio, ma di essersi preso la moglie del proprio fratello: Il libro del levitico infatti dice: non sposerai la moglie di tuo fratello. Anche il fatto di Giovanni Battista va inquadrato nella cultura dell’epoca; Erode ha peccato non perché si è preso una moglie in più e non perché si è preso una divorziata, ma perché era la moglie del proprio fratello e la legge lo proibiva. Allora, alla luce di tutto questo, qual è il significato? Le leggi vanno bene anche all’interno delle comunità dei credenti, (più che leggi è meglio chiamarle norme) fin tanto che favoriscono il bene dell’uomo; ma quando una norma o una legge impedisce il bene dell’uomo va abbandonata, va eliminata.

Domanda: Volevo un chiarimento su quanto riguarda la figura di Dio Padre e il concetto di Dio sacrificatore, cioè come queste due figure si incanalano nella nostra quotidianità. Quando viviamo un’esperienza di dolore, di abbandono, ci rivolgiamo a Dio Padre o al Dio sacrificatore? Ma se lo possiamo chiamare Dio Padre, allora la sua opera creativa in qualche modo agisce anche in quelle esperienze di dolore, o no? Alberto: Tratteremo meglio questo argomento, con l’episodio di Lazzaro. Sapete che le sorelle mandano ad avvertire Gesù “Lazzaro è ammalato”, ma Gesù non si muove e aspetta che Lazzaro sia morto. Tant’è vero che quando arriva, viene investito da Marta che gli dice: Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. Approfondiremo questa tematica di un Dio che chiamiamo Padre e quella che è la sofferenza, il male dell’umanità, specialmente la malattia. Chi di noi, oggi, non conosce o non ha a cuore persone che soffrono, che magari sono ad uno stadio terminale. Domani interverremo in maniera specifica, quello che possiamo dire ora è che mai le malattie fanno parte del processo di crescita dell’umanità, ma che è compito dell’uomo, in maniera progressiva, ma continua ed attiva, estirparle. Se tutte le energie che noi, come umanità e come comunità, investiamo per distruggere, fossero poste per vivificare, tante persone che ora soffrono, probabilmente, non sarebbero nella sofferenza. Pensate a tutti gli investimenti che destiniamo a produrre morte; sapete che l’Italia è tra le prime produttrici al mondo di mine anti uomo, il desainer italiano è infallibile, come squarciare le mine italiane… Ebbene, a volte noi preghiamo perché smetta la guerra qui, perché smetta la guerra là; ma siamo sicuri di volerlo? Perché se smettono le guerre vendiamo meno armi e l’Italia è una delle prime venditrici mondiali di armi. Siamo disposti ad abbassare il nostro tenore di vita, perché nel mondo ci sia pace? Siamo disposti? Beh, ogni tanto una guerra, in fondo lavora anche chi produce missili, chi produce bombe… Naturalmente non sono mica assassini quelli che lavorano in una fabbrica di armi, però, di fatto producono cose che distruggono. Questo esempio, banale se volete, può essere illuminante. L’umanità è chiamata, abbiamo visto il racconto del Genesi, alla totale armonia tra l’uomo e il creato. Non ci sono malattie incurabili, c’è soltanto il progresso della scienza; ma la scienza è interessata al bene dell’uomo? Tempo fa, il direttore di una delle maggiori compagnie di assicurazioni statunitense diceva, in un’intervista, che per loro sarebbe un’autentica sciagura una cura contro il cancro, perché se si trova un rimedio al cancro, gli anziani non muoiono più e chissà quanto devono pagare ancora per pensioni ed assicurazioni. Quindi non è fantascientifico pensare che ci sono degli interessi che ostacolano il benessere della gente in virtù del proprio prestigio. Qui ci sono dei medici, escludiamo tutti i presenti, ma il Talmud dice che per i medici non c’è nessuna salvezza, vengono considerati un’associazione a delinquere. Ve lo dico perché è una confidenza che mi hanno fatto parecchi medici, parlando dei loro colleghi, che prescrivono delle medicine inutili e nocive, perché se arrivano ad una determinata vendita del prodotto viene loro assicurato un premio o un viaggio. Vi meravigliate? Non è una novità! Quando il dio al quale si rende culto è il dio del denaro, è il dio del successo, ecco la sofferenza dell’umanità. Quando il Dio al quale si rende culto è il Padre vivificante, ecco che ci può essere il progresso. E’ una scelta, una scelta nella quale tutti quanti siamo coinvolti. Noi ci 29 commuoviamo per le immagini di sofferenza, della fame, ma la domanda che ci dobbiamo porre è se siamo disponibili ad avere di meno, affinché altri abbiano di più. Noi in Italia stiamo bene, perché in altre parti del mondo stanno male! Se vogliamo che gli altri stiano un po’ bene, noi dobbiamo stare un po’ meno bene. Siamo disposti? Io non lo so, perché quando si tocca il portafoglio… Lo ricordate, lo abbiamo fatto trattando il vangelo di Luca, la prova della fede si vede dal portafoglio e non se c’è un santino di sant’Antonio o santa Rita. Se dopo l’incontro con Gesù il portafoglio si è alleggerito, nel senso che avete condiviso con gli altri, allora c’è la fede. Luca, negli atti degli apostoli, dice: “I primi cristiani rendevano testimonianza con grande forza alla resurrezione di Cristo. Come? Nessuno tra di loro era bisognoso”.

Domanda: La domanda riguarda quello che è stato detto questa mattina; abbiamo dei malati cronici, abbiamo il peccato quale causa della malattia e abbiamo la volontà di questi malati di essere guariti da Gesù. L’adesione dell’uomo al progetto di Dio su di lui è sempre una propria volontà. Sembra impossibile che l’uomo, spesso, non sappia approfittare dell’opportunità di “guarire” che gli viene offerta da Gesù e, anziché aderire volontariamente alla sua proposta, preferisce rimanere ancorato a quanto lo rende cieco e zoppo. Alberto: Queste infermità, è abbastanza chiaro, non riguardano tanto le infermità fisiche dell’individuo che Gesù può o no aver guarito, ma l’evangelista nelle infermità di questi individui, ci rappresenta la situazione del popolo. Abbiamo visto, nella prima parte, che il popolo dominato dalla legge è cieco, zoppo, quindi escluso dal tempio, e rinsecchito. Questo è l’effetto della legge e questo popolo non ha più speranza di salvezza. Gesù lo stimola, ma è tanto forte la tradizione religiosa, che una volta guarito ritorna al tempio. Ricordate il vangelo di Luca, Gesù dopo la resurrezione prende i suoi e li spinge da Gerusalemme verso Betania. Gerusalemme rappresenta l’istituzione religiosa. Gesù li vuol far uscire dall’istituzione, ma scrive l’evangelista: tornarono poi a Gerusalemme, tutti contenti, nel tempio a lodare Dio. Una maniera per dire: non avevano capito niente. Ritornano a quel tempio che Gesù ha detto non è casa di Dio, ma una spelonca, una caverna di banditi. Ebbene, è tanto forte la tradizione religiosa che abbiamo nel sangue, che abbandonarla non è un processo radicale, istantaneo, ma continuo e progressivo e per il quale ci vuole tempo. Per tanto tempo abbiamo ritenuto sacre cose che poi sappiamo non lo erano, ma da qui, ad abbandonarle ci vuole del tempo. Ecco perché l’uomo guarito tenta di ritornare nel tempio, ecco perché i discepoli di Gesù, che Lui ha condotto fuori di Gerusalemme, poi vi ritornano ed entrano nel tempio. E’ il fascino della religione, è il fascino dell’istituzione religiosa, con tutte le sue opere, con tutte le sue liturgie e soprattutto con il suo porsi da mediatrice tra l’uomo e Dio, mediazione che Gesù ha voluto eliminare. L’episodio del cieco, che completeremo oggi pomeriggio, anche se analogo, è sostanzialmente diverso in quanto Gesù, prima che ritorni al tempio, lo va a cercare, lo va ad afferrare.
Le resurrezioni
Nei vangeli si narrano “solo” (metto il solo tra virgolette) tre resurrezioni. Due di personaggi anonimi: la figlia di Giàiro, in tre vangeli; il figlio della vedova di Nain, nel vangelo di Luca. L’unico resuscitato che ha un nome è il protagonista della narrazione, che è Lazzaro, il cui racconto si trova soltanto nel vangelo di Giovanni. E’ interessante la scelta che ha fatto la chiesa di questi tre casi, perché la figlia di Giàiro muore in casa ed è resuscitata in casa, il figlio della vedova di Nain è resuscitato durante il funerale, Lazzaro è resuscitato nel sepolcro. Notate questa progressione: la casa, il funerale, la tomba. Solo tre resurrezioni quindi, ma in realtà ve ne è un’altra così imbarazzante, ma talmente imbarazzante, che viene di fatto censurata. Qui non ho il tempo, ma normalmente faccio una prova, con piccoli gruppi, e chiedo loro se sono al corrente di questa resurrezione. Fino ad ora, in nessun gruppo ho trovato qualcuno che sia al corrente di questa resurrezione collettiva. Quando chiedo se nei vangeli c’è una resurrezione di massa, nessuno me lo sa dire; perché? E’ un episodio talmente assurdo che, normalmente, andate a vedere i vari 30 commenti, viene trattato con imbarazzo dal traduttore e dal commentatore e neanche si sente nelle prediche.
La morte di Gesù
Ma, nel vangelo di Matteo, la morte di Gesù viene così descritta al capitolo 27, versetti 50-: Gesù, emesso un alto grido, spirò ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono. Questo è risaputo, questo lo abbiamo sentito tantissime volte. Ma, continua: i sepolcri si aprirono (attenzione alla successione degli eventi) e molti corpi di santi morti resuscitarono e uscendo dai sepolcri, dopo la resurrezione di Gesù, entrarono nella città santa e apparvero a molti.
Anzitutto notate l’incongruenza: muore Gesù, si aprono i sepolcri, quindi la tomba che si apre, e i morti resuscitano, ma non escono, è venerdì santo e loro aspettano la domenica di Pasqua per uscire. E’ strano! Una narrazione logica vorrebbe che i sepolcri si aprissero e che i corpi dei santi morti resuscitassero e entrassero nella santa città. Invece dice: e uscendo dai sepolcri dopo la sua resurrezione. E tutto questo periodo di tempo cosa hanno fatto? Hanno preso aria per rianimarsi, per ricomporsi?
Pensate poi che incongruenza, entrarono nella città santa e apparvero a molti. E’ molto strano, perché le cronache laiche, civili non ne danno notizia, eppure non è la resurrezione di una persona, qui è un intero cimitero che si è scoperchiato, non so con quanta contentezza dei parenti, ma comunque si narra che questi ritornano in città vivi e resuscitati. Allora? Tutti i commentatori che trattano, ripeto con estremo imbarazzo, questo episodio ammettono che si tratta di una maniera simbolica per indicare che Gesù estende la sua resurrezione anche a quanti sono morti prima di Lui. Nessun commentatore pensa veramente che si sono aperti i sepolcri e che siano usciti gli scheletrini rianimati e siano apparsi in città. E’ una maniera figurata, teologica, per dire che Gesù non è resuscitato da solo, ma ha esteso la possibilità di questa vita indistruttibile anche a tutti coloro che erano morti prima di lui. Anche le altre resurrezioni, che abbiamo citato prima, sono piene di incongruenze. LA
RESURREZIONE DELLA FIGLIA DI GIÀIRO.
Quest’ultima è morta e, come sapete, in oriente c’era e ancora c’è l’uso di pagare le cosiddette “piagnone”, che sono donne specializzate nel pianto lamentoso, nel lamento funebre. L’evangelista, appunto, racconta che la ragazza è morta e la stanza funebre è piena di trambusto e di gente che piange e urla. Quindi non è un fatto misterioso. Bene, resuscitata la ragazza Gesù si raccomanda, cito testualmente, con insistenza che nessuno venisse a saperlo. Non è possibile, non è possibile! C’è un morto e tutto il paese lo sa, ci sono addirittura le esperte del mestiere che hanno fatto il lamento funebre, Gesù resuscita la ragazza e dà un ordine assurdo, incongruente: dice: che nessuno lo sappia. .
Non è possibile, non è un quadro che si può nascondere, non è mica una cosa di tutti i giorni che un morto resusciti e la morte della ragazza è risaputa, perché già hanno fatto il lamento funebre; perché mai Gesù ordina, raccomanda con insistenza di non farlo sapere a nessuno. Non è possibile occultare un fatto del genere, la resurrezione di una persona. Il nome della fanciulla, tra l’altro, è un nome che ci fa capire tante cose, ed è strano che gli evangelisti, che sono sempre parchi di particolari, scrivano che il padre della fanciulla si chiama Gia-iro, che è composto da due parole ebraiche “Jah”=“Jahvè” e ”ir”=“resuscita”, Dio resuscita. Già il nome del padre della ragazza è, quindi, tutto un programma.
Le resurrezioni: un fatto storico o un fatto vero?
Allora, ci chiediamo: queste resurrezioni sono un fatto storico o un fatto vero? Questo quesito è importante per comprendere, altrimenti rischiamo di arrampicarci sugli specchi. Sapete che Giovanni Crisostomo, un grande predicatore, un padre della chiesa straordinario, stava predicando appunto della resurrezione della figlia di Giàiro e magnificava Gesù, la tenerezza di Gesù, la sua misericordia per un padre disperato per la morte della figlia, quando viene interrotto da un padre che gli dice: e la mia, perché non l’ha resuscitata?
La risposta fu: attento, perché la 31 figlia di Giàiro è stata resuscitata, però dopo un po’ è morta di nuovo, quindi il padre ha sofferto di nuovo, invece la tua, quando te la resusciterà, la resusciterà per sempre, quindi non devi invidiare Giàiro, ma sarebbe Giàiro a dover invidiare la tua posizione. Folle! Queste resurrezioni sono fatti storici, o fatti veri? E’ una domanda che da noi in occidente ci lascia perplessi, perché per noi una cosa non può essere vera se non è storica, ma non è così, perché un fatto può essere vero senza che sia necessariamente storico. Faccio un esempio, ormai classico, per comprendere. C’è un quadro che raffigura Abraham Lincoln, presidente degli Stati Uniti, che spezza le catene di uno schiavo. Allora, il fatto raffigurato è vero o è storico? Storico no, perché mai Lincoln è andato da uno schiavo negro e gli ha spezzato le catene, ma di fatto ha abolito la schiavitù. Pertanto questa immagine che rappresenta l’abolizione della schiavitù da parte del presidente Lincoln e che l’artista ha rappresentato in maniera molto incisiva con la figura del bianco che spezza le catene del nero, non è un fatto storico, perché storicamente non è mai successo, ma è un fatto vero, è una verità profonda. Ripeto, è una materia delicata, perché questo ci può sconcertare, ma abbiamo visto questa mattina che non abbiamo la certezza neanche di una parola di Gesù riportata esattamente come Lui l’ha pronunziata e nemmeno di un episodio.
Perché? Agli evangelisti non interessa la storicità di un episodio, ma la verità che questo episodio rappresenta e questo spiega tutte le incongruenze che troviamo nei vangeli. Nello stesso episodio Gesù guarisce un cieco in un vangelo e in un altro vangelo vediamo che sono due, ma è lo stesso episodio. E’ la verità teologica quello che importa. Il vangelo di Lazzaro è un vangelo, ve lo dico ora, molto, molto difficile, ma anche molto, molto bello e che può cambiarci e donarci piena serenità nei confronti della nostra morte, come di quella dei nostri cari. Ecco, ricordiamo e pensiamo un po’ a questa distinzione tra ciò che è vero e ciò che è storico, perché quando leggiamo un vangelo dobbiamo sempre distinguere quello che l’evangelista dice, da come lo dice.
Quello che l’evangelista ci vuol dire si chiama “parola di Dio”, perché è una verità valida per sempre. Come lo dice? Usa la cultura dell’epoca, usa proprie immagini. Un esempio, così comprendiamo, sulla differenza tra quello che si vuole dire e il come lo si dice, perché altrimenti, rischiamo di confondere e tradiamo il senso del vangelo. Scrive Marco che Gesù, resuscitato, è salito al cielo e siede alla destra del Padre. Quello che l’evangelista vuol dire è: quell’uomo, che voi autorità avete condannato a morte come bestemmiatore, in realtà aveva la condizione divina, era Dio, quindi siete voi eretici e bestemmiatori. Questo è quello che l’evangelista voleva dire. Come lo dice? Lo dice usando immagini della cultura dell’epoca.
A quell’epoca, nel trono del re, accanto, alla destra, c’era un tronetto dove stava la persona che aveva la stessa dignità reale. Ecco, allora, che l’evangelista scrive è salito al cielo e siede alla destra di Dio. Nessuno di noi, credo, immagina che Gesù, da quando è resuscitato, stia seduto alla destra di Dio; è una maniera figurata, quindi non è storica, ma è vera, per indicarci la condizione divina di Gesù. Ecco, vi vedo abbastanza perplessi. Non vi meravigliate è normale la perplessità, ma tenete sempre presente questa distinzione quando leggete i vangeli: ogni volta che si legge un vangelo chiediamoci quello che l’evangelista vuol dire, da come lo dice. Quello che vuol dire è valido per noi oggi, il come fa parte della culture e delle immagini dell’epoca.
LA RESURREZIONE DI LAZZARO
Capitolo 11 del vangelo di Giovanni: vi do subito alcune indicazioni per poter comprendere questo testo, che è un testo difficile, o meglio, sembra di facile comprensione, ma è difficile assimilarlo.
Dal livello intellettuale al livello esistenziale, affettivo
Ricordate che dicevamo che abbiamo delle tradizioni religiose talmente connaturate con il nostro modo di pensare, che un’immagine diversa è difficile da accettare. Quindi serenità, se qualche immagine può scombussolare un po’ quelle che noi abbiamo già. Io, che sono particolarmente zuccone, ci ho messo tra i cinque e i sette anni per capire questo brano! Perché l’avevo capito dal punto di vista del testo, intellettualmente, ma prima di passarlo dal livello 32 intellettuale al livello esistenziale, affettivo, ci ho messo circa cinque anni. Quindi non pretendo che in un incontro di una mattinata venga digerito.
E’ una proposta di lettura e di interpretazione, rigorosamente scientifica e posta con un linguaggio accessibile. Lo dico perché molti non lo sanno: nelle Marche, a Monte Fano, abbiamo dato vita a un centro studi della bibbia. Cosa vuol essere? Vuol essere un posto dove si raccoglie e si studia a livello scientifico, ma poi si divulga a livello popolare. Perché le cose che abbiamo detto in questi giorni e che magari ci sembrano tante novità, non sono delle novità, perché sono ricerche e studi già fatti e approvati dalle alte gerarchie da anni, però, non arrivano alla gente perché manca questo anello di congiunzione. C’è questa disparità nella chiesa, nel mondo cristiano: c’è una piccola parte che, come dice Gesù, detiene le chiavi della scienza, per cui si aggiorna continuamente, conosce sempre le ultime novità, gli ultimi studi della bibbia, mentre la gran parte della gente, a cui non arrivano queste novità importanti per la comprensione della bibbia, rimane affamata. Allora, noi abbiamo pensato di diventare questo anello di congiunzione e di abbinare il lavoro scientifico alla divulgazione a tutti, con un linguaggio accessibile e facile. Iniziamo la lettura e vedremo come lo stesso evangelista ci accompagna dandoci delle chiavi di lettura per quella che io vi propongo come retta comprensione dell’episodio. Scrive l’evangelista: era allora malato un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. Questo nome, Lazzaro, come tutti i nomi ebraici è un nome composto, dove la prima parte riguarda il nome di Dio e significa “Dio aiuta”. Nel versetto 2, Giovanni scrive: Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato.
Collegamento con la morte e resurrezione di Gesù
Questa è la prima incongruenza che troviamo nella narrazione, perché l’episodio di Maria che unge Gesù, si trova al capitolo dopo. Qui siamo al capitolo 11, mentre l’unzione di Betània viene descritta al capitolo 12. Perché l’evangelista ci anticipa fin d’ora questo personaggio? Perché lo stile di tutti gli evangelisti è quello di non parlare mai di morte senza accennare alla resurrezione e qui Giovanni collega subito l’episodio con la morte e resurrezione di Gesù. Che cosa si racconta nell’episodio dell’unzione di Betània?
Si narra che Maria cosparge Gesù di un profumo costosissimo, tant’è vero che Giuda dice: non lo si poteva vendere e ricavarne 300 denari? La paga giornaliera di un operaio era di un denaro, quindi quasi un anno di salario di un operaio. Nel brano si legge che questo profumo aveva invaso tutta la casa e Gesù dice: ricordatevi di questo profumo nel giorno della mia morte. Invece, alla morte di Gesù, Nicodemo compra 50 chili di aromi e di balsami per imbalsamare Gesù; si sono dimenticati del profumo che è il simbolo della vita. Mentre la morte puzza, la vita profuma e questo profumo era il simbolo di una vita capace di superare la morte. Ma non hanno ascoltato le parole di Gesù, se le sono dimenticate e hanno comprato dei balsami per ritardare il più possibile la corruzione.
Il discepolo anonimo
Ritorniamo all’episodio di Lazzaro. Le sorelle mandarono dunque a dirgli: Signore, ecco, il tuo amico è ammalato”. L’espressione “tuo amico”, letteralmente colui che tu ami, è un’espressione che nel vangelo di Giovanni richiama sempre al discepolo anonimo, non il discepolo prediletto, come a volte si dice. Ricordate, lo abbiamo già detto, che quando un personaggio è anonimo significa che al di là del suo spessore storico è un personaggio rappresentativo. Gesù non ha discepoli prediletti. Ma vi è un discepolo nei vangeli che è rigorosamente anonimo.
E’ il discepolo che per primo segue Gesù, gli è sempre intimo, nella cena e nella croce, ed è il primo a percepirne la presenza alla resurrezione, ma non ha nome. Una tradizione passata, poi, lo ha voluto battezzare e gli ha messo il nome di Giovanni. Ma anche qui, che si chiamasse Giovanni o Pippo, è la stessa cosa. Non ha nome perché non è un personaggio storico da identificare, ma sta a rappresentare il modello di discepolo. In questo brano, pertanto, Lazzaro viene definito quale discepolo perfetto e rappresenta tutti quelli che accolgono Gesù e il suo messaggio, mostrando in sé gli effetti derivanti da tale accoglienza. Ecco allora il significato dell’espressione “tuo amico”. 33 Nella morte di Lazzaro si manifesterà visibilmente quella qualità di vita che, Gesù assicura, hanno (non che avranno) quanti gli danno adesione.
Precisazioni
Notate ora al versetto 5 e 6, che incongruenza narrativa. Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro, che era un discepolo perfetto. Premesso questo e sentito che era malato, la logica narrativa vorrebbe che Gesù si fosse precipitato dall’infermo! Invece, notate che stranezza, il testo dice: si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava. Da una parte si dice che Gesù amava tanto non solo Lazzaro, ma pure le sorelle Marta e Maria, ma, pur sapendo che Lazzaro è ammalato gravemente, anziché precipitarsi da lui, come avrebbe dovuto fare una persona che è legata affettivamente, si trattiene appositamente nel luogo dove si trovava per due giorni ancora. Infatti, continua l’evangelista: “Venne dunque Gesù e trovò Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro”.
Quindi Gesù non si è precipitato, anzi ha ritardato la sua venuta e, quando arriva, Lazzaro è morto già da quattro giorni. Abbiamo visto che ogni precisazione nei vangeli ha un suo significato; in questo caso perché quattro giorni? Sta a significare che la morte ormai è definitiva. Infatti nella credenza ebraica, si pensava che per tre giorni l’anima stesse accanto al cadavere, poi, quando non si riconosceva più il volto del defunto, perché era già iniziato il
Ricordo, che nel vangelo di Giovanni l’espressione giudei non indica mai appartenenti al popolo, ma sempre la classe dirigente, quindi le autorità, i capi. E’ strano questo passo, perché abbiamo visto nel capitolo che le autorità avevano deciso che Gesù era un bestemmiatore e scomunicato e andava perciò messo a morte. Qui abbiamo dei personaggi che rappresentano una comunità di discepoli che hanno dato adesione a Gesù, ma non hanno rotto con la tradizione del passato, non hanno rotto con l’istituzione e mantengono ancora un rapporto con l’autorità. Questo è strano, perché poi vedremo che l’autorità non perseguita solo Gesù, ma tutti i discepoli. Era una comunità dunque che dipendeva ancora dalle tradizioni del passato e questo è importante per comprendere la reazione successiva.
Le difficoltà del cambiamento
In questi giorni dicevamo che non è facile cambiare, perché certe cose le abbiamo ormai nel sangue, le abbiamo succhiate con il latte materno, le abbiamo considerate sacre per tanto tempo e, all’improvviso, incontrarci con il messaggio di Gesù e vedere che non solo non sono sacre, ma sono di ostacolo, disorienta e non è facile separarcene, ci vuole del tempo. Le visite per le condoglianze, nella cultura ebraica, duravano sette giorni. Erano già quattro giorni che Lazzaro era morto e le autorità si recano nella casa del dolore, per fare le condoglianze. Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro.
E’ importante ed interessante notare come, in tutta la narrazione, Gesù non mette piede nella casa del lutto. Nella casa dove c’è il lamento funebre, dove c’è la condoglianza, Gesù non mette piede. E Marta disse a Gesù: “Signore se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”. E’ il rimprovero, il rimprovero che viene normale di fronte a un Dio che è assente nei momenti di difficoltà. E Marta lo rimprovera: ti avevamo mandato a dire che Lazzaro era malato, hai ritardato apposta, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto. Incolpa Gesù della morte del fratello.

Una comunità che ha accolto Gesù e il suo messaggio
E guardate che qui Giovanni vuole riassumere quella che è l’esperienza del credente di fronte alle situazioni tragiche, quando ci si chiede: Dio dove sei, Dio dov’è? Però Marta aggiunge: ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà. Ecco la prima difficoltà. Si parla di una comunità che ha accolto Gesù e il suo messaggio, Lazzaro è un discepolo perfetto, ma ancora dipende dalla tradizione religiosa che è difficile da estirpare, infatti l’evangelista ci dice che i giudei vanno a far visita ai parenti. Marta si rivolge a Gesù dicendo: so che qualunque cosa “chiederai” a Dio… Il verbo chiedere in greco, ha due forme. Una è la richiesta di un inferiore ad un superiore e l’altra esprime una richiesta tra due pari. Qui l’espressione che l’evangelista mette in bocca a Marta è la richiesta di un inferiore ad un superiore.
Ecco la tradizione religiosa del passato che impedisce a Marta di comprendere chi è Gesù. Lei non vede Gesù quale manifestazione visibile di Dio, ma Gesù come un profeta, un santo, un messia, ma comunque uno che è inferiore a Dio. E Gesù le rispose: “Tuo fratello resusciterà”. E si becca subito una rispostaccia da parte di Marta: “So che resusciterà nell’ultimo giorno”. Marta si aspettava che Gesù dicesse io resusciterò adesso tuo fratello. E quando sente che Gesù le dice “tuo fratello resusciterà”, sai che consolazione! Sapere che il morto resusciterà nell’ultimo giorno, come dice Marta, non solo non è causa di consolazione, ma rischia di gettare una persona nella disperazione. Marta pensa: “Resusciterà nell’ultimo giorno, ma per quel tempo sarò anch’io morta stecchita e già resuscitata, a me manca adesso mio fratello.
Tu mi vieni a consolare dicendo che resusciterà alla fine dei tempi, ma questo mi causa disperazione”. Se a noi muore una persona cara e per consolarci ci dicono, “non essere nel dolore, perché tanto resusciterà”, questo ci getta nella disperazione. Perché quando resusciterà questa persona cara che ci è morta, saremo anche noi già morti e resuscitati.
La tematica della morte e resurrezione
Nel vangelo di Giovanni, l’ultimo giorno non si associa all’ultimo giorno della fine dei tempi. A quell’epoca si credeva che una persona moriva, scendeva nella caverna sotterranea e poi, alla fine dei tempi, un’ipotetica data lontana, i giusti, ma soltanto loro, sarebbero tornati in vita. Questo era l’ultimo giorno. Nel vangelo di Giovanni si trovano spesso le espressioni “l’ultimo giorno”, “il secondo giorno”, “il terzo giorno”, “il giorno dopo”, tutto cadenzato secondo una settimana. In questo modo Giovanni vuole riprodurre, tale e quale, la settimana della creazione. L’ultimo giorno è la morte di Gesù. Conoscete la frase che dice Gesù morendo, l’ultima parola che dice sulla croce: “E’ terminato, è compiuto”. Cosa? L’uomo, la creazione dell’uomo, quell’uomo che è capace di dare soltanto risposte d’amore, con Gesù sulla croce, è terminata.
Perciò, l’ultimo giorno, nel vangelo di Giovanni, non indica mai la fine dei tempi, ma è sempre il giorno della morte di Gesù, giorno in cui si inaugura un’umanità nuova. Allora Gesù dice: “Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?”. Ricordate ieri, quando abbiamo visto il cieco nato che dice “io sono”, che è la stessa espressione usata da Dio. A Marta, che invita Gesù a chiedere a Dio come a qualcuno che è superiore, Gesù riafferma che Lui stesso è Dio, “Io sono”.
Non è un’affermazione di esistenza, ma l’affermazione della condizione di pienezza divina che è presente in Gesù. Io sono la resurrezione, perché sono la vita. Quindi Gesù non pone la resurrezione alla fine dei tempi, ma la mette con la sua esistenza. E poi queste due espressioni che riguardano due atteggiamenti nei confronti della morte: ”Chi crede in me, anche se muore vivrà”. Alla comunità che vede gli effetti distruttivi della morte in un suo componente e quindi ne vede il cadavere, Gesù dice: se questa persona che adesso è morta mi ha dato adesione (ha dato adesione a Gesù e al suo messaggio) anche se è morta, anche se voi vedete un cadavere, credete che continua a vivere. Non è una speranza che Gesù accende, ma una certezza.
La vita eterna nei vangeli e specialmente nel vangelo di Giovanni, non è un premio che riguarda il futuro di una persona, ma una condizione che riguarda il suo presente. Gesù non resuscita dalla morte, ma dona una vita indistruttibile, capace di superare la morte. Nel primo aspetto, Gesù dice a noi che vediamo qui un morto: se questa persona mi ha dato adesione, anche se lo vedete cadavere, continua ad esistere.
La parte biologica, naturalmente, si decompone, ma la persona continua ad esistere. Nel secondo aspetto parla ai viventi, quindi a noi: chiunque vive (noi) e crede in me (dare adesione) non morirà mai. Cioè chi vive e ha dato adesione a Gesù non farà l’esperienza della morte, perché già ha in sé una vita indistruttibile. Noi vediamo che, con il passare degli anni, il nostro corpo diventa decrepito, ma anche se noi ci esprimiamo e abbiamo bisogno di questo corpo, noi non siamo questa parte biologica. Verrà un giorno in cui tutta la parte biologica del nostro corpo avrà termine, ma non noi. Quindi Gesù ci assicura: chi vive e mi ha dato adesione, non avrà la vita eterna, ha già una vita indistruttibile che è capace di superare la morte.
Allora, l’ho appena detto e ritorno a sottolinearlo, Gesù non resuscita i morti, ma comunica ai viventi una vita capace di superare la morte. Questa affermazione era talmente ovvia, talmente palese nella comunità cristiana, che Paolo, nelle sue lettere, quando parla della resurrezione non la figura mai come una condizione dopo la morte, futura, ma una realtà presente. Cito soltanto tre brani dalle sue lettere. Nella lettera agli Efesini scrive: con lui ci ha anche resuscitati. Non dice ci resusciterà, noi siamo già resuscitati, perché la resurrezione è la capacità di vivere dopo la morte e noi l’abbiamo già. Abbiamo una vita che, essendo a somiglianza di quella di Dio, divina, è capace di superare la morte. E continua: ci ha fatto sedere nei cieli in Cristo Gesù. “I cieli” significano la sfera divina. Noi siamo già con Dio e con Gesù nella vita definitiva. Nella Lettera ai Colossesi ha queste due espressioni: con Lui, infatti, siete stati sepolti insieme nel battesimo (il battesimo significa il cambio di vita con l’accettazione di Gesù e del suo messaggio), in Lui siete stati insieme resuscitati. Non dice resusciterete, siamo già resuscitati. Addirittura, sempre nella lettera ai Colossesi, dice: se dunque siete risorti in Cristo. Vedete, la resurrezione non viene mai presentata al futuro, ma è una realtà presente.
La comunità dei credenti è una comunità di risorti.
In questo brano, l’evangelista ci vuol presentare il cambio dell’idea di morte e di resurrezione che Gesù ha proposto alla sua comunità. Naturalmente, questo dono della vita di Dio diventa operativo ed efficace nell’uomo, quando l’uomo lo traduce in gesti concreti che lo manifestano. Quindi il perdono, la misericordia e la condivisione o, come dice Paolo nella lettera ai Galati: se viviamo dello Spirito (cioè di questa vita indistruttibile) camminiamo nello Spirito. E Marta dice: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il messia, il figlio di Dio che deve venire nel mondo. E andò a chiamare la sorella”. Gesù, sottolinea l’evangelista, non era entrato nel villaggio. Versetto 31: “Allora i giudei che erano in casa con lei a consolarla, quando videro Maria alzarsi in fretta ed uscire, la seguirono pensando: “Va al sepolcro a piangere là”.
I giudei, che sono sempre presentati in maniera forse caricaturale, ma negativa, sono i cultori della morte, il loro pensiero fisso è soltanto la morte. Vedendo Maria che si alza, il loro pensiero è un pensiero di morte: va alla tomba a piangere. L’unica reazione che attendono costoro è il pianto, mentre Maria non va a trovare un morto, ma va a trovare l’autore della vita ed a rallegrarsi con questa vita. Maria, quando raggiunge Gesù, lo rimprovera come aveva fatto Marta: Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto. Al versetto 33 dovremo sottolineare alcune difficoltà della traduzione. “Gesù allora, quando la vide piangere e piangere anche i giudei che erano venuti con lei, si “commosse” profondamente”.
Questo termine è riportato nella traduzione della CEI. Il verbo greco usato dall’evangelista, invece, non indica commozione, ma significa un atto energico o indignato con il quale si tenta di reprimere o l’azione altrui o la propria. In questo caso, Gesù reprime il proprio sentimento; quindi potremmo tradurre, in un italiano colloquiale, “sbuffa, sbuffò” o, in italiano un po’ più raffinato, “fremette”. .Perché? Gesù non tollera che venga fatto il cordoglio per un vivente, come nella casa di Giàiro, ricordate, che ha cacciato via tutti quelli che piangevano. Perciò Gesù non si commuove, ma reprime i propri sentimenti perché ha passato tutta la sua esistenza a parlare di questa vita indistruttibile e vede che la comunità non ha capito niente e, di fronte alla morte, è ritornata nell’ambito della tradizione. Davanti a Maria e ai giudei che piangono, Gesù freme o, se vogliamo, sbuffa. Incomincia ora la serie di domande e di richieste, con le quali Gesù prende la distanza dagli altri. “Dove l’avete posto (dove voi l’avete collocato). Gli dissero “Signore vieni e vedi”. Questa espressione “vieni e vedi”, Giovanni l’ha usata proprio all’inizio del suo vangelo, nell’invito fatto da Filippo ad un altro che diventerà discepolo, Natanaele, per condurlo da Gesù. Ma mentre nel primo caso è la direzione verso la vita, verso l’autore della vita, in questo caso, ancora una volta, è la direzione della morte. Notate il contrasto: chi rimane nella tradizione è orientato verso la morte, chi accoglie il nuovo è sempre orientato verso la vita. Quindi Gesù incomincia a prendere le distanze: dove voi l’avete posto. Versetto 35, leggo la versione della CEI: Gesù scoppiò in pianto. Per l’ignoranza del traduttore; questa è un’aggiunta mia.
Qualunque studente alla prime armi con una lingua straniera, se trova in una versione due verbi differenti, sa che deve tradurre con due espressioni differenti. Non può tradurre due verbi differenti nello stesso modo. Il verbo “piangere” in greco ha due espressioni. La prima, il verbo che propriamente vuol significare piangere, è il verbo che viene usato per le lamentazioni funebri il giorno della sepoltura.
Per esempio, nel vangelo di Matteo troviamo Rachele disperata per la morte di tutti i suoi figli che piange, cioè si lamenta. Quindi un pianto che significa “disperazione per una fine irreversibile. Gesù, nei vangeli, piange, si lamenta per Gerusalemme. Nel vangelo di Luca, Gesù piange vedendo Gerusalemme, della quale ormai è imminente la distruzione perché ha rifiutato l’invito alla pace e ha scelto la violenza.
Perciò questo verbo piangere significa il lamento funebre su qualcosa che è distrutto per sempre, sia essa persona o avvenimento. Un altro verbo, che è quello che usa l’evangelista in questo passo, è un verbo che potremmo tradurre, per sottolinearne la differenza, con “lacrimare” ed è espressione di dolore. Mentre piangere è espressione di disperazione per una fine, lacrimare è espressione di dolore, di tristezza. Potremmo correttamente tradurre in questo modo: mentre Maria e i giudei si lamentano, Gesù piange. Quindi Gesù non piange come piange Maria e come piangono i giudei. Sono due espressioni differenti. Lo ripeto: Maria e i giudei si lamentano, un lamento funebre per qualcosa che è irreparabile. L’evangelista non associa Gesù a questa disperazione, ma la morte dell’amico caro gli causa dolore.
La certezza che continua a vivere non ci getta nella disperazione
Questa è un’indicazione che riguarda anche l’esistenza di noi tutti. Quando ci muore una persona che ci è stata cara, la certezza che continua a vivere non ci getta nella disperazione, ma naturalmente c’è il dolore per la persona cara che avevamo a disposizione, che potevamo accarezzare, abbracciare e che ora non c’è più. Non siamo dei fanatici che, quando muoiono le persone, cantano alleluia, alleluia. La morte causa dolore. Altrimenti ci si potrebbe chiedere perché Gesù piange, se sa che mezzo minuto dopo Lazzaro sarebbe resuscitato. E’ un atteggiamento incongruente perdere tempo a frignare se sai che lo resusciterai, fatti una bella risata. Per la narrazione anche questa è un’incongruenza. “Dissero allora i giudei: vedi come lo amava. Ma alcuni di loro dissero: costui che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva far sì che anche questi non morisse?” Notate come l’evangelista unisce i due segni operati da Gesù e li considera una cosa sola. Gesù si manifesta come luce e vita per gli uomini. Come il mondo non può esistere senza luce, perché la luce è la vita, così Gesù ha aperto gli occhi al cieco e restituisce la vita. Intanto Gesù, ancora profondamente “commosso” (traduzione CEI, ma è Gesù che sbuffa, si reprime), si recò al sepolcro. La descrizione: era una grotta e sopra vi era posta una pietra. C’è un’espressione, che usiamo anche noi nel linguaggio italiano, che nasce proprio da queste descrizioni.
Tante volte per indicare qualcosa che è finito definitivamente diciamo “mettiamoci una pietra sopra”. Questo detto si riferisce proprio alla pietra sepolcrale, perché mettere una pietra sopra significa sotterrare definitivamente qualcuno o qualcosa. Quindi quando noi diciamo “mettiamoci una pietra sopra”, vuol dire che è finito, che non ci si ritorna più. Allora, Gesù dà un ordine: togliete la pietra. Siete voi che avete chiuso questo luogo, siete voi che ci avete messo una pietra sopra, siete voi che lo avete considerato morto, credendo ad una resurrezione alla fine dei tempi, quando ormai tutti si saranno dimenticati di lui. Dovete essere dunque voi a togliere la pietra che ci avete messo sopra e che significa “fine”. L’importanza di questa pietra nel brano è evidenziata dal fatto che viene citata per ben tre volte. Gli rispose Marta, la sorella del morto: “Signore, già manda cattivo odore, perché è di quattro giorni”.
Ecco il contrasto. Mentre la morte puzza, la vita profuma. Infatti una settimana dopo la morte di Lazzaro, quando la comunità si ritrova per il banchetto funebre, Maria sparge questo profumo. E’ la comunità che ha scoperto una vita capace di superare la morte e mentre l’effetto della morte è la puzza, l’effetto della vita è un profumo. Le disse Gesù: “Ma non ti ho detto che se credi vedrai la gloria di Dio?” Ricordo che “gloria di Dio” significa manifestazione visibile di quello che Dio è, cioè amore e vita.
Perciò Gesù dice a Maria: ma non ti ho detto che se credi, se mi darai adesione, toccherai con mano la vita e l’amore? Tolsero dunque la pietra, Gesù alzò gli occhi e disse: “Padre ti ringrazio che mi hai ascoltato”. Marta aveva chiesto a Gesù di chiedere a Dio come un inferiore a un superiore; Gesù non chiede, Gesù ringrazia. Guardate che queste non sono soltanto indicazioni che riguardano questo episodio, ma sono autentici trattati di teologia e di spiritualità che devono riguardare tutta la nostra esistenza. Qual è la preghiera del credente? Il credente, colui che ha fatto un’esperienza forte di Dio nella sua vita, non chiede, ma ringrazia. Quando si chiede c’è sempre il dubbio, l’incertezza, c’è sempre la speranza; chi ringrazia ha la certezza.
Gesù gridò a gran voce: Lazzaro vieni fuori!
. Perché ha gridato a gran voce? Ogni dettaglio è stato messo appositamente dall’evangelista e questo in particolar modo è molto importante. Avrebbe potuto scrivere, visto che il sepolcro era lì davanti “e detto questo disse: Lazzaro vieni fuori”, invece “gridò a gran voce”. Lazzaro era già morto; forse, un po’ rintronato dalla morte, non ci sentiva bene. Perché a gran voce? Perché al capitolo 5, proprio dopo la guarigione dell’infermo della piscina, Gesù aveva detto: verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno.
Notate come l’evangelista unisce l’episodio della guarigione dell’inferno alla piscina, l’episodio della guarigione del cieco nato, con la resurrezione di Lazzaro; sono tutti tesi ad una vita che viene restituita e viene restituita indistruttibile. Il morto uscì con i piedi e le mani avvolti in bende e il volto coperto da un sudario. Qui l’autore presenta una chiarissima incongruenza narrativa, in quanto Lazzaro non poteva uscire se aveva le mani e i piedi legati. In passato, quando non c’erano gli strumenti per studiare questi testi, che fortunatamente abbiamo oggi, questo brano ha portato molti commentatori a scrivere “miracolo nel miracolo: non solo il morto è resuscitato, ma è riuscito a uscire tutto legato come un salame”.
Osservate, in questi ordini che Gesù impartisce, come egli non si identifichi mai con queste persone; non dice “dove lo abbiamo messo” o “togliamo 50 la pietra”. Gesù prende sempre le distanze da loro. E’ la comunità che deve operare un cambio di mentalità e una conversione. Ricordate infatti che nella prima serata dicevamo che il Signore non opera miracoli, non attua cambiamenti straordinari nelle leggi naturali, ma ci chiede la conversione, cioè un cambiamento nei rapporti con gli altri. Gesù disse loro: scioglietelo e lasciatelo andare. Cioè, voi lo avete legato mani e piedi, immobilizzato, impedendogli ogni possibilità di movimento. Sciogliendo il morto, è la comunità che si scioglie e si libera dalla paura della morte. In questi due ordini di Gesù c’è la chiave di lettura per la comprensione dell’episodio. ..
Gesù ordina di lasciarlo andare
Proviamo adesso, con uno sforzo di immaginazione, a calarci in questo episodio interpretato letteralmente, oppure pensiamo all’ultima persona cara che ci è morta ed immaginiamo che Gesù la resusciti. Questa persona, che fino a cinque minuti fa abbiamo pianto straziati dal dolore, la vediamo uscire dalla tomba. Quale sarebbe la reazione normale? Sarebbe, non so, di correrle incontro, abbracciarla. Notate, invece, la stranezza dell’ultimo ordine impartito da Gesù: lasciatelo andare. Ma questo è strano, come lasciatelo andare?
Proviamo ad immaginare letteralmente la scena. Lazzaro esce dalla tomba, c’è Marta, Maria, tutta la comunità che lo vede uscire e la reazione normale sarebbe quella di farlo venire accanto, di andargli incontro, di far festa, di rallegrarsi. Ma Gesù, una volta che il morto è uscito, dice prima di scioglierlo da tutte le bende e poi, una volta che è finalmente libero, ordina di lasciarlo andare. Questa parola è la parola chiave per la comprensione dell’episodio. Perché? Questo verbo andare, l’evangelista lo adopera per indicare la strada di Gesù verso il Padre. Più volte, nel vangelo di Giovanni, Gesù afferma: dove io devo andare, voi per ora non potete venire… Questo verbo andare significa il cammino di Gesù verso il Padre, passando per la morte. Ecco allora la 38 comprensione di questo episodio grazie a questa parola chiave. Il messaggio lanciato è: lasciatelo andare, cioè permettetegli di continuare il suo cammino verso il Padre, verso una pienezza di vita senza fine. Sia chiaro, non è che Lazzaro debba ancora andare dal Padre, lui c’è già, ma è la comunità che lo deve lasciar andare, senza trattenerlo e piangerlo come morto. Gesù non restituisce Lazzaro ai suoi, come ci si sarebbe aspettati, ma lo lascia libero di continuare la sua esistenza. Ripeto: naturalmente già Lazzaro ha continuato la sua strada verso il Padre; è la comunità che deve prendere coscienza di questo. Fintanto che teniamo i nostri cari che sono morti, legati col nostro dolore, con la nostra disperazione, fintanto che li consideriamo dei morti che giacciono in un sepolcro e li piangiamo come tali, non permettiamo loro di andare in pienezza verso il Padre.
Naturalmente loro ci sono già nella pienezza del Padre, ma fintanto che li consideriamo morti non riusciremo a percepirli come viventi. Gesù propone un cambio radicale del concetto di vita, di morte e di resurrezione. La persona cara, quando passa per la morte continua la sua esistenza verso Dio. Allora, il funerale dei credenti non è il commiato, il seppellimento di un morto, ma ci si complimenta con un vivente, che passato attraverso questa tappa, continua in Dio la sua esistenza. Questo cambia radicalmente il rapporto con la morte; quando muore una persona cara il dolore è tanto, è indicibile, però non c’è la disperazione. C’è il dolore perché la persona cara manca fisicamente, ma c’è la consapevolezza che non ci si accommiata con un cadavere, ma ci si complimenta con un vivente che continua in Dio la sua esistenza.
La reazione alla resurrezione di Lazzaro è questa: “Molti dei giudei, che erano venuti da Maria, alla vista di quel che egli aveva compiuto credettero in Lui. Ma alcuni andarono dai farisei e riferirono loro quel che Gesù aveva fatto. Allora, i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: Che facciamo? Quest’uomo compie molti segni”. Ricordate, avevamo detto che il termine “miracolo” è assente dai vangeli, ma si parla di segni, opere e azioni potenti che Gesù fa. Anche la resurrezione di Lazzaro non viene definita un miracolo, ma un segno e i segni sono ripetibili dalla comunità.
La resurrezione di Lazzaro è la causa diretta della morte di Gesù. Gesù, notate, per disprezzo è mal nominato “quest’uomo”, e infatti, al versetto 53 troviamo scritto: da quel giorno, dunque, decisero di ucciderlo. Quindi all’azione di Gesù di comunicare vita, risponde quella dell’istituzione religiosa, che vuole toglierla. Poi ci sono altri episodi e, una settimana dopo, c’è il banchetto funebre con Lazzaro, un’usanza tradizionale. La traduzione della CEI dice che Lazzaro era uno dei commensali, mentre, letteralmente, il testo greco dice: e Lazzaro, il morto, era con Gesù. Non dice che era uno dei commensali. Cosa sta ad indicare? Tra poco celebreremo l’eucarestia. L’eucarestia, è il ringraziamento di una vita indistruttibile, è il momento della presenza di Gesù che porta in sé anche la presenza di tutti i nostri cari che in lui vivono. Quindi l’eucarestia è il momento privilegiato di comunione, non solo con Dio, ma con tutte le persone care. E’ il ringraziamento di una vita capace di superare la morte. A questo punto i temi della vita in Giovanni, naturalmente appena accennati, sono terminati.
DOMANDE E INTERVENTI

Domanda: La resurrezione di Cristo è un fatto storico o un fatto vero? Alberto: Se andiamo a vedere la storicità nei vangeli, vedremo che sono discordanti tra di loro. Già la passione presenta numerose differenze, ma per la resurrezione è un guazzabuglio. Se avete pazienza, andatevi a rileggere stasera, o meglio domani mattina per non perdere il sonno, le narrazioni della resurrezione. Non ci si capisce niente, perché non è che ci siano leggere divergenze tra un evangelista e l’altro, ma sono completamente differenti, completamente. Lo tratteremo l’anno prossimo, però già lo anticipo: Gesù è morto a Gerusalemme, viene seppellito a Gerusalemme, resuscita a Gerusalemme e gli apostoli stanno a Gerusalemme. Leggiamo il vangelo di Giovanni: Gesù resuscita e fa quella che sembra la cosa più normale, va nel famoso Cenacolo, il posto che era a porte chiuse e si presenta agli apostoli; perfetto! Andiamo, ora, a leggere la resurrezione nel vangelo di Matteo. Anche in Matteo Gesù è morto, viene seppellito e resuscita a Gerusalemme. Gli apostoli stanno a Gerusalemme, ma Gesù dice: dite ai miei discepoli che, se mi vogliono vedere, vadano in Galilea. Allora, se tu mi domandi se la resurrezione di Gesù è storica, io dovrei chiederti: secondo quale vangelo? Sembra più normale il vangelo di Giovanni: Gesù resuscita e appare ai suoi apostoli. Ma il vangelo di Matteo è diverso. Secondo Matteo Gesù dice: dì loro che vadano in Galilea e là mi vedranno. Ma perché in Galilea? Affrontare un viaggio di 150 chilometri! E continua l’evangelista, gli undici andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Ma Gesù non aveva indicato nessun monte. Cito le parole testuali, Gesù ha detto: dite che vadano in Galilea, là mi vedranno. In Galilea potevano andare sul lago, in collina, ma l’evangelista dice: andarono sul monte che Gesù aveva loro indicato. Gesù non aveva indicato nessun monte, ma nel monte gli apostoli fanno l’esperienza di Gesù risorto. Cosa significa questo? Il monte, nel vangelo di Matteo, è un’espressione tecnica che indica il monte delle beatitudini, dove Gesù proclama il suo messaggio. Allora ci si illumina! La resurrezione di Gesù non è un privilegio per qualche decina di persone, 2000 anni fa, ma una possibilità per tutti noi. Come? Andiamo in Galilea, andiamo sul monte. Che non significa dover fare un pellegrinaggio in terra santa, ma un invito ad immergerci nel suo messaggio e faremo l’esperienza che Gesù è resuscitato. Vedete, che Gesù sia resuscitato non è possibile crederlo perché c’è scritto in un vangelo o perché lo insegna un prete o un biblista, bisogna farne l’esperienza. E’ una cosa troppo grossa che un morto sia ritornato in vita, non ci si può credere per l’autorità di qualcuno. E infatti, Matteo dice: la resurrezione di Gesù non è un privilegio per qualche decina di persone, ma una possibilità per tutti quanti. Ognuno di noi non deve andare con ammirazione, invidia e nostalgia al gruppetto che ha visto Gesù resuscitare. L’evangelista dice: vuoi sperimentare Gesù risorto? Vai in Galilea sul monte, cioè vivi il messaggio delle beatitudini. Capisci che allora la domanda è difficile. La resurrezione di Gesù è storica secondo quale vangelo? Secondo quello di Matteo o quello di Giovanni? Indubbiamente è un fatto vero, è un fatto vero sul vangelo di Matteo, di Giovanni e di Luca; ma gli elementi storici della resurrezione di Gesù ci sfuggono, perché ogni vangelo ce lo presenta in maniera completamente differente. Non c’è un vangelo che abbia un elemento simile all’altro per indicare la resurrezione di Gesù. Quindi sappiamo che Gesù è vivo e continua la sua esistenza, ma le modalità concrete della resurrezione, dal punto di vista storico, è impossibile saperle, perché ci sono tante incongruenze. Perché i vangeli non vogliono trasmetterci la storia, ma la verità.

Domanda: Ci hai spiegato il brano di Abramo con il figlio Isacco, chiarisci, allora, cosa vuol dire aver fede.
Alberto: Qual’ è la vera prova di fede per Abramo, lasciar lì tutto o sacrificare il figlio Isacco? La fede nel linguaggio ordinario viene intesa come un dono di Dio, un dono dato da Dio a sua discrezione; a uno ha donato tanta fede, a un altro un po’ di meno, a quell’altro niente, perché gli sta antipatico. Tant’è vero che molti si giustificano dicendo: beato te che hai la fede, a me il Signore non me l’ha data! Altri, invece dicono: ah, io avevo tanta fede, ma l’ho persa! Perché queste affermazioni? Perché c’è un malinteso senso della fede. Per molti fede è accettare acriticamente tutti i dogmi o le verità religiose, ma questa non è fede. Il termine greco fede significa, letteralmente, “risposta”. La fede non è un dono che Dio dà agli uomini, ma la risposta degli uomini al dono che Dio dà a tutti. Dio ama tutti quanti, Dio concede a tutti il suo amore; la risposta dell’uomo a questo dono è fede. Allora, la fede di Abramo è stata la sua risposta all’intervento di Dio, un intervento d’amore che Dio ha compiuto su di lui e che lo ha portato, almeno per quello che ci dicono gli episodi biblici, a rispondere positivamente a tutte le istanze del Signore. Quindi la fede non è un dono che Dio ci dà, ma è la nostra risposta all’amore che Dio ci dona in ogni maniera.

Domanda: Verrei sapere se si può fare un parallelo tra la chiesa ufficiale ebraica all’epoca di
Cristo e la chiesa ufficiale attuale. La chiesa ufficiale da Cristo in poi, tenendo presente le persecuzioni che, per esempio, hanno avuto i seguaci di san Francesco e le altre cose successe. Alberto: Abbiamo in parte già risposto questa mattina quando dicevamo che la chiesa dovrebbe essere, ricordate l’espressione un po’ slogan, una comunità dinamica animata dallo Spirito. Non pensiamo alla chiesa in grande, pensiamo alla piccola comunità parrocchiale, alla 40 comunità familiare; ebbene, la tentazione, sempre presente, è quella di diventare un’istituzione rigida regolata dalle leggi. Nella chiesa c’è sempre stata questa tensione. Ci sono sempre state persone animate dallo Spirito e custodi dell’ortodossia. Ci sono state persone che hanno acceso i roghi e persone che sono finite nei roghi. Per fortuna la storia, dopo, ha fatto i monumenti agli arrostiti e non agli ‘arrostitori’. Ci sono persone in sintonia con lo Spirito e ci sono persone refrattarie. Lo avrete sentito altre volte, ma è un personaggio che a me piace, Teresa D’Avila, questa donna straordinaria, questa donna eccezionale. Il vescovo, allarmato da questa monaca stramba che gli scombussola i piani, scrive al sant’uffizio a Roma, con queste testuali parole: ho nella mia diocesi una monaca, che è femmina inquieta e vagabonda. Perché? Perché non rientrava nei parametri dell’istituzione religiosa. Capirai! Vuole riformare il Carmelo; ma come? Si sono fatti santi, osservando la regola del Carmelo e questa adesso la vuole riformare. Ebbene, la storia ha proclamato Teresa D’Avila dottor22e della chiesa e di questo vescovo non si sa più nemmeno chi fosse. Quindi la storia vede, per esempio, un Giovanni Bosco che intuisce, animato dallo Spirito, un’azione sociale verso gli emarginati della società e vede i suoi confratelli, nel famoso episodio, che lo vanno a rapire con la carrozza per portarlo in manicomio. Credevano fosse andato fuori di testa. E’ normale, nella chiesa ci sono sempre queste tensioni tra una parte che è animata dallo Spirito e ha bisogno, sente l’esigenza di forme nuove per esprimere questa realtà e una parte che, invece si mette come custode della tradizione del passato. C’è la stessa tensione presente tra il sacerdote e il profeta. Chi è il profeta? Il profeta è la persona che è in sintonia con Dio, e Dio è sempre nuovo, e per manifestare la sua fedeltà a questo Dio, trova insufficienti i mezzi e gli strumenti che l’ambiente religioso gli propone e ha bisogno di crearne di nuovi. Prendete Francesco d’Assisi; siamo qui in Assisi, ma non si poteva far monaco e andar giù dai Benedettini? C’erano già i Benedettini a quel tempo, si son fatti tanti santi tra i Benedettini, ma no! Francesco, in sintonia con un Dio che fa sempre nuove cose, ha sentito il bisogno di creare qualcosa di nuovo. Questi sono i profeti, cioè le persone che trovano insufficienti i mezzi che hanno a disposizione e hanno bisogno di inventare e creare forme nuove per esprimere la loro fedeltà in Dio. Normalmente non vengono compresi, vengono osteggiati, perseguitati e quando è possibile, anche ammazzati. Poi passa del tempo e viene compreso il loro insegnamento. Ricordate che a Tommaso D’Aquino, un grande dottore della chiesa, furono bruciati i suoi libri nella cattedrale del paese e venne considerato eretico? Poi, quando già era passato di moda, intere schiere di preti hanno dovuto studiare Tommaso D’Aquino per secoli e, in nome di Tommaso D’Aquino, venivano condannati i nuovi profeti. Nella chiesa c’è sempre questa tensione tra il profeta che crea cose nuove, incompreso, osteggiato, perseguitato e il sacerdote. Il sacerdote chi è? E’ colui che, dopo un po’ di tempo, capisce il profeta, ne raccoglie l’eredità e la propone come insegnamento. Normalmente, quando già non è più attuale, perché quando propone l’insegnamento del profeta ammazzato tempo prima, ne è già sorto uno nuovo e in nome di quello ammazzato prima, si perseguiterà il nuovo. Questo lo dice Gesù nei vangeli: costruite i monumenti ai profeti che i vostri padri hanno assassinato. La tensione nella chiesa è sempre questa, tra il profeta e il sacerdote. Per sacerdote non sto parlando del prete, ma sto indicando il sacerdote come atteggiamento. L’uomo del culto, l’uomo della tradizione, l’uomo che non accoglie nulla di nuovo, che non sia sperimentato. Ecco, sta a noi scegliere da che parte stare.

Domanda: Come sarà l’aldilà e troveremo nell’altra vita le persone che a noi sono care? E il
centro studi che avete fondato ha delle riviste che possono servire anche a noi? Alberto: Tempo fa ero capitato in una chiesa e il parroco parlava ai bambini della prima comunione, quindi di circa otto anni, dell’inferno. Diceva, per spiegare l’inferno: immaginate che ci sia un giardino con un muro altissimo, dove da una parte ci siete voi, che siete in grazia di Dio; ma, se i vostri genitori non osservano i comandamenti, staranno dall’altra parte. Immaginate ora che una formichina percorra il muro per secoli e secoli; neanche se lungo i secoli riuscisse ad aprire una breccia sul muro, vi potreste mai riabbracciare con i vostri genitori. Questo è proprio terrorismo religioso di quelli spaventosi. Immaginate l’angoscia di quei poveri bambini che magari vedono il padre o la madre che per motivi loro non vanno a messa la domenica e, reputandoli in peccato mortale, pensano che se muoiono saranno tutti in questo giardino, dove loro saranno da una parte e la mamma o il papà dall’altra, nonostante la formichina. Noi siamo arrivati fino a un punto su quello che possiamo dire e lì dobbiamo avere l’onestà di fermarci. Noi sappiamo, ma sappiamo con certezza, che abbiamo una vita che è indistruttibile e che non faremo l’esperienza della morte. I medici mi dicono che ogni giorno mi muoiono non so quanti milioni di cellule, non me ne accorgo, me ne accorgerò tra qualche anno, perché avrò qualche acciacco, o perché la mia faccia non sarà più quella di quando avevo 20 anni. Arriverà poi un giorno, nel quale tutte le cellule che compongono il mio corpo cesseranno di vivere, ma io non sono queste cellule, ho bisogno di loro per esprimermi, ma non sono queste cellule. Ho la certezza che continuerò a vivere. A vivere dove e come? Nella “sfera di Dio”, come accennavo prima. Cioè continueremo a vivere nella vita e naturalmente continueremo a congiungerci, a incontrarci con tutti coloro che camminano nella vita, con una pienezza e una ricchezza mai sperimentata su questa terra. Uno degli esempi che molti fanno per indicare questa vita è quello del bambino dentro la mamma. Quando vien fuori è una nuova nascita; anche prima gustava e palpitava delle vibrazioni della mamma, ma soltanto una volta che viene alla luce, anche se venire alla luce per il bambino si sa è un trauma, la mamma lo può finalmente abbracciare e accarezzare. Quindi noi sappiamo che continueremo la nostra esistenza verso una pienezza senza fine, è un crescendo di vita, perché continueremo ad amarci, ma non come anime. Sapete che c’è la riforma biblica e poi c’è la riforma liturgica e quest’ultima, purtroppo, non è al passo con la prima. Una delle preghiere che almeno io non dico mai per le persone care o defunte è “l’eterno riposo”; è una condanna all’ergastolo! Chi tra di voi è pensionato saprà quanto sia palloso riposare; una settimana andrà anche bene, ma poi… Noi siamo fatti per l’attività! Gesù non ci è venuto a parlare di eterno riposo, ma di una vita che dura per sempre, una vita eterna, non un eterno riposo. Io ricordo da piccolo, che al catechismo mi dicevano che il paradiso sarà così: “Immaginate di essere in un cinema, voi siete in platea e sul palcoscenico c’è Dio. Tutta l’eternità si sta lì a contemplare Dio”. Uno pensa: beh, dopo due o tre secoli si potrà pure cambiar canale! Questo padreterno sarà bello, stupendo, ci saranno pure gli angeli che suonano, ma contemplarlo per tutta l’eternità sarebbe una pizza senza fine. Per cui la vita eterna non viene presentata come qualcosa di bello, ma come qualcosa da temere. Soprattutto in passato, ricordate, c’era il concetto dell’anima che continuava la sua esistenza. Il corpo rimaneva nella terra e l’anima andava o su o giù; poi la resurrezione e ogni anima andava in cerca del suo corpo. Oggi, tra l’altro, con il problema dei trapianti, immaginate che casino si sarebbe verificato. La metto in maniera ridicola per far vedere quanto erano banali e infantili certe spiegazioni che ci davano una volta. Nei vangeli non si parla di anima. Il concetto di anima è un concetto greco, della filosofia greca, che è assente nella cultura ebraica. Mentre la cultura greca divideva il corpo e l’anima, nel mondo ebraico non c’era questa distinzione, esisteva la persona, che naturalmente è composta da una parte biologica e ha una parte, diciamo, dello spirito. Quello che continua dopo la morte è la persona intera e quindi non un’anima che sopravvive. Però, ecco, più di questo non possiamo dire. Credo, ho la certezza che mi congiungerò con tutte le persone che mi sono state care e che sento già adesso presenti qui con me; non c’è da dubitare che al momento in cui entrerò in questa fase della mia vita mi ricongiungerò con pienezza con loro, una pienezza mai vista finora. Di più non possiamo dire, non sarebbe onesto, perché di più non sappiamo. Gesù ci ha assicurato che noi abbiamo una vita capace di superare la morte, quindi continueremo a vivere e con noi i nostri cari. Infatti Gesù dice: chi crede ha la vita eterna. Credere significa dare adesione a Gesù e al suo messaggio, e questo vale per tutti. Quale fine sarebbe destinata, altrimenti, a quanti non lo hanno conosciuto; e sono veramente tanti! E tutte le persone che lo hanno rifiutato perché è stato presentato loro in maniera orrenda? Chiunque vive mettendo il bene degli altri come valore nella propria esistenza, assicura Gesù, ha la vita eterna, anche se non crede, anche se non ha mai pregato, anche se non ha mai messo piede in una chiesa. Chi nella vita ha fatto del bene degli altri un valore importante, pur naturalmente con tutti i limiti e i difetti che ha, continua la propria esistenza. Più di questo non possiamo dire. 42
Per quanto riguarda la domanda sul centro biblico, c’è il progetto di fare un bollettino trimestrale dove si riprenderanno tutte le novità del mondo scientifico biblico per trasmetterle poi in maniera popolare. Questo è un progetto, perché purtroppo in questo centro siamo solo in due, padre Riccardo e io. In linea di massima vi dico le principali attività del centro biblico: la prima domenica del mese, a Monte Fano, la terza domenica del mese a Bologna e ogni tre mesi a Napoli, si tiene un incontro sul vangelo. Durante l’estate si organizzano due viaggi di studio in Israele, dei quali uno condotto da me. Non è un pellegrinaggio; durante tutto il viaggio, lo dico già per chi ci pensasse, si recita mezza ave Maria a Nazàret, solo la parte biblica, il Padrenostro sul monte delle beatitudini e si celebra l’eucaristica a Gerusalemme. Si leggerà il vangelo nei luoghi dove è vissuto Gesù. Prima dicevo ad alcuni di voi che leggere il vangelo della resurrezione di Lazzaro davanti ad una tomba dell’epoca è una sensazione unica, che incide profondamente. C’è poi un viaggio di studio in Turchia, condotto da padre Riccardo, esperto di apocalisse, durante il quale si visitano le chiese nominate nell’apocalisse. In luglio e agosto, a Monte Fano, ci sono poi una settimana di studi biblici per adulti (ogni anno si studia un vangelo) e una settimana di studi biblici riservata ai giovani.

Domanda: Vorrei una precisazione sulla differenza tra la resurrezione di Lazzaro e quella di
Gesù. Lazzaro è risorto o è ritornato semplicemente in vita per poi morire di nuovo? E quale può essere il significato delle bende di Lazzaro che sono ancora sul corpo e quelle di Gesù che sono piegate? Alberto: Ci vorrebbero altre tre ore per svolgere questi problemi. L’episodio di Lazzaro, se interpretato letteralmente, se pensiamo che Lazzaro è veramente un cadavere che esce dalla tomba e ritorna alla vita, il termine resurrezione è inadatto, bisognerebbe parlare di rianimazione di un cadavere. Perché, per resurrezione si intende il passaggio definitivo da una vita all’altra. Invece, Lazzaro dopo un po’ muore, perciò non si può parlare di resurrezione, viene fregato due volte; quindi, si parlerà di rianimazione di un cadavere. Se, invece, il brano viene interpretato teologicamente, il cadavere è rimasto lì nella tomba. I resti mortali di Lazzaro sono rimasti nella tomba, ma Gesù ha cambiato la mentalità alla comunità: non piangete un morto, ma accompagnate un vivente, in questo caso Lazzaro, nella sua esperienza di vita con il Padre. La resurrezione di Lazzaro anticipa quella di Gesù. L’evangelista, fin dall’inizio, mette in correlazione l’unzione, il fatto della morte e resurrezione di Lazzaro, con la morte e resurrezione di Gesù e alla fine di questo brano si legge: per questo decisero di uccidere Gesù. Quindi, resurrezione di Lazzaro e morte e resurrezione di Gesù sono messe sullo stesso piano. Giustamente, nella domanda si diceva che mentre Lazzaro esce con le bende, nel sepolcro di Gesù le bende sono messe da parte. Perché? A Lazzaro è Gesù che comunica questa vita capace di superare la morte, mentre Gesù l’ha in sé stesso. Se dovessimo significare la morte di ognuno di noi adesso, secondo questi canoni, secondo questo linguaggio, non si scriverebbe più, come nella morte di Lazzaro “uscì con le bende”, ma “trovarono le bende a parte. Perché Gesù, morendo, ci ha comunicato una vita indistruttibile. Notate che nessun vangelo scrive che Gesù morì. Gesù è effettivamente morto sulla croce, ma tutti gli evangelisti sono concordi di usare, per indicarne la morte, l’espressione “spirò”. Tale espressione, anche prima di essere usata nei vangeli, non indicava mai “crepò”. Gesù sulla croce, quando porta al massimo il progetto della creazione, comunica lo spirito, quello spirito che aveva ricevuto dal Padre. Lo Spirito è la fonte di vita; Gesù, spirando, lo comunica a quanti lo prendono come modello di vita. Quanti prendono Gesù come crocifisso, cioè come una persona che è capace di avere risposte di vita e d’amore anche di fronte all’odio, a modello, avranno in loro questo spirito che Egli ha emanato sulla croce e lo Spirito è colui che comunica la vita indistruttibile. Quindi, prima della morte di Gesù il morto esce con le bende, perché Gesù ancora non gli ha comunicato una vita indistruttibile; dopo la morte di Gesù, ricevendo questo suo spirito, si ha già una vita indistruttibile e non si ha più bisogno di essere resuscitati da un’azione divina. Come diceva Paolo, siamo già resuscitati. Ecco le bende messa da una parte.

Domanda: Sono stata educata all’interno dell’istituzione, dove mi hanno fatto credere che mi sarei salvata soltanto dentro la struttura. Ascoltando te, ho capito, invece, che si è nella vita se si crede, aderendo, al messaggio di Cristo e cercando di viverlo. Mentre ci presentavi Lazzaro, mi sembrava di essere io stessa tutta avvolta dalle bende che mi impedivano di avere la vita. Una volta sciolta vorrei andarmene da sola, ma sono ancora in questa terra e devo rimanere in questa comunità. Però, io desidero vivere con i nuovi credenti Come posso vivere questa vita di nuovo credente se l’eucarestia, che è il perno di questo momento, lo devo andare a vivere nell’istituzione, nella struttura, nella mia parrocchia, comunque in chiesa. Desidero stare con i nuovi credenti, vivere l’eucarestia con i nuovi credenti, come posso, allora, superare questa difficoltà e dar spazio a questa esigenza di vita? Alberto: Ti do una risposta dottrinale, parlando del concilio di Firenze. Nel concilio, normalmente, c’è lo Spirito Santo, ci sono i vescovi, che di solito sono intelligenti, a volte anche cristiani (dice san Girolamo, un padre della chiesa, a uno che era diventato vescovo: ricordati che la dignità episcopale, non è sufficiente per essere cristiani). Ebbene, questo concilio emette una sentenza del magistero che dice così: tutti gli ebrei, i musulmani e tutti gli atei, quando muoiono, vanno dritti all’inferno fino alla fine dei secoli. Quindi ebrei, musulmani e non battezzati, tutti all’inferno per sempre. Il concilio Vaticano II, quattrocento anni dopo, riprende la stessa espressione: tutti gli ebrei, i musulmani, i non battezzati e tutti gli uomini che rispondono ai dettami della loro coscienza, conseguono la vita eterna. E’ arrivato il contrordine, c’è stato uno sbaglio; cosa volete quattro secoli, confronto all’eternità… Quindi ebrei, musulmani e altri, tutti quanti in paradiso. Cosa voglio dire con questo? Che è il progresso della chiesa, che più si affida al vangelo, più comprende il significato di Gesù. Allora, ciò che garantisce la vita eterna, lo dice la chiesa, non è il fatto di essere all’interno di un’istituzione, ma è un comportamento d’amore nei confronti dell’uomo. Questo lo può avere l’ebreo, il musulmano, il non battezzato, o l’agnostico. Ciò che determina questa vita indistruttibile non è quel che si crede, ma come uno si comporta. Gesù più volte lo ha detto nei vangeli. Avete presente in Matteo, quando dice: avevo fame, avevo sete, ecc. Cioè, chi risponde alle esigenze primordiali dell’uomo ha la vita indistruttibile. Quindi non è quel che si crede. Tant’è vero che Gesù, quando deve proporre un modello di autentico credente, propone un eretico scomunicato. Perché il samaritano, eretico e scomunicato dall’istituzione, di fronte ad un uomo sofferente, si comporta con misericordia e con amore. Gesù dice: questo è il credente. Ma è fuori dell’istituzione! E’ eretico e scomunicato! No, l’essere credente non dipende dai dogmi che si accettano, o dalle preghiere che si fanno, ma da come ci si comporta nei confronti degli altri. Perciò quello che ci assicura di avere una vita indistruttibile è l’amore, non l’appartenenza ad un’istituzione. Naturalmente, noi siamo nella nostra cultura, siamo più o meno cristiani cattolici, apparteniamo ad un’istituzione, crediamo a certi valori, quali per esempio la celebrazione dell’eucarestia. Quella vera, non certi riti che si operano. A volte dei preti si lamentano perché la gente non frequenta la chiesa. Io darei la medaglia al valor civile per la resistenza a chi ancora la frequenta… Da certe messe occorre scappare subito per legittima difesa. Sono un prete pure io, non è una critica ad altri preti, ma a volte mi capita, entrando in chiesa, di ascoltare la celebrazione dell’eucarestia e pensare che se andassi a sfilare il messale sostituendolo con l’elenco telefonico il celebrante non se ne accorgerebbe! Quella non è eucarestia, quello è un rito vuoto, assente, non ci crede neppure chi lo fa, mette il pilota automatico. L’eucarestia è qualcosa di più. L’eucarestia è la partecipazione di tutta la comunità a questa esplosione di vita. Ci sentiamo amati non perché lo meritiamo, ma perché Dio è amore. Sappiamo che questo amore ci dà una vita indistruttibile e dovrebbe essere un’esplosione di gioia. E, invece, noi vediamo che la gente, quando esce dalla messa, avrà pure Gesù, ma sbuffa. Uno che passa e che nota la gente che esce dalla chiesa, vedendola sbuffante non è certo invogliato ad entrare. Quindi non è l’appartenenza ad un’istituzione quello che ci garantisce la vita eterna, ma se ci stiamo dentro, cerchiamo di starci il meglio possibile, di valutare tutti i momenti che queste istituzioni ci possono offrire. Domanda: Vorrei degli spunti per riflettere sul problema della morte di un bambino e il suo non essere battezzato. Questo perché ci hanno inculcato che il bambino deve essere battezzato prestissimo, perché altrimenti non si sa dove va. Hai già risposto in parte dicendo che quanti danno adesione volontaria a Gesù, hanno in sé la vita, ma i bambini non possono aderire volontariamente. Alberto: Hai toccato un tema molto delicato e spero di avere una risposta adeguata. Vediamo un po’ questo problema nella storia della chiesa, perché la chiesa, man mano che si avvicina al messaggio di Gesù, lo capisce sempre meglio. Facciamo un piccolo excursus storico. Il Vangelo, se è interpretato in una certa maniera, dice: chi sarà battezzato sarà salvo e chi non sarà battezzato non si salverà. Allora Agostino, che ha scritto tante cose buone, ma ha anche scritto, lasciatemelo dire, tante sciocchezze, stabilisce che tutti i bambini morti senza battesimo vanno all’inferno fino alla fine dei tempi. Atroce! Soltanto uno come Agostino, che ha abbandonato la moglie e si è quasi rallegrato per la morte del figlio, poteva scrivere certe aberrazioni. Quindi, per secoli si è creduto che il bambino morto senza battesimo andasse all’inferno. E, a quell’epoca, l’inferno era concepito come luogo di tortura. Tutto il sadomasochismo di certi religiosi si era riversato su queste descrizioni infernali. Questo è stato creduto per secoli. Tenete presente le circostanze culturali dell’epoca, la mortalità infantile. In quei tempi era normalissimo che il bambino appena nato morisse, perché l’assistenza medica e igienica era quello che era e fino ad un secolo fa la mortalità nel parto e della madre e del figlio, era altissima. Per cui s’invalse l’uso di battezzare immediatamente il bambino appena nato. Molti di voi ricorderanno di essere stati battezzati prestissimo, addirittura nella culla. Ora invece, viene posticipato di mesi. Nel 1200, poi, c’è un altro teologo che invece è innamorato, Abelardo. Questo teologo innamorato di Eloisa, stravolge tutta la teoria di Agostino: non è possibile che i bambini nati e morti senza battesimo, per tutta l’eternità abbiano a patire i supplizi dell’inferno; questa è un’atrocità. Non poteva dire, però, che sarebbero andati in paradiso, perché per entrare in paradiso bisognava presentare il certificato di battesimo. Allora? Abelardo ha trovato la soluzione di un luogo intermedio, il limbo. Questi bambini, morti senza battesimo, non andavano all’inferno a patire tremende sofferenze, non potevano andare nemmeno in paradiso a godere con Dio, andavano all’ora in questo luogo intermedio, dove non si pativa, ma neanche ci si rallegrava. All’esistenza del limbo è stato creduto fino a trent’anni fa. Poi, con il concilio Vaticano, quando tutte le verità che si credevano sono state verificate alla luce della bibbia, si è visto che, pur sfogliando tutto il sacro libro, di molte di esse non si trovava traccia. Con il concilio Vaticano secondo, finalmente, se prendete un rituale del battesimo, troverete anche la benedizione per il bambino nato e poi morto senza battesimo. Cito a memoria, ma più o meno dice così: Padre, nel tuo grande amore, accogli nel tuo regno di vita anche questo bambino e battezzalo tu, ecc, ecc. Quindi il bambino morto senza battesimo, indubbiamente continua la sua esistenza e partecipa a questa vita. L’obiezione era: però, se la vita eterna ci viene garantita dall’adesione che diamo al Signore, questi bambini che non hanno la possibilità di dare adesione…? Qui il discorso si allarga. Pensiamo soltanto a coloro che noi riteniamo e classifichiamo come esclusi dalla conoscenza, come gli ammalati mentali, i cerebrolesi con tante difficoltà a livello mentale; allora questi? Non potranno, secondo noi, mai dare un’adesione al Signore. Anche in questo caso lasciamo fare al Padre. Dio è padre di tutti gli uomini, non tutti gli uomini scelgono di diventare suoi figli. E quindi è il Padre che instaura un rapporto con queste persone e, naturalmente, col suo amore li raccoglie in questa vita indistruttibile.