19 novembre 2004 – 2° incontro
(don Marcello Farina)
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Mi piace iniziare questo secondo incontro con le parole del documento della Chiesa italiana, che fa da titolo alla nostra riflessione. Esso ci avverte che «preferiamo fare molte cose o cercare distrazioni. Eppure sono l’ascolto, la memoria e il pensare a dischiudere il futuro». Sembra di risentire la parola evangelica di Gesù a Marta, la sorella indaffarata, distratta dall’essenziale per i troppi servizi.
E ciò non riguarda solo coloro che sono a capo della comunità, ma tocca a cia-scuno il compito serio di liberarsi dall’illusione di trovare il senso della propria missione e della propria vita nella fatica del troppo lavoro. Non basta mai la fatica a riempire di senso la vita. Le troppe cose possono nascondere:

– la paura di interrogarsi e possono offrire l’illusione di aver fatto il proprio dovere per il Regno;

– la mancanza di coraggio di accettare serenamente la situazione di minoranza in cui sempre più ci troviamo.

Capita alle nostre comunità quello che capita a molte famiglie: tanto lavoro, tante cose, tanti impegni, e non c’è più tempo per parlare e ascoltare.

1. UN MONDO CHE CAMBIA

Il tema è immenso e chiede certamente di essere colto nelle sue linee essenziali, per non risultare dispersivo e farraginoso. Ma, prima di cercare di descrivere tali cambiamenti, mi preme affermare che uno di questi (cambiamenti) è intervenuto anche nel modo di vivere della Chiesa al seguito del Vaticano II; «tale cambiamen-to non fa perno sulla centralità del culto, ma sulla decisività della missione e spinge a sviluppare la relazione con Cristo nel senso di un servizio al vangelo aperto a tutti, non-credenti in prima fila, nel senso di un’immersione nella vita quotidiana, un uscire dal tempio che diventa accoglienza e scelta degli ultimi, poveri in particolare.
Questa conversione alla «missione» chiede di passare dalla gestione dei bisogni religiosi all’attenzione alle domande che le persone, dai credenti ai lontani, portano con sé; dalla ricerca di conferme all’accompagnamento di persone in ricerca. Almeno implicitamente, questo passaggio riconosce l’esistenza di un blocco dell’evangelizzazione e la presenza di una trasmissione protetta, situata all’interno del mondo ecclesiale che troppo spesso, invece di interrogarsi su quanto o come trasmetta la fede a questa società, si accontenta di incolparla del suo fallimento» (Giovanni Colzani).

1.1. Va, anzitutto, tenuta presenta la difficoltà della trasmissione culturale oggi.

Nel nostro mondo la trasmissione culturale appare segnata da fenomeni contraddittori come l’incapacità di comunicare e, al contrario, la ricerca continua di contatti e di incontri. In tutto questo ha avuto e ha grande incidenza la progressiva tecnicizzazione della comunicazione: l’odierna ampia rete di comunicazioni sostenute dalla tecnologia, in quanto misurata dall’audience e dal successo, sfugge alla problematica del senso. Per questo funziona molto bene come trasmissione di conoscenze, meno bene come trasmissione di valori e di esperienze.
In una società sazia, in cui i bisogni primari sono quasi sempre soddisfatti, la comunicazione investe necessariamente i legami interumani, ma li imposta e li risolve in modo molto lontano dalle ragioni della verità e della vita. Inoltre, occorre prendere atto che ogni comunicazione ha degli insopprimibili limiti esistenziali, nel senso che essa cozza contro l’originalità di ciascuno e la sproporzione che sempre si ripropone tra ciò che siamo e ciò che comunichiamo.
Questa sproporzione richiama a fondo un dato noto, ma non sempre considerato, cioè che ogni comunicazione riposa anzitutto sulla accettazione dell’alterità, cioè della diversità e della libertà dell’altro: questi non è il riflesso della mia soggettività ma il diverso con cui devo entrare in rapporto. Non è possibile rinfacciare continuamente all’altro la sua diversità come se fosse una colpa. L’accoglienza dell’altro e non la pretesa di dominarlo, l’attenzione a capirlo e non l’atteggiamento di chi lo giudica, sono la base di ogni vera comunicazione.
Se poi richiamiamo qui la scissione tra spirito e materia, tra ragione e affetti, che accompagna l’uomo moderno, diventa facile concludere che la trasmissione culturale non è mai un fatto pacifico: fa della società un processo in continuo cambiamento, oggi particolarmente accelerato. Questo implica la necessità di ripensare forme nuove, non autoritarie ma dialogiche, di comunicazione della fede: la sottolineatura delle tonalità emotive e il relativo disinteresse per i contenuti spinge, soprattutto oggi, a ripensare forme capaci di rendere ragione della fede come forza di vita, come ragione di speranza e di gioia, come singolare pienezza, come radice di solidarietà e di impegno. In una parola: come apportatrice di senso e di significati.

1.2. I mutamenti culturali più significativi.

L’angolo di visuale che qui ci interessa non è tanto un’analisi accurata della modernità o della cultura postmoderna in termini filosofici o sociologici, quanto piuttosto la capacità di questo clima culturale di «fare mentalità», di offrirci un contesto e una situazione ambientale con la quale la nostra fede e la nostra attività pastorale devono comunque misurarsi. Per comodità si potrebbero ricondurre a tre le caratteristiche fondamentali della nostra cultura: il nodo del soggetto, il mutamento del paradigma del tempo, la possibilità di incontro e di riscoperta dell’altro. E non si tratta di darne una valutazione di tipo moralistico, di farne, cioè, una questione di valore o disvalore, ma di analizzare sapientemente questo dato culturale per una seria azione educativa e pastorale.

a) Il nodo del «soggetto».

Il punto di vista culturale da cui partire è la fine delle ideologie totalizzanti, cioè di un pensiero globale, capace di dare un punto di riferimento comune, un ordine, una stabilità. L’orizzonte, sotto il profilo del vissssuto, si restringe intorno all’individualità di ciascuno, con una concentrazione sulla propria esperienza personale, vista come l’unica àncora capace di esprimere motivazioni, valori, stimoli e di emettere impulsi vitali. Possiamo raccogliere il senso di questa trasformazione dicendo che il nostro tempo conosce:

a) un passaggio dalla centralità della questione della verità alla centralità della questione della autenticità: è il vitale, è l’esperienziale, è «l’originale» a imporsi come il dato importante e decisivo. In altre parole: l’orizzonte ovvio e indiscusso è l’interesse per se stessi, per la propria vita. La vita individuale – la «mia» vita – è il primo campo di responsabilità e di libertà, è l’orizzonte su cui le persone misurano la propria organizzazione di esistenza, le proprie scelte e le proprie progettualità.
La conseguenza immediata di tutto ciò è la non-ovvietà della trascendenza: cioè il riferimento a Dio non è più né pacifico, né naturale; è, se mai, una conquista che esige educazione e impegno.
Ma, sempre in riferimento al soggetto, va poi ricordato che l’attenzione a se stessi porta con se, oggi,

b) l’esperienza di scissione della persona. Indicata da san Paolo (Romani 7, 14-25), quando scrive «non compio il bene che voglio ma faccio il male che non voglio», questa lacerazione esistenziale è l’esperienza di una fragilità e di una vulnerabilità, di una scissione tra intenzione e azione, fra intelligenza ed emotività, tra libertà e verità. La questione della «unificazione» della propria vita si impone come il problema di fondo, come il problema basilare a cui rispondere. Si accostano scelte diverse, è sempre possibile ribaltare il proprio vissuto, si esaspera l’attenzione a se stessi (narcisismo). Il risultato sociale che deriva da questa attenzione ai cammini individuali è la mancanza di valori condivisi e partecipati da tutti, è la pluralità delle proposte e l’enfasi sulla libertà. Il risultato è che la società in cui siamo inseriti sembra impegnata a offrire a tutti il massimo possibile di libertà individuale, senza alcuna attenzione per la qualità della libertà: la nostra società non impedisce a nessuno di essere quello che vuole, ma non lo aiuta a diventarlo.
«Ognuno faccia quello che crede, come meglio crede. In questo senso, se il nostro mondo comporta grandi possibilità di libertà, comporta anche possibilità sconcertanti di degrado della propria esistenza in un quadro di pratica indifferenza comunitaria.
In conclusione, possiamo dire che il nodo del soggetto si riassume nel passaggio dall’ideale moderno dell’autonomia – cioè di una ragione che sia norma e guida alla persona – alla concezione post-moderna dell’autenticità. La ragione è sostituita dall’utilità, dal fremere, dal sentirsi vivo, dal vissuto sperimentato in forma di pienezza; l’autenticità diventa il valore assoluto, la modalità insindacabile di autorganizzazione, diventa ciò che erode lo stupore e la meraviglia di fronte all’esistenza, diviene diffidenza o disinteresse per ciò che va oltre l’individuo. Da qui il rischio di passare da un’accoglienza della vita, interiorizzata nella gioia e nel ringraziamento come per un dono, ad una pretesa di fronte alla vita e ad una diffidenza per tutto quanto non mi viene incontro a priori. Il rischio di una persona abbarbicata e ripiegata solo su di sé è il risultato di un soggetto assunto come valore unico e assoluto» (G. Colzani).

b) Il mutamento del paradigma del tempo.

Il secondo elemento è il mutamento del paradigma del tempo, del paradigma della storia. Si tratta di un fatto non ovvio, neppure questo, ma basilare e alquanto difficile da comprendere pienamente.
Si può dire che la nostra cultura passata aveva sempre pensato la storia come una continuità, fatta di passato, di presente, di futuro. Oggi, invece – e questo è il cambiamento più importante -, essa è pensata come «rottura», cioè come se i fatti non fossero collegati tra di loro e, soprattutto, come se il futuro, ciò che verrà, non sia legato al passato o al presente, ma possa essere del tutto diverso, nuovo, «originale». È questo il senso della «memoria tradita», della «tradizione smemorata», la sensazione, cioè, che non si abbia a che fare con legami, vincoli, eredità, precomprensioni, pregiudizi. Da questa situazione scaturiscono delle conseguenze impressionanti che non possiamo passare sotto silenzio:

– la prima è la fatica a comprendere e a vivere la durata o, in altri termini, la fatica a comprendere e a vivere la fedeltà. In una storia che cammina per rotture e non per continuità, la durata, la fedeltà, o il “per-sempre” sono difficili da accettare, difficili addirittura da capire. Così assistiamo stupiti al fatto che persone ribaltano la propria vita in un momento, giovai curati a lungo nella loro formazione, persone sposate, che fanno scelte opposte alla loro vita;

– la seconda è la «dislocazione» della speranza, che non riguarda più traguar-di universali da raggiungere (il Regno di Dio) ma il benessere personale, la ricerca di gratificazione subito, e quindi non la responsabilità per il domani;

– la terza è proprio la perdita della memoria. Le ragioni del passato e del pre-sente non interessano più; il vissuto personale è rimasto l’unica bussola, l’unico ago in grado di orientare le scelte della vita. Di qui l’insicurezza, l’ansia che si crea per il fatto della mancanza di riferimenti sicuri, di risposte fruibili nei momenti difficili.

c) Le possibilità di incontro e di riscoperta dell’altro.

Il venir meno di un quadro unitario, totalizzante, in grado di spiegare ogni cosa, ha anche valenze positive: spalanca, infatti, nuove possibilità di incontrarsi e di stare insieme, di conoscere e di conoscersi, legittima nuove modalità di vivere. Il venir meno di una identità forte, immediatamente riconoscibile, favorisce certamente lo scambio e la tolleranza, l’esaltazione delle differenze e, si può persino dire, di accettazione della prossimità.
Ma è davvero così? Si realizza davvero questo atteggiamento di rispetto e acco-glienza? Il rischio (e il timore) è che in questa società, l’alterità venga fatta solo in funzione dell’identità, dell’«Io», del «Me», cioè vi si aggiunta, senza integrarvisi pienamente. In altre parole: la differenza è rivendicata, esibita, imposta, ma non è accolta con fiducia e amore. Spesso la partecipazione (alla vita, alla vicenda dell’altro) si riduce a una dinamica emotiva, consolatoria e gratificante, o a una dinamica funzionale, interessata e strumentale. Per questa via la partecipazione non si apre veramente all’altro in quanto tale, ma all’altro che mi ha colpito: nell’altro è sempre la mia soggettività che ricerco. E là dove la relazionalità è costruita sulla gratificazione e sull’interesse, là dove ci si intende solo in base al guadagno emotivo o funzionale – lo si voglia o no, lo si riconosca o no – là l’intolleranza e addirittura il razzismo sono in agguato.
Ciò che è decisivo, anche in questo contesto, è che il comunicare, il dialogare, prima di essere visto come fatto tecnico, deve essere pensato come modalità originaria della persona: la persona è apertura, condivisione, vivere insieme. Prima di volersi l’un l’altro, si vive insieme all’altro: il rapporto tra le persone è iscritto nel gesto, nella parola, nella sessualità. L’altro è se stesso e non, anzitutto, risposta ai miei bisogni. Il rischio tipico del post-moderno è quello di piegare il desiderio, la comunicazione, a una dinamica soggettivistica, emotiva e gratificatoria, cioè piegata su se stessi, individualistica e particolare.

2. SI PUÒ ‘EVANGELIZZARE’ QUESTO MONDO?

Due interrogativi nascono immediatamente, leggendo anche superficialmente quest’epoca che ci è data:

– è possibile scorgere in questo tempo di certezze solo provvisorie una certa attesa di salvezza? Il documento dei vescovi italiani ci ricorda che «l’animo giusto», con cui attuare questo discernimento è quello dell’apostolo Paolo nell’areopago di Atene: «Vi è un Dio ignoto che abita nei cuori degli uomini e che è da essi cercato…» (Atti 17, 16-34);

– come, poi, risvegliare ed esplicitare l’attesa di salvezza; come i cristiani, che sanno di aver ricevuto in dono il Vangelo – «il più grande dono di cui dispongono» – possono «condividere questo dono con tutti gli uomini e le donne che sono alla ricerca di ragioni per vivere, di una pienezza di vita»? (n. 32 del Documento).

Come si può vedere, non si tratta di impadronirsi delle attese dell’uomo di oggi per subito dirigerle verso l’attesa (di salvezza). Non si tratta neppure di pretendere di disporre totalmente della verità, che sempre ci precede e, insieme, ci “anticipa” nel nostro cammino. Piuttosto occorre saper vedere nelle contrastanti condizioni di vita e nei profondi e rapidi cambiamenti la difficoltà di molti contemporanei di «identificare realmente i valori perenni». Vale per l’azione pastorale quanto ha detto L. Wittgenstein a proposito della fede: «Credere in Dio significa vedere che i fatti del mondo non sono l’ultima parola».

2.1. Un quadro “umano” problematico

In pochi decenni si è passati dall’homo faber fortunae suae, artefice di se stesso, lanciato verso «gli impegni terreni» o «verso le attività professionali e sociali», per usare le espressioni della Gaudium et Spes, a un uomo ripiegato su se stesso, rassegnato, succube più che artefice della evoluzione in atto. (Questa è l’atmosfera che ci avvolge, anche se non mancano eccezioni!).
«Oggi l’annuncio del Regno deve confrontarsi anche con chi non attende nulla e nessuno. È questa una tendenza pragmatica assai diffusa, anche nel nostro Pae-se, pur se non espressa i modo così esplicito o così drastico. Anzi, ciò che sorpren-de è precisamente l’accettazione passiva, rassegnata di una realtà piatta e grigia in cui si vive nella massa ma isolati, senza vere relazioni, quasi lieti di essere pri-vati della storia personale, derubati del linguaggio e dei sogni, in modo da non con-trastare l’unica storia, l’unico sogno e l’unico linguaggio, quelli dei mass media.
Il disagio della postmodernità, con il suo smarrimento e con la sua incertezza sul futuro, provoca in alcuni l’abbassamento delle aspettative di una realtà più vera ed autentica, fino al radicale annullamento della tensione verso l’alto e verso il futuro. Se un tempo, quando dominava il mito del progresso, le attese erano molte e soprattutto forti e determinate, sorrette da una viva speranza, anche se tendenzialmente rivolta ai soli beni terreni, oggi, con il mito del progresso in parte infranto, le attese si sono ridotte di molto, forse sono anche sparite. La società della “gratificazione istantanea” – “il presente come tempo del soddisfacimento dei bisogni”, dice il documento (n. 2) – si accontenta di poco, fino a perdere il senso e il valore dell’impegno costante e duraturo.
La presunzione di costruire da soli il proprio destino ha dovuto fare i conti con le numerose esperienze fallimentari: da questo confronto spesso è spuntato un atteggiamento pessimistico, scettico, diffidente. Per alcuni si va anche oltre, fino ad accontentarsi di vivere alla giornata, di godere dei risultati frammentati e provvisori. Per altri poi si arriva all’insidia del nulla, dell’insignificanza. Tutto è semplice accadimento, senza sostanza e senza verità; tutto ciò che viene alla ribalta, subito sprofonda e si dissolve nel nulla. La vita, nella sua corsa senza traguardo e senza meta, appare assurda. Molti – anche fra i giovani – quasi non provano più gusto a vivere: tutto è insignificante.
In questa luce, l’attesa del Regno sembra essere fuori luogo, del tutto anacronistica. la salvezza, la questione religiosa, la stesa speranza sembrano senza senso, quando il soggetto è scomparso, quando grave è la perdita della memoria, quanto il linguaggio risulta dissolto, quando la storia è vissuta come un’evoluzione anonima, vuota, senza sorprese, che include tutti e tutto senza clemenza ed elimina ogni sostanziale aspettativa.
Anche l’atteggiamento diffuso del sincretismo relativizzante risulta difficil-mente raccordabile con la tensione stimolante dell’adventus cristiano e con l’idea e l’esperienza della salvezza.
Si tratta di un atteggiamento che accoglie l’incertezza della postmodernità senza viverla come indifferenza, ma come sincretismo opportunistico, ove convivono aspetti disparati e contrastanti. Possiamo forte riferirci alla “furbizia” di Rachele. Quando entra nella casa di Giacobbe, è lieta di accettare come proprio il Dio di Israele. Però ha portato con sé i piccoli idoli di suo padre, nascondendoli sotto la sella del cammello (Genesi 31, 19.34).
Così avviene oggi per molti. Si può attendere il regno di Dio, ma si può vive-re all’insegna di valori molto terreni che di fatto disattendono l’attesa del Regno. Si può invocare l’avvento del Regno di Dio, riconoscendo che Dio, e non l’uomo, è il protagonista di questo Regno; ma si può poi fare del mondo la nostra proprietà, si può fare dell’uomo il principio di spiegazione del mondo e di autoredenzione, si può della libertà un ambito illimitato e assoluto. Ugualmente si può avvertire la sete di una spiritualità aperta verso l’alto, ma si possono poi seguire percorsi di conoscenza interiore e interiorizzante, di introversione e di tranquillità solipsistiche, fino ad accontentarsi delle “vibrazioni” del proprio corpo o dei “suoni” dell’universo, con un’atten¬zione esasperata per la salute, con costosi metodi per lo sviluppo del potenziale umano, con scuole di successo per vincere la timidezza o per controllare l’ansia» (G. Ambrosio, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, in la Rivista del Clero, n. 9, 2001, pp. 574-575).
Ma c’è anche chi non ha dimenticato Dio nella sua vita, ma il ritmo della vita quotidiana, la routine del lavoro, degli impegni inderogabili non lascia eccessivo spazio alla possibilità di celebrare i segni della salvezza dentro la comunità cristiana, di seguire il ritmo e le proposte. Mi viene in mente la testimonianza di un cameriere con due figli e una moglie, che lavora, ella stessa, nel fine settimana. Egli ha il giorno libero il martedì ed è quello per lui il giorno del Signore. Portando a passeggio i suoi figli piccolissimi, egli entra con loro in chiesa, li fa pregare, celebra a suo modo la fede che lo lega alla comunità. A costui quale catechesi può essere proposta? Quale accoglienza gli è riservata? Non passano in secondo ordine tutte le burocrazie ecclesiastiche dei tempi stabiliti, di orari fatti per borghesi e pensionati? Lì dove l’impegno per il lavoro, per la sopravvivenza materiale, chiede sempre più tempo e fatica, come trovare la disponibilità per l’educazione religiosa dei figli e per vivere dentro la comunità? Lì dove la comunità cristiana si trova a dover affrontare un tale carico di impegni per il mantenimento dello status quo, quali energie può trovare per cogliere il cambiamento in atto?

2.2. Considerazioni conclusive

L’osservazione di un grande teologo contemporaneo, Raymond Pannikar, ci permette di cogliere un’ultima considerazione per quel che riguarda la religione oggi. Egli dice: «Tra tutti i tentativi volti a definire la religione, io rischierei questa semplice e breve osservazione: – la religione è il sentiero che l’uomo prende per conseguire lo scopo della vita… il pellegrinaggio esistenziale, in cui l’uomo si impegna con la convinzione che tale impresa lo aiuterà a raggiungere lo scopo finale o il fine della vita».
Ciò significa che:

– ci si incammina da una religione come proposta in sé compiuta e legittima e come universo di valore e pienezza di significato, ad una religione, che verifica non la propria credibilità, ma l’apporto che sa offrire all’esperienza individuale e collettiva;

– ci si incammina da una fede trasmessa con tutto il suo bagaglio di verità e di dogmi in toto, a una fede elaborata esistenzialmente, come «cantiere» da cui «estrapolare» ciò che permette di «rispondere» alle tante domande che la vita suscita quotidianamente (perché il dolore, ecc…?);

– ci si incammina da una fede-risposta a priori alle impellenti problematiche del vivere a una fede-domanda, indagatrice profonda del cuore umano, così da renderlo inquieto nel suo tentativo di giungere in chiaro nei confronti di quel «mistero» che è la vita;
– ci si incammina dal «senso cristiano» dell’uomo, ereditato dai secoli di storia del cristianesimo, alla «elaborazione cristiana del senso dell’uomo, mai data una volta per tutte, capace di novità, di freschezza, di immediatezza. Per il credente di oggi (e in particolare per il giovane che cerca la fede nel nostro tempo) non può essere sufficiente il ricorso a modelli del passato. La sua domanda di religione ha «la pretesa» (in senso positivo) di non essere mai stata fatta con quell’intensità, che è propria di ogni singolo soggetto, che non vuole ripetere il passato e attingere da esso, in maniera passiva, l’esemplarità per l’oggi. Per dirla con Ernst Bloch, si impone un rinnovamento di prospettiva in ambito religioso che permetta di trasferirsi «dalla patria perduta alla patria in cui ancora nessuno fu», «dalla terra posseduta alla terra promessa», lasciando spazio alla fantasia, al cuore, alla creatività di ciascuno, che voglia cercare quel Dio «che nessuno ha mai visto».
«Anche oggi, nella postmodernità, “il popolo è in attesa”, nonostante tutto. Poi-ché il cuore è inquieto, poiché è forte, anche se inespressa, la nostalgia della “casa”, poiché vivo è il bisogno, anche se inconsapevole, di essere “salvati”.
Tutti abbiamo bisogno di sentirci rivolgere le domande fondamentali, quelle do-mande troppo spesso eluse per sottrarsi alla serietà delle scelte e all’impegno di un progetto. Tutti abbiamo bisogno di sentire e di capire che la questione di Dio non può essere rimossa, perché è questione decisiva per la serietà della vita, per un progetto che guarda fiducioso al futuro. Tutti abbiamo bisogno di renderci conto che la preghiera è necessaria alla vita, come l’amore, come il cibo, come l’aria.
La Chiesa italiana vuole venire incontro a questa attesa, anche se a volte è silenziosa. Gli Orientamenti pastorali vogliono ricordarci che hodie salus facta est, che il dono della salvezza è rivolto a questo oggi, a questa realtà odierna, a questi uomini del nostro tempo. Senza troppo parlare di minoranza, senza troppo accentuare le difficoltà, senza troppo rimpiangere il passato, ma vivendo insieme agli uomini e stando davanti a Dio: così la Chiesa è “la liturgia di tutti coloro che sono muti per Dio” (von Balthasar). Anche questa liturgia è parte essenziale del comunicare il Vangelo in un mondo che cambia» (G. Ambrosio, cit., p. 576).

BIBLIOGRAFIA

«Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia», CEI, 2001.
G. AMBROSIO: «Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia», Rivista del Clero, settembre 2001.
G. COLZANI: «La trasmissione della fede, Rivista del Clero, n. 6, 2001.
P. COLOMBO: «Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia», Rivista del Clero, n. 2, 2001.