data del corso 2014 – 2016

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Esperienze di Chiesa nel Nuovo Testamento

1. Introduzione alle esperienze di Chiesa nel Nuovo Testamento

Premessa sull’identità cristiana

E’ interessante iniziare considerando il “Dialogo con Trifone” di Giustino (metà del II secolo), in cui i discepoli di Gesù si chiedono: “chi siamo?”. E’ un’opera scritta in un’epoca in cui stavano maturando altre tematiche, come le apologie che attaccavano il mondo pagano o quello giudaico, oppure un certo tipo di cristianesimo, considerato eretico.

Con il “Dialogo”, Giustino si confronta con il giudaismo. E’ importante perché ci riferisce il faticoso cammino delle comunità cristiane nella presa di coscienza della loro identità. Non solo il “chi siamo?”, ma anche, visto il loro numero crescente, “come facciamo a procedere assieme?”. Si tratta in definitiva di un percorso di autocomprensione, anche in relazione alle diverse identità che cominciavano ad emergere tra i discepoli di Gesù.

Tutto questo 60-70 anni dopo che i seguaci di Gesù di Antiochia (At. 11,26) venivano chiamati per la prima volta, dagli altri (come gli ebrei ellenisti), “cristiani”: nel “Dialogo con Trifone” sono i discepoli di Gesù che si autodefiniscono cristiani. Anche questa situazione avviene al di fuori della Palestina (ad Efeso, nel caso specifico).

 

 

Una struttura ecclesiale?

Negli anni 60-70 alcuni autori affermavano che non era intenzione di Gesù di organizzare una struttura ecclesiale, come noi la conosciamo, ma promuovere l’attività per il Regno di Dio: era questo l’obiettivo dell’agire di Gesù di Nazareth. Ma ad un certo punto nasce la Chiesa come struttura.

Secondo altri autori, di ambito apologetico (esaltatorio e difensivo), Gesù aveva dato un orientamento di fondo per le prime comunità cristiane, istituendo i sacramenti dell’eucarestia e del battesimo, del matrimonio e del sacerdozio: tutte le strutture fondamentali, che daranno origine alla Chiesa, secondo costoro si devono a Gesù; se Lui le ha volute non si possono cambiare. Ad esempio, il presbiterato alle donne non è proponibile, visto che nell’ultima cena (quando è stata istituita l’eucarestia e quindi il sacerdozio) erano presenti solo maschi; se questa era volontà di Gesù, non è più possibile modificarla.

Era intenzione di Gesù creare una struttura? I primi discepoli hanno capito proprio questo? Nei Vangeli non c’è la storia o un resoconto della vita di Gesù, ma come le comunità hanno recepito il suo messaggio a partire dalla loro esperienza storica con il Nazareno. In essi noi leggiamo la storia delle comunità delle origini, cioè dei discepoli di Gesù di Nazareth: come le comunità marciana, matteana, lucana e giovannea, hanno capito il messaggio di Gesù. Quindi i Vangeli sono la storia di quelle comunità, e non la cronaca di Gesù. In questa logica, svanisce l’idea che Gesù abbia voluto dare indicazioni sulla struttura della “sua” Chiesa.

In Gesù c’era la consapevolezza dei lunghi tempi, tali da giustificare una struttura ecclesiale consolidata? Gesù era cosciente che la storia si sarebbe protratta all’indefinito, oppure pensava che essa avrebbe avuto un termine più immediato? Da quello che emerge dai Vangeli, tutto era proiettato nel breve periodo: le comunità delle origini non hanno posizionato il messaggio di Gesù sui tempi lunghi.

Per cui nel Nuovo Testamento noi troviamo il tempo breve e il momento della crisi, periodo in cui si inizia a pensare in termini di tempo dilungato.

Sarà il concilio di Trento (XVI secolo) che penserà, in modo sistematico, ai sette sacramenti come emanazione diretta di Gesù.

 

 

L’Israele definitivo

I cristiani della prima ora, quelli che storicamente hanno seguito Gesù, inizialmente della Galilea e in seguito della Samaria e della Giudea, come si comprendevano? Come andavano d’accordo, tenuto conto che a un certo punto subentrano anche i pagani?

Qualcosa emerge dal Nuovo Testamento. I primi discepoli avevano avuto consapevolezza di essere l’Israele definitivo, quello escatologico: non una nuova religione che si contrappone all’ebraismo, non un nuovo Israele che sostituisce il vecchio, ma quello che porta a compimento le antiche promesse. I discepoli di Gesù, chiamati apostoli (cioè inviati), sanno che l’Israele storico non è riuscito a realizzare se stesso, cioè a compiere le promesse che Dio ha fatto ad Abramo: esse verranno realizzate dai seguaci di Gesù.

Lc. 12, 32: “Non temere piccolo gregge, poiché il Padre vostro si è compiaciuto di dare a voi il regno”. Sono i discepoli di Gesù, nella logica del “piccolo gregge”, ad essere scelti dal Padre come lo strumento adatto per la realizzazione del Regno. Non si parla di un Regno dato e poi tolto all’Israele storico, per consegnarlo a quello definitivo.

Anche se in Matteo si nota la contrapposizione tra i Giudei sopravvissuti alla distruzione di Gerusalemme e le comunità cristiane, visto che queste ultime non avevano dato una mano a difendere la città (in Mc. 13,14, Gesù aveva invitato i discepoli a fuggire sulle montagne, nel caso di questa eventualità); il contrasto, e quindi la sostituzione, appare anche nella parabola della vigna di Dio, che viene data ad altri vignaioli (Mt. 21,33-41). Nella comunità matteana c’è dunque l’eco della sostituzione dell’Israele storico con quello definitivo, fondato su Gesù. Vedi anche la parabola del banchetto nuziale, dove i nuovi invitati sono venuti da ogni dove (Mt. 22,1-14).

Questa posizione di Matteo non è presente però in tutti i testi del Nuovo Testamento. L’idea di fondo è la presenza di questo Israele definitivo, ma non di una nuova religione.

 

La prima comunità dà l’impostazione

At. 2, 46-47: “Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo”.

E’ il primo ritratto della comunità delle origini (l’altro è in At. 4). Ma quale comunità? Quella di Gerusalemme, forse la prima ad essere nata. Probabilmente Luca (redattore di “Atti”) non ha conosciuto i discepoli di questa comunità (o almeno la comunità nella sua totalità), composta da giudeo-cristiani. Essa è presieduta dalla cosiddetta “famiglia”.

Se “ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio” significa che ne condividevano l’impostazione teologica: partecipazione alle preghiere comuni/liturgia delle ore; processi di purificazione, eccetera. Può darsi che si fermassero nel cortile dei gentili o nell’atrio delle donne. Però tutto fa pensare che fossero in linea con l’istituzione giudaica.

D’altra parte, la comunità di Gerusalemme era composta da cristiani ex-giudei, i primi arrivati, che avanzavano pretese nei confronti degli altri venuti dopo, che non avevano molte possibilità: o adeguarsi o andarsene. E’ la stessa logica dei lavoratori a giornata nella vigna, i quali si aspettavano di più per aver lavorato l’intera giornata, ma che Gesù però ribalta: anche l’ultimo arrivato ha pari dignità del primo, perché nessuno lo aveva chiamato. Ma la logica delle comunità delle origini è quella dei vignaioli.

Luca rientra nella seconda generazione dei discepoli di Gesù.

E’ per questo che solo Luca riporta l’episodio del “buon ladrone”, pentito e desideroso di entrare nel regno di Gesù: anche questo malfattore è un ultimo arrivato, ma il primo ad entrare nel paradiso. (Lc. 23,39-43). E’ la logica dei Vangeli: gli ultimi saranno i primi, o meglio “non ci saranno ultimi perché non ci sono primi”.

 

 

Il difficile percorso per comprendersi come una nuova comunità
La comunità di Gerusalemme da un lato frequenta il tempio e dall’altra torna a casa e spezza il pane (fractio-panis). Ma la frazione del pane non è la messa, come l’intendiamo noi: è qualcosa di diverso. Gesù infatti non ha mai “detto” messa, è la sua vita la sua grande liturgia di amore/eucaristia.

Non c’è un processo di presa di coscienza e di identità, ma è un percorso un po’ strano. Allo stesso tempo, lodano Dio al tempio e nello spezzare il pane: di più nel primo caso, visto che “godendo la simpatia di tutto il popolo” non si distinguono dalla comunità ebraica, se non nello spezzare il pane. E sono due modi di lodare completamente diversi.

Stiamo parlando di una comunità di discepoli di Gesù che vive osservando la liturgia ebraica, seguendo il calendario giudaico, osservando il sabato:

“Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto. Il primo giorno della settimana, al mattino presto esse si recarono al sepolcro, portando con sé gli aromi che avevano preparato” (Lc. 23, 55-56.24,1).

Il venerdì sera si spezzava il pane anche nella comunità giudaica. Quando compaiono le prime tre stelle in cielo inizia la giornata del sabato, la donna di casa accende due candele, dice la prima preghiera, e solo dopo inizia la liturgia del sabato. Entrano così in vigore diverse proibizioni, tra cui accendere un’altra luce in casa. Le due candele richiamano il passo del primo libro della Bibbia, “Dio disse: « Sia la luce! » E la luce fu” (Gn. 1,3). Quelle luci rappresentano Dio. La stessa luce di cui parla l’ultimo libro della Bibbia, quello dell’Apocalisse: La Gerusalemme celeste “non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina” (Ap. 21,23), cioè Dio è la sua luce.

La comunità cristiana di Gerusalemme, sul piano dell’identità, si comprende in profonda relazione col giudaismo, ed il popolo tutto sommato la considera simile.

E come si pongono con le parole di Gesù in relazione al tempio? Ricordiamoci che Gesù aveva nullificato il ruolo del tempio, puramente economico, cacciando venditori e compratori: un tempio blasfemo che veicolava un’idea di Dio completamente fuorviante, dove si comprava il perdono di Dio. Per Gesù il perdono e l’amore di Dio sono gratuiti e non vanno comprati, nemmeno meritati.

Qui c’è un lungo cammino da fare per la comunità cristiana, tra le parole di Gesù sul tempio e il fatto di continuare a frequentarlo.

Nella stessa opera lucana troviamo Gesù che considera il tempio inutile e blasfemo e una comunità cristiana che, senza Gesù, ne condivide l’impostazione teologica.

Quando e come questa comunità troverà lo spunto per tagliare il cordone ombelicale col giudaismo?

Agli inizi degli anni quaranta, il re Erode Agrippa “cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa, e fece uccidere di spada Giacomo fratello di Giovanni. Vedendo che questo era gradito ai Giudei, decise di arrestare anche Pietro.” (At. 12,1-3).

Giuseppe Flavio afferma che Giacomo il minore, “il fratello di Gesù”, divenne il capo della Chiesa di Gerusalemme dopo la morte di Gesù e ne colloca la morte nel 62 per lapidazione, su comando del sommo sacerdote Anania.

E’ certo che con l’uccisione di Giacomo il maggiore prima e il minore dopo, i discepoli di Gesù si rendono conto che non godono più del favore del popolo.

 

 

Primi passi e primi scontri
E’ interessante pure il caso della colletta a favore della comunità di Gerusalemme, in seguito a una carestia, che in quella terra semidesertica era tutt’altro che rara. E’ una colletta di raccolta soldi, che vengono via via inviati alla comunità. Ma perché solo la comunità di Gerusalemme patirà la fame?

In At. 2,42 troviamo che “erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”: ricordano alcuni episodi della vita di Gesù (memoria e sua attualizzazione), stanno insieme (unione fraterna), frazionano il pane e pregano (salmi). E’ la fractio-panis (struttura base della futura messa): nelle prime famiglie e comunità cristiane si fa questo e viene gestito dal padrone o dalla padrona di casa, cioè chi mette a disposizione la propria casa. Quando il numero crescerà si cercheranno dei locali più capienti: qualche sala (anche sinagoga), ma poi con l’aumentare dei discepoli una costruzione adatta allo scopo. Si comincia con un luogo domestico e si finisce con un luogo dedicato al culto; qui cominciano i problemi: con il luogo ad hoc si costituisce la persona ad hoc, incaricato a gestire questo spazio comunitario.

“Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.” (At. 2,44-45)

Nel secondo riquadro riferito alla comunità di Gerusalemme, la situazione cambia: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.” (At. 4,32-35).

E’ un quadretto idilliaco, poco realistico.

 

 

La logica che tiene viva una comunità
Com’è possibile che prima “nessuno era bisognoso” e poi diverranno tutti bisognosi, tanto da richiedere una colletta per loro?

Spesso anche noi, quando vogliamo dare l’idea di una comunità che si relaziona col Vangelo di Gesù, citiamo questi due brani di Atti 2 e Atti 4, dimenticandoci che questa comunità patirà la fame e scomparirà.

In questi riquadri troviamo l’ironia e il sarcasmo di Luca: Gesù aveva chiesto a chi voleva seguirlo di vendere ciò che aveva per darlo ai poveri. Voleva andare in paradiso? Bastava seguire i comandamenti. Vivere per sperare nel paradiso è sprecare l’esistenza, non serve a nulla: bisogna vivere per procurare il paradiso agli altri, qui, e non per procurare il paradiso a te stesso, perché è puro egoismo. Per Gesù le persone egoiste non sono adatte per il Regno, perché non sono persone libere. Se uno vuole essere strumento del Regno e non essere interessato al proprio paradiso, venda quello che ha (perché possedere non rende libero) e segua Gesù.

In altre parole: si liberi di tutto e lo dia al fuori di sé.

La comunità di Gerusalemme ha venduto tutto, ma se lo è trattenuto, “deponendolo ai piedi degli apostoli”. E’ in questa circostanza che nasce la figura del “vescovo”, cioè dell’amministratore di beni. Gli apostoli vengono scambiati per amministratori. Questa comunità ha tenuto per sé ed ha patito la fame. Le altre comunità invece (come quella di Antiochia) superano la crisi e diventano strumento per gli altri.

Quello di Atti, è lo stesso autore che nel Vangelo ricorda il monito di Gesù: “anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni” (Lc. 12,15). E alla fine della parabola di chi aveva accumulato molto grano nel magazzino: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio” (Lc. 12,20-21).

Come dire: chi tiene per sé perde tutto e chi perde la propria vita per gli altri la ritrova.

Questo messaggio evangelico la comunità di Gerusalemme non l’ha capito, essendo una comunità chiusa: il ricavato è stato ceduto ai propri poveri. Per questo è stata la prima comunità a scomparire.

Questi due riquadri non vanno letti come il grande mito delle prime comunità a cui rifarsi perché se facciamo come quelle siamo a rischio scomparsa.

 

 

Lo scontro con l’istituzione giudaica
Nella sua apocalisse (Mc. 13), Marco, per farsi meglio intendere, scrive “chi legge capisca” (Mc. 13,14b); come dire che l’autore è responsabile di quello che scrive, non di quello che capisce il lettore.

Mc. 13,9a: “Ma voi badate a voi stessi! Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe”. E’ lo scontro con il mondo giudaico, ribadito anche in Mt. 10,17: “Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe”. Ma in Matteo lo scontro avviene anche con il mondo romano.

La comunità delle origini ha coscienza di essere l’Israele definitivo, cioè escatologico (dei tempi ultimi), e non si comprende come una nuova religione. I Dodici infatti saranno sempre intesi come rappresentanza dell’Israele ultimo e non come nuova istituzione in concorrenza con il sinedrio: non gli eredi della promessa di Dio ad Abramo, ma coloro che concretizzano tale promessa; non la continuità dell’Israele storico, ma la realizzazione della promessa di Dio fatta all’Israele storico. In quest’ottica le comunità delle origini leggono l’Antico Testamento: le promesse di Dio si realizzeranno in queste comunità, perché il mondo giudaico non è stato in grado di attuarle. Quella cristiana non è perciò una comunità contrapposta al sinedrio, perché non ne è la sua continuazione. Quindi non un’istituzione contro un’altra istituzione, anche se c’è lo scontro.

 

2.           La Chiesa giudeocristiana e il legame con la tradizione giudaica
Varie comunità convocate e movimentate da Gesù
Prende coscienza nei discepoli di Gesù che la propria “essenza” non può tradursi in ordinamenti, in istituzioni storiche, in ministeri storici: ha a che fare con una grandezza trascendente, che si realizza a partire dall’essere chiamati (convocati) dalla Parola di Gesù e dall’essere movimentati dall’azione del suo Spirito (dono dell’era dei tempi ultimi). La Comunità dei primi decenni sa che esiste non perché c’è una struttura, ma perché è chiamata dalla Parola di Gesù e perché opera sotto l’azione dello spirito di Gesù.

Quindi non c’è bisogno di un luogo, di una struttura, di funzionari (…): bastava essere missionari carismatici itineranti, senza alcuna valenza giuridica (senza norme che stabilissero il loro comportamento).

Cent’anni dopo, nel citato “Dialogo con Trifone” (n. 47) troviamo citate, invece, sei tipologie di discepoli di Gesù (citazione da Mauro Pesce in Quando nasce il cristianesimo? Alcune ipotesi):

–      Giudei che credono in Cristo, osservano la Legge di Mosè, scelgono di vivere insieme con i cristiani e i fedeli, ma non li inducono ad osservare la Torah.

–      Giudei che credono in Cristo, osservano la Legge di Mosè, scelgono di non vivere insieme con i cristiani e i fedeli, oppure pretendono che i cristiani osservino la Torah.

–      Giudei che scomunicano Cristo nelle sinagoghe. Con probabilità costoro si opponevano a quei giudei, tra loro, che credevano che Gesù fosse il Messia.

–      Cristiani, cioè non-giudei che credono in Cristo, che non osservano la Legge di Mosè e accettano di vivere insieme con i giudei che sono seguaci di Gesù.

–      Non-giudei che in un primo tempo diventano seguaci di Gesù, poi in un secondo tempo aggiungono alla fede in Gesù anche l’osservanza della Legge di Mosè e in un terzo momento osservano la Torah cessando di credere in Gesù.

 

Sono diverse comunità che vivono nelle città dell’epoca. In ogni città dell’Asia Minore non c’era una sola comunità cristiana, ma diverse e di vario tipo: l’identità cristiana non era del tutto chiara. Qualcuna di queste comunità avrà il sopravvento, qualcun’altra scomparirà.

Con Costantino (attraverso il concilio di Nicea del 325) ci sarà la prima botta a questa diversità, con Teodosio (attraverso l’editto di Tessalonica del 380), ci sarà la normalizzazione definitiva: chi non avrà più quel determinato tipo di identità sarà considerato eretico. Il fatto è che nel IV secolo entrerà in gioco la politica dei due imperatori, Costantino e Teodosio, e con quest’ultimo la vera alleanza trono-altare.

 

Gli scritti importanti per la Chiesa della circoncisione
Quali sono i testi di riferimento della Chiesa giudeo-cristiana? Ad esempio la Lettera di Giacomo (Gc) e la Lettera di Giuda (Gd) che inizia con “Giuda, servo di Gesù Cristo, fratello di Giacomo” (Gd 1,1) e che è molto simile alla seconda Lettera di Pietro.

E’ probabile che le due lettere abbiano comportato il tardivo riconoscimento nel canone biblico, in quanto forse non ben viste dalle comunità etnico-cristiane.

Ci sono poi alcuni testi liturgici usati dalla comunità giudeo-cristiana, letti e commentati durante le riunioni e la fractio panis: testi che noi consideriamo apocrifi, come il Vangelo degli Ebrei o il Vangelo dei Nazarei, ritenuto secondo alcuni la versione aramaica del Vangelo di Matteo; come dire che la versione originale di Matteo per costoro è stata scritta in lingua aramaica, poi tradotta in greco da un ebreo ellenista. Non abbiamo però traccia di questo vangelo. C’è anche il Vangelo degli Ebioniti, nato anch’esso all’interno della tradizione giudeo-cristiana e contrario a certe posizioni di Paolo; oppure il Vangelo di Pietro, il proto-vangelo di Giacomo, molto utilizzato nell’ambito della pittura per illustrare la natività di Maria. Il Vangelo di Tommaso, molto importante e della metà del II secolo (scoperto nella metà del ‘900), oppure il Vangelo di Nicodemo, che descrive la discesa di Gesù agli inferi.

Dunque si tratta di testi usati dai cristiani provenienti dal mondo giudaico (prevalentemente palestinese) nelle loro assemblee.

 

 

La Didaché: un testo per i neofiti, ancora impregnato di cultura ebraica
Queste comunità avevano anche altri libretti, simili ai nostri catechismi, ad uso dei neofiti che devono fare un percorso catecumenale (come preparazione al battesimo).

Ecco la Didaché, cioè l’insegnamento degli apostoli (contemporaneo al vangelo di Matteo, siamo verso la fine del primo secolo), il Pastore di Erma, le Odi di Salomone, il Libro dei segreti di Enoch (un tipo di apocalisse), l’Ascensione di Isaia, il Testamento di Salomone, il Vangelo della Verità.

Sono testi apocrifi importantissimi per i primi secoli dell’era cristiana, poiché nel lungo termine daranno vita a delle tradizioni ancora presenti (es. la ribellione degli angeli a Dio, che troviamo anche nella seconda lettera di Pietro).

Nella Didaché, il neofita che vuole diventare discepolo di Gesù deve scegliere tra due vie: quella del bene (della vita) e quella del male (della morte), una va scelta e l’altra va scartata.

“Due sono le vie, una della vita e una della morte, e la differenza è grande fra queste due vie. Ora questa è la via della vita: innanzi tutto amerai Dio che ti ha creato, poi il tuo prossimo come te stesso; e tutto quello che non vorresti fosse fatto a te, anche tu non farlo agli altri.” (Didaché 1,1-2).

Questa non è altro che la “regola d’oro” dell’ebraismo.

“Ecco pertanto l’insegnamento che deriva da queste parole: benedite coloro che vi maledicono e pregate per i vostri nemici; digiunate per quelli che vi perseguitano; perché qual merito avete se amate quelli che vi amano? Forse che gli stessi gentili non fanno altrettanto? Voi invece amate quelli che vi odiano e non avrete nemici.” (Didachè 1,3). C’è qui un miscuglio di cristianesimo (come il non avere nemici), di ebraismo (come il digiuno) di idee proprie (come le brame della carne). Esso risente quindi delle preoccupazioni anche di tipo etico delle varie comunità, che spesso deducono dal Vangelo tematiche che in realtà non contiene.

“Tieniti lontano dalle brame disordinate della carne e del corpo. Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra e sarai perfetto; se uno ti costringe ad accompagnarlo per un miglio, tu prosegui con lui per due. Se uno porta via il tuo mantello, dagli anche la tunica.” (Didaché 1,4).

Qui siamo perfettamente dentro il testo evangelico. Evidentemente ci sono già dei bei blocchetti di fogli con i detti di Gesù che circolano.

“Si bagni di sudore l’elemosina nelle tue mani, finché tu sappia a chi la devi fare” (Didaché 1,6). Come dire: devi conoscere chi ha ricevuto la tua elemosina. Il Vangelo però dice “Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” (Mt 6,3); anche nel mondo ebraico si ritiene opportuno non conoscere il destinatario della tua elemosina, per evitare che lui si debba sentire riconoscente nei tuoi confronti.

Resta comunque un detto attribuito a Gesù (=agrapha) ma non presente nei vangeli.

I peccati che allontanano dalla via della vita: “Non ucciderai, non commetterai adulterio, non corromperai fanciulli, non fornicherai” (Didaché 2,2): torna l’ambito della sessualità, assente nei Vangeli, ma il nostro testo è un catechismo e quindi qualche elemento può cambiare.

E ancora: “Non ruberai, non praticherai la magia, non userai veleni, non farai morire il figlio per aborto né lo ucciderai appena nato; non desidererai le cose del tuo prossimo. Non sarai spergiuro, non dirai falsa testimonianza, non sarai maldicente, non serberai rancore. Non avrai doppiezza né di pensieri né di parole, perché la doppiezza nel parlare è un’insidia di morte. La tua parola non sarà menzognera né vana, ma confermata dall’azione. Non sarai avaro, né rapace, né ipocrita, né maligno, né superbo; non mediterai cattivi propositi contro il tuo prossimo. Non odierai alcun uomo, ma riprenderai gli uni; per altri, invece, pregherai; altri li amerai più della tua vita.” (Didaché 2,2-7).

“Sii invece mansueto, perché i mansueti erediteranno la terra.” (Didaché 3,7).

Qui invece viene citato il Vangelo, ma interpretando diversamente il testo di Matteo (“Beati i miti, perché erediteranno la terra” Mt 5,5): mentre la mansuetudine è una virtù personale, i miti di cui parla Matteo sono coloro che sono stati privati della terra (nel mondo ebraico terra è sinonimo di dignità, per cui un uomo senza terra è un non-uomo), gli spossessati e costoro potranno ereditare non solo la terra di appartenenza ma il mondo intero solo se ci sarà un gruppo che ha deciso di non tenere per sé ma di condividere ciò che ha e ciò che è, cioè coloro che hanno messo in pratica la prima beatitudine.

Nella Didaché si vuole lavorare anche sul carattere delle persone: se uno vuole ricevere il battesimo dovrà cambiare scala valoriale, atteggiamento personale ed anche il proprio il carattere per quanto possibile.

 

 

Battesimo e digiuno per i giudeo-cristiani
La Didaché è anche un testo liturgico, per cui vi troviamo le istruzioni sul battesimo per immersione: “Riguardo al battesimo, battezzate così: avendo in precedenza esposto tutti questi precetti, battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in acqua viva.” (Didaché 7,1).

Si sta facendo strada l’introduzione della formula trinitaria, che fino a questo momento non c’è: nei primi anni la formula è nel nome di Gesù, e basta. La formula trinitaria entrerà poi anche nel Vangelo di Matteo. “In acqua viva” significa in acqua corrente (torrente, ruscello, fiume): non ci sono ancora le vasche battesimali (riprese dalla tradizione di Qumran), perché è ancora forte la memoria del Battista e dell’esperienza di Gesù nel Giordano.

“Se non hai acqua viva, battezza in altra acqua; se non puoi nella fredda, battezza nella calda. Se poi ti mancano entrambe, versa sul capo tre volte l’acqua in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.” (Didaché 7,2-3).

Si cominciano a dare indicazioni di ogni tipo. Siamo verso la fine del I secolo e dopo il battesimo per immersione abbiamo già quello per aspersione.

“E prima del battesimo digiunino il battezzante, il battezzando e, se possono, alcuni altri. Prescriverai però che il battezzando digiuni sin da uno o due giorni prima.” (Didaché 7,4). Qui il digiuno dà l’idea del cammino penitenziale, abbandonando così il mondo di peccato precedente.

“I vostri digiuni, poi, non siano fatti contemporaneamente a quelli degli ipocriti (i farisei); essi infatti digiunano il secondo (lunedì) e il quinto (giovedì) giorno della settimana, voi invece digiunate il quarto (mercoledì) e il giorno della preparazione (sesto).” (Didaché 8,1).

Quando mai Gesù nei Vangeli ha detto di digiunare?

“E Gesù disse loro: « Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno.»” (Mt 9,15).

Qui Gesù sta parlando del momento della propria morte, ma non si tratta di un digiuno religioso: semplicemente, quando muore una persona cara non si ha voglia di mangiare.

Questo del digiuno è un altro aspetto delle comunità giudeo-cristiane: è simile a quello dei farisei, ma non negli stessi giorni. Il digiuno del venerdì resterà nella tradizione cristiana. Dopo oltre tre secoli verrà ripreso anche il digiuno del mercoledì delle ceneri; ed anche il sistema quaresimale, nel momento in cui cessano le persecuzioni. La quaresima sarà un periodo penitenziale per un motivo ben preciso: nel momento in cui il cristianesimo diverrà religione ufficiale, diventare cristiani sarà l’unico modo per fare carriera, con motivazioni radicalmente diverse da quelle dei primi tre secoli; ecco allora la necessità di un periodo di digiuno in prossimità della Pasqua, per attenuare una vita sostanzialmente pagana.

 

 

Preghiere ed eucaristia nella Didaché
“E neppure pregate come gli ipocriti, ma come comandò il Signore nel suo vangelo, così pregate: Padre nostro che sei nel cielo, … ma liberaci dal male; perché tua è la potenza e la gloria nei secoli.” (Didaché 8,2). Qui c’è la terza versione del Padre Nostro simile a quella di Matteo. E’ molto probabile che la formula del Pater circolasse nelle comunità ben prima della redazione finale del vangelo secondo Matteo.

E aggiunge: “Pregate così tre volte al giorno.” (Didaché 8,3). Tre volte al giorno come gli ebrei: come loro, ma con una preghiera diversa.

Durante la frazione del pane, prima dell’eucaristia, si recitano alcune preghiere.

“Riguardo all’eucaristia, così rendete grazie: Dapprima per il calice: Noi ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vite di David tuo servo, che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo. A te la gloria nei secoli.” (Didaché 9,1-2).

Il titolo che qui si dà a Gesù è quello di servitore di Dio: è questo il primo titolo che le comunità delle origini danno a Gesù. E’ una ripresa di Isaia (capp. 42, 49, 50, 52 e 53): sono i capitoli del servo di JHWH, applicati a Gesù dai primi cristiani. Non c’è qui ancora il Cristo trionfante, la cristologia di Nicea (il Figlio della stessa sostanza del Padre, 325).

“Nessuno però mangi né beva della vostra eucaristia se non i battezzati nel nome del Signore, perché anche riguardo a ciò il Signore ha detto: Non date ciò che è santo ai cani.” (Didaché 9,5). A questo pasto si avvicinano solo i battezzati: i catecumeni che si avvicinano al battesimo possono presenziare ma non partecipare alla mensa (cioè mangiare e bere). Perché? Si riprende un passo di Matteo “Non date le cose sante ai cani” (Mt 7,6), ma con una intenzione escludente.

Così in Atti troviamo Pietro che battezza Cornelio (At 10) senza chiedergli alcun percorso catecumenale o penitenziale.

Nella Didaché sono richieste invece alcune condizioni, segno che i gesti sacramentali sono diversi da zona a zona. Le comunità giudeo-cristiane si rifanno alla propria tradizione religiosa, in cui la Torah svolgeva una mediazione tra JHWH e il suo popolo: una Legge che si traduceva in preghiere, in formulari, in gesti, in orari, in luoghi, in spazi particolari.

Esattamente il contrario di quanto ha detto e fatto Gesù: ecco che la Parola di Gesù si salvaguarda nei territori fuori della Palestina. Il battesimo di Cornelio è più evangelico di quello previsto dalle norme della Didaché, ma questa è già un catechismo, pensato per preparare quelli che si apprestano a diventare cristiani.

Anche tutto quello che facciamo oggi per la preparazione ai sacramenti, nei Vangeli o in Atti non lo troviamo: fare la riconciliazione prima dell’eucaristia infonde l’idea che bisogna mettersi in condizione di purità. E questo lo troviamo nelle tradizioni giudeo-cristiane.

Nei Vangeli invece troviamo espressioni di libertà radicali e chi dà adesione a Gesù non ha bisogno di luoghi, di tempi, di norme, eccetera. Tutto questo è realizzabile se il tempo è breve ed è la questione della Chiesa primitiva che aspettava da un momento all’altro la parusia (il ritorno di Cristo); ma quando i tempi cominciano a farsi più lunghi diventa difficile vivere la totale libertà; se il numero degli aderenti aumenta sempre più, nasce la necessità di strutturarsi in organizzazione e di fare ordine, utilizzando tutto quello che hai già (la cultura ebraica) modificandolo in base ai nuovi tempi. E’ ovvio che norme e pratiche così istituite vanno relativizzate e non consolidate nei secoli, come invece è successo.

 

 

Giacomo e la Chiesa di Gerusalemme
Con la lapidazione di Stefano (anno 36, possibile anche il 33), i cristiani provenienti dal mondo ellenista lasciano la città di Gerusalemme e si diffondono prevalentemente nel mondo mediorientale (molti arrivano ad Antiochia).

La comunità giudeo-cristiana resta indisturbata a Gerusalemme, fino all’avvento di Erode Agrippa I, re dal 41 al 44. Costui, per accaparrasi il favore del popolo e soprattutto quello dei farisei (molto ben visti dal popolo, a differenza dei sadducei), fa uccidere Giacomo il maggiore (uno dei Dodici, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni) e imprigiona Pietro. Siamo probabilmente nella Pasqua del 44.

“In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che questo era gradito ai Giudei, decise di arrestare anche Pietro. Erano quelli i giorni degli azzimi.” (At 12,1-3).

Dunque la Chiesa giudeo-cristiana, dal 36 al 44, rimane relativamente tranquilla a Gerusalemme, anche senza i cristiani ellenisti. Il Giacomo di cui si parlerà in seguito fa parte del gruppo dei fratelli di Gesù.

Pietro, liberato miracolosamente, “si reca alla casa di Maria, madre di Giovanni detto anche Marco” (At 12,12), e ai presenti dice: “«Riferite questo a Giacomo e ai fratelli»” (At 12,17).

Dunque Pietro non torna presso la comunità di Gerusalemme, ma si porta in un’altra dove troviamo appunto Maria e Marco. Saranno costoro che dovranno riferire della sua liberazione dal carcere alla comunità guidata da un certo Giacomo, fratello di Gesù.

La gente di Nazareth dice di Gesù: “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?”. (Mc 6,3)

E ancora, con il racconto di Paolo, databile attorno al 39: “In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore.” (Gal 1,18-19).

Il Giacomo di cui parla Marco è lo stesso che troviamo nella Lettera ai Galati?

Sempre in Galati, Paolo dice che “riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione” e “prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, Cefa prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi.” (Gal 2,9.12)

Nella prima Lettera ai Corinzi (databile tra il 54 e il 56), “Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?” (1Cor 9,5), “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli.” (1Cor 15,3-7).

E’ interessante notare che il termine fratello riferito a Giacomo è lo stesso impiegato per i 500; inoltre Giacomo è qui sopra considerato a parte rispetto agli altri apostoli. Diventa quindi problematico identificare bene questo Giacomo, nonostante la Prima Lettera ai Corinzi sia uno dei testi più antichi del Nuovo Testamento.

Lo scrittore cristiano Egesippo (II secolo, epoca sub-apostolica), nella sua Storia della Chiesa, afferma che questo Giacomo ha guidato la Chiesa di Gerusalemme insieme agli apostoli. Probabilmente dopo la partenza di Pietro nel 44.

Allo stesso modo si esprimono Clemente Alessandrino (fine II – inizio III sec.), Girolamo (347-420) ed Eusebio di Cesarea (265-340) nella sua monumentale Storia Ecclesiastica: “In quel tempo Giacomo, detto fratello del Signore, poiché anch’egli era chiamato figlio di Giuseppe – e Giuseppe era padre di Cristo e la Vergine sua promessa sposa, la quale, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo, come insegna il sacro testo evangelico -, questo stesso Giacomo, dunque, soprannominato dagli antichi anche il Giusto in virtù dei suoi meriti, fu il primo, dicono, ad occupare il trono episcopale della Chiesa di Gerusalemme” (dichiarazione di Egesippo, riportata da Eusebio).

 

 

Pietro o Giacomo alla guida della prima comunità?
Ma questa guida della comunità è iniziata prima o dopo la partenza di Pietro da Gerusalemme? Sappiamo solo che Pietro, dopo l’uccisione di Giacomo il Maggiore (nel 44), abbandona la Chiesa di Gerusalemme: qui resterà questo gruppo giudeo-cristiano con alla testa Giacomo.

Prima del 44 secondo alcuni la comunità era guidata da Pietro, secondo altri studiosi da Pietro insieme agli altri. La sopracitata Lettera ai Galati conferma questa seconda ipotesi, senza precisare però il grado gerarchico di Pietro e Giacomo. La questione è importante poiché non è chiaro il ruolo di Pietro nella comunità. Ci penseranno i Vangeli nella loro redazione definitiva a definire meglio questo aspetto. Matteo scriverà “Tu sei Pietro (=petros) e su questa pietra(=petra) edificherò la mia chiesa” (Mt 16,18). Perché? Quello di Matteo è un Vangelo giudeo-cristiano che storicamente sente l’eco di questa diatriba, rispetto alla quale vuole dare una risposta: nella Chiesa di Gerusalemme un certo ruolo deve spettare a Pietro.

Anche Luca nel suo Vangelo ricorderà ciò che Gesù disse a Pietro “ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).

Pure nel Vangelo di Giovanni a un certo punto verrà aggiunto il capitolo 21, in cui troviamo “Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami (=agapas) tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene (=philo)». Gli disse: «Pasci i miei agnelli»” (Gv 21,15). Quest’aggiunta servirà anche a definire meglio il ruolo di Pietro nell’ambito di questa vicenda storica, cioè della primitiva comunità cristiana.

Dal momento in cui Pietro lascia Gerusalemme nel 44, ci sarà Giacomo il Giusto (fratello di Gesù) a guidare quella comunità fino al 62, anno della sua lapidazione. Ma dal 44 al 62 chi sarà il leader della Chiesa primitiva nel suo insieme? Chi sarà il leader, Pietro o Giacomo? Ecco perché gli evangelisti cercheranno di dare una risposta, focalizzando il ruolo di Pietro. Anche perché nel frattempo si è rafforzata la figura di Paolo: è lui fanno riferimento buona parte delle comunità ellenistiche, ancor più che a Pietro.

A Paolo verrà sempre rinfacciato il fatto di non essere del gruppo dei 12, a tal punto che lui dovrà dire di aver avuto una visione, nella quale Gesù stesso l’ha chiamato e insediato nel gruppo degli apostoli.

Troviamo quindi la linea di Paolo (specie tra i cristiani ellenisti provenienti dalla sinagoga degli ebrei ellenisti), quella di Giacomo e della Chiesa della circoncisione (specie tra i giudeo-cristiani) e quella di Pietro (specie tra i pagani convertiti).

 

 

La comunità di Giacomo osserva la Torah
Se la Chiesa giudeo-cristiana guidata da Giacomo (il Giusto), dopo il 44, rimane indisturbata a Gerusalemme significa che questa osserva la Legge (Torah) ed è inserita quindi nella tradizione giudaica. E’ forse questo il motivo per cui il nostro Giacomo riceve l’appellativo di «Giusto», che significava «osservante della Legge». Anche Giuseppe, il marito di Maria, viene definito «giusto» (“Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto” Mt 1,19).

I «giusti» costituivano una confraternita di persone che si impegnava ogni giorno ad osservare la Legge. Il termine «giusto» quindi non ha valenza etica, ma indica semplicemente colui che vive secondo i dettami della Torah. Questo Giacomo, definito «il giusto»,  non ha ancora reciso il suo cordone ombelicale col giudaismo di provenienza.

 

 

Una Chiesa conformata al sinedrio/collegio della sinagoga.
Al capitolo 15 degli Atti degli apostoli, durante il sinodo di Gerusalemme, troviamo Giacomo che di fatto governa con il collegio degli anziani la Chiesa della città: “Fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro andassero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione” (At 15,2).

Con la presenza degli anziani (presbyteri) si deduce che la Chiesa di Gerusalemme è diventata un’organizzazione fondata sul modello del sinedrio/collegio della sinagoga. Vi erano nella comunità di Gerusalemme anche appartenenti alle classi sacerdotali?

“Giunti poi a Gerusalemme, furono ricevuti dalla Chiesa, dagli apostoli e dagli anziani” (Ap 15,4); “Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo problema.” (At 15,6); “Quand’essi ebbero finito di parlare, Giacomo prese la parola” (At 15,16).

In sintesi: Giacomo e i notabili guidano la Chiesa di Gerusalemme; dopo che Pietro ha fatto il suo discorso di giustificazione del proprio operato, è Giacomo che prende la parola, come dire che il ruolo di leader spetta a lui.

Si parla di apostoli e di presbiteri (cioè gli anziani): con probabilità i presbiteri sono sacerdoti ebrei convertiti al cristianesimo, conservando nella nuova comunità un certo ruolo che prima avevano in forza della loro cultura e del loro ministero. Questa componente mantiene una certa autorevolezza anche all’interno della Chiesa. Saranno fra i destinatari della Lettera agli Ebrei. Gli anziani rappresentavano la componente laica del sinedrio, visti ad esempio nel caso dell’adultera da lapidare, dove sono i primi ad andarsene. Nella nuova comunità gli anziani-presbiteri svolgono un ruolo diverso, anche se di fatto richiamano il sinedrio/sinagoga.

Negli Atti troviamo Barnaba, Giuda, Sila: chi sono? Secondo alcuni studiosi si tratta di ex sacerdoti che sono entrati nella comunità cristiana per andare con Paolo verso il mondo pagano.

“«Mosè infatti, fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato nelle sinagoghe». Allora gli apostoli, gli anziani e tutta la Chiesa decisero di eleggere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda chiamato Barsabba e Sila uomini tenuti in grande considerazioni tra i fratelli.” (At 15,21-22).

Essendo tenuti in grande considerazione all’interno della comunità, significa che facevano parte del gruppo dirigente.

 

3.           Crisi e rottura col giudaismo
Il laccio della tradizione giudaica
Come si nota, la Chiesa di Gerusalemme durante la guida di Giacomo gode di una relativa tranquillità. Quando Paolo termina il suo terzo viaggio dopo aver raccolto i soldi della colletta, nella Pentecoste del 58, si presenta a Giacomo e agli altri.

“Arrivati a Gerusalemme, i fratelli ci accolsero festosamente. L’indomani Paolo fece visita a Giacomo, insieme con noi: c’erano anche tutti gli anziani. Dopo aver rivolto loro il saluto, egli cominciò a esporre nei particolari quello che Dio aveva fatto tra i pagani per mezzo suo. Quand’ebbero ascoltato, essi davano gloria a Dio;” (At 21,17-20a).

Dunque c’è la “curia” di Gerusalemme al gran completo che dapprima ascolta, e poi gli fanno notare: “«Tu vedi, o fratello, quante migliaia di Giudei sono venuti alla fede e tutti sono gelosamente attaccati alla legge.” (At 21,20b).

Sembra un discorso tra sordi: la testimonianza di Paolo era di tutt’altro tono, mentre le parole di Giacomo e del gruppo dirigente vogliono puntualizzare e controbattere.

“Ora hanno sentito dire di te che vai insegnando a tutti i Giudei sparsi tra i pagani che abbandonino Mosè, dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le nostre consuetudini. Che facciamo? Senza dubbio verranno a sapere che sei arrivato. Fa’ dunque quanto ti diciamo: vi sono fra noi quattro uomini che hanno un voto da sciogliere.” (At 21,21-23).

Qui stanno parlando del voto di nazireato.

Una delle quattro torri che delimitavano l’atrio delle donne nel tempio era destinata a chi faceva il voto di nazireato e a chi lo andava a sciogliere. Tra le varie prescrizioni c’era il divieto di tagliarsi i capelli.

“Prendili con te, compi la purificazione insieme con loro e paga tu la spesa per loro perché possano radersi il capo. Così tutti verranno a sapere che non c’è nulla di vero in ciò di cui sono stati informati, ma che invece anche tu ti comporti bene osservando la legge. Quanto ai pagani che sono venuti alla fede, noi abbiamo deciso ed abbiamo loro scritto che si astengano dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, da ogni animale soffocato e dalla impudicizia.” (At 21, 24-25).

Qui l’impudicizia va intesa come partecipazione ai riti pagani, che spesso avevano anche un risvolto orgiastico.

“Allora Paolo prese con sé quegli uomini e il giorno seguente, fatta insieme con loro la purificazione, entrò nel tempio per comunicare il compimento dei giorni della purificazione, quando sarebbe stata presentata l’offerta per ciascuno di loro. Stavano ormai per finire i sette giorni, quando i Giudei della provincia d’Asia, vistolo nel tempio, aizzarono tutta la folla e misero le mani su di lui gridando: « Uomini d’Israele, aiuto! Questo è l’uomo che va insegnando a tutti e dovunque contro il popolo, contro la legge e contro questo luogo; ora ha introdotto perfino dei Greci nel tempio e ha profanato il luogo santo! ». Avevano infatti veduto poco prima Tròfimo di Èfeso in sua compagnia per la città, e pensavano che Paolo lo avesse fatto entrare nel tempio.” (At 21,26-29).

Ciò significava che l’aveva portato oltre l’atrio dei gentili, nell’area riservata ai soli ebrei, e questo comportava la morte.

“Allora tutta la città fu in subbuglio e il popolo accorse la ogni parte. Impadronitisi di Paolo, lo trascinarono fuori del tempio e subito furono chiuse le porte. Stavano già cercando di ucciderlo, quando fu riferito al tribuno della coorte che tutta Gerusalemme era in rivolta. Immediatamente egli prese con sé dei soldati e dei centurioni e si precipitò verso i rivoltosi. Alla vista del tribuno e dei soldati, cessarono di percuotere Paolo.” (At 21,30-32).

Nonostante il concilio di Gerusalemme e la positiva attività di Paolo, la comunità della circoncisione si irrigidisce e fa capire a Paolo che è su una strada diversa. Il legame alla propria tradizione è ancora molto forte.

 

 

Spezzare la tradizione per portare il messaggio di Gesù a tutti
“Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventare partecipe con loro.” (1Cor 9,19-23).

Paolo nasce ebreo, quindi circonciso e sotto la Legge; poi, chiamato da Cristo, non si è sentito più sotto la Legge. Anche con i pagani (coloro che non hanno Legge) Paolo si manifesta come uno che ha cambiato prospettiva nei confronti di Dio, senza aver cessato l’alleanza con Lui: è però in una prospettiva radicalmente diversa, in cui rilegge la storia in base alla sequela di Gesù. Il Dio che resta nella testa di Paolo è quello di prima (il Dio dell’alleanza abramitica), solo che grazie a Cristo l’alleanza non è più solo tra Dio e Israele, ma tra Dio e l’umanità. Quindi non cambia l’idea su quel Dio, non diventa cristiano Paolo, ma discepolo di Gesù. Ha capito una cosa molto importante: se uno continua a ragionare da giudeo non riesce a presentarsi ai pagani in modo convincente. Come giudeo uno non può entrare in casa di pagani, entrare in contatto con loro, mangiare quello che mangiano, senza entrare in conflitto col proprio codice di santità e di purità che di fatto lo allontana dal mondo pagano. Finché uno segue la tradizione giudaica non riesce a portare Cristo agli altri. E sarà proprio questo aspetto che farà scomparire il giudeo-cristianesimo: finché uno si sente distinto dagli altri non riuscirà mai ad entrare in relazione profonda con loro, non potrà mai coinvolgerli nell’universalità di Dio. Questa è l’intuizione dei primi missionari, non solo di Paolo.

Si sente l’eco del Vangelo in cui Gesù parla del suo giogo, che non è quello della tradizione giudaica: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,28-30). Mentre scribi e farisei “legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (Mt 23,4).

E anche Pietro dirà alla Chiesa di Gerusalemme “Or dunque, perché continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri, né noi siamo stati in grado di portare?” (At 15,10).

Chi vuole attrarre gli altri deve mettersi sul loro piano.

L’idea di Paolo espressa in 1Cor 9,19-23, non poteva essere accettata dalla chiesa-madre di Gerusalemme. La stessa comunità giudaica guardava con ostilità l’agire di Paolo.

 

 

La reazione della Chiesa giudeo-cristiana dopo il 62
La chiesa della circoncisione, come si è visto, ha goduto di una relativa tranquillità, tanto da ottenere diverse adesioni da parte ebraica. Aspetto non gradito al partito dei sadducei (da cui usciva sempre il sommo sacerdote). Siamo nel 62: secondo lo storico Giuseppe Flavio, nel periodo che va tra la morte del procuratore Festo e l’arrivo del successore Albino, è sommo sacerdote Anania il Giovane, di carattere dispotico e di straordinaria arroganza, membro della setta dei sadducei. Morto Festo, mentre il suo successore Albino era ancora in viaggio, convocò il sinedrio per giudicare Giacomo, fratello di Gesù detto il Cristo, e alcuni altri, per avere trasgredito la Legge, e li fece condannare e lapidare.”

Evidentemente c’era un gruppo che guidava la chiesa di Gerusalemme, in cui Giacomo aveva un ruolo particolare. Sempre in Antichità Giudaiche, Giuseppe Flavio narra che alcuni ebrei zelanti vanno dal procuratore Albino che non era ancora giunto in Israele, ma si trovava in Egitto, per denunciare questo comportamento scorretto di Anania il Giovane, il quale aveva agito senza alcuna autorizzazione romana, giustiziando diverse persone. Non solo: accusarono Anania anche presso il re Agrippa II.

E così, solo dopo tre mesi di sommo pontificato, Agrippa II depone Anania il Giovane. Però quest’ultimo, in soli tre mesi è riuscito a decapitare la Chiesa giudeo-cristiana di Gerusalemme.

 

 

La nascita dei primi leaders
Attorno a Giacomo viene costruita dalla comunità giudeo-cristiana una certa aureola: morto come martire, morto lapidato come Stefano, sostanzialmente morto come Gesù. Questo fa capire le aspirazioni che la Chiesa della circoncisione aveva nel II e III secolo. Quali? Ecco il finale del protovangelo di Giacomo (cap. 25,1-2): “Alla morte di Erode, essendo sorto a Gerusalemme un trambusto, io Giacomo, che ho scritto questa storia, mi ritirai nel deserto, fino a quando cessò il trambusto a Gerusalemme, glorificando il Padrone Dio che mi ha concesso il dono e la saggezza per scrivere questa storia. La grazia sarà in coloro che temono il Signore nostro Gesù Cristo, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.”

Questo apocrifo viene direttamente messo in relazione a Giacomo. Secondo alcuni studiosi, nella parte del testo andato perso a cui forse si rifà Egesippo, si menzionava Giacomo come primo vescovo di Gerusalemme, di stirpe regale,legittimo discendente di Davide e  rappresentante di Gesù.

Questi aspetti finora non sono stati riferiti né a Pietro né a Paolo, ma solo a Giacomo. Questo significa che nel mondo cristiano delle origini c’è alla base un problema non piccolo, che riguarda i rapporti interni alle varie comunità.

Un tentativo di soluzione viene dato dal Vangelo di Matteo: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,18-19). Questo passo è riportato solo da Matteo ed è la risposta della comunità matteana a questo problema.

In sintesi: lo smarrito protovangelo di Giacomo ed il Vangelo degli Ebrei (giudeo-cristiano) indica Giacomo come leader, Matteo (giudeo-cristiano che si apre agli altri) indica Pietro, le lettere paoline (etnico-cristiane) indicano Paolo.

Il passo di Matteo citato è probabilmente un’aggiunta redazionale successiva (post anno 80) che risente di questa disputa. Come la parte finale del vangelo: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo ».” (Mt 28,19-20), databile in pieno II secolo.

 

 

Si rielaborano i testi di riferimento
Riguardo al Vangelo degli Ebrei, Girolamo scrive: “Dopo la resurrezione del Salvatore, anche il vangelo detto Secondo gli Ebrei, recentemente tradotto da me in lingua greca e latina e del quale fa spesso uso Origene, afferma: “Dopo aver dato il sudario al servo del sacerdote, il Signore andò da Giacomo e gli apparve”. Giacomo infatti aveva assicurato che, dal momento in cui aveva bevuto al calice del Signore, non avrebbe più preso cibo fino a quando non l’avesse visto risorto dai dormienti. E poco dopo (prosegue): “Portate la tavola e il cibo” dice il Signore. E subito – detto: “Prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e diede a Giacomo il Giusto, dicendo: “Fratello mio, mangia il tuo pane, poiché il figlio dell’uomo – risorto dai dormienti”.”

Qui Giacomo diventa il primo destinatario dell’apparizione di Gesù. Non Pietro, come riferisce Paolo (1 Cor 15,5), o le donne, come ci riportano i Vangeli canonici.

Addirittura a Giacomo vengono messe in bocca le parole che secondo i vangeli sono di Gesù: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio” (Mt 26,29; Lc 22,16).

Questo materiale proviene dalla Chiesa giudeo-cristiana, e viene messo insieme dopo l’uccisione di Giacomo, creando così un’aureola sopra la sua figura. Qui viene costruita la leggenda, sotto la quale bisogna trovare il dato storico.

Ma se il Risorto appare prima a Giacomo, ed è a lui che rivolge per primo la sua Parola, significa che l’intento dell’autore di questi versetti è quello di mettere Giacomo sopra gli altri apostoli. Mentre il Vangelo di Matteo mette Pietro prima degli altri. Lo stesso vale per gli Atti, in cui primeggia Paolo, ma dove è Pietro che nel concilio di Gerusalemme prende la parola in difesa dell’attività missionaria tra i pagani, accusando la Chiesa di Gerusalemme.

Egesippo (metà II sec.): “Giacomo si trova nel tempio, solo lui, prega e domanda perdono per il popolo”.

Chi faceva questo nel tempio? Il sommo sacerdote. Come dire che Giacomo, nella tradizione cristiana, diventa di stirpe sacerdotale.

Epifanio (fine IV sec.): “Giacomo trasmise alla Chiesa il potere regale e il potere sacerdotale”.

L’Ascensione di Giacomo, apocrifo degli Ebioniti, porta un attacco, all’interno di un’ottica giudeo-cristiana, a Paolo di Tarso.

I principali conflitti, nella Chiesa primitiva, come si nota sono tra Giacomo e Paolo e con un ruolo a volte ambivalente di Pietro.

 

 

La questione del sacerdozio e lo strappo col giudaismo
Cosa succede presso la Chiesa giudeo-cristiana dopo l’uccisione di Giacomo del 62 e la distruzione di Gerusalemme del 70 ad opera di Tito?

L’ostracismo, da parte del sommo sacerdote Anania il Giovane e da parte del sinedrio, sia nei confronti di Giacomo che degli altri notabili della comunità cristiana, ha certamente influito sui rapporti tra giudeo-cristiani e giudaismo ufficiale: il risultato è stato l’abbandono del tempio da parte dei giudeo-cristiani. Se prima costoro “frequentavano assiduamente il tempio” ora cominciano a prenderne le distanze, e avviano un processo di autocoscienza della loro specificità: sanno che provengono dal giudaismo, ma si sentono diversi dal momento in cui hanno dato adesione a Gesù. Questa presa di coscienza inizia in modo chiaro dal 62.

“Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse: Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato. Come in un altro passo dice: Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedek.” (Eb 5,1.4-6).

Qual è l’importanza di questo passo della Lettera agli Ebrei? E’ una comunità che dice: noi eravamo ebrei, ora diamo adesione a Gesù; assieme agli altri ebrei condividiamo molti aspetti del giudaismo, però a un certo punto c’è l’uccisione di Giacomo il maggiore (nel 44) e quella di Giacomo il giusto (nel 62). I giudeo-cristiani cominciano a prendere le distanze dal loro mondo di provenienza. Tra loro vi erano anche ex sacerdoti i quali pensavano di conservare nella nuova realtà il loro ruolo (occorre ricordare che si diventava sacerdoti per nascita, per stirpe).

L’autore della Lettera agli Ebrei vuol far capire a costoro che nella comunità cristiana non vi è posto per un ruolo sacerdotale e che il loro servizio è finito nel momento in cui hanno dato adesione a Gesù di Nazareth.

Viene fatta la differenza tra il sacerdozio per nascita (Aronne) e quello non dinastico (Melchisedek). Di Melchisedek non si conosceva la paternità, per cui il suo sacerdozio proveniva dalla chiamata di Dio.

L’autore quindi fa capire agli ex sacerdoti che nella comunità cristiana non conta l’appartenenza dinastica, ma la chiamata diretta di Dio. Se alla base c’è la chiamata di Dio, che è identica per tutti, nella comunità nessuno può sentirsi un predestinato ad un ruolo particolare o privilegiato. Nel mondo giudaico non si poteva scegliere di diventare sacerdote. Al massimo, se si apparteneva alla stirpe sacerdotale, si poteva scegliere di non diventarlo, come ha fatto Giovanni Battista che ha deciso la via profetica alla carriera del padre Zaccaria.

Il passo della Lettera agli Ebrei indica il distacco della Chiesa di Gerusalemme dall’ambito giudaico.

 

 

Sacerdote si diventa praticando il Vangelo
“Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura.” (Eb 10,19-22). Tutto cambia grazie alla Pasqua di Cristo: c’è un solo sacerdote ed è Cristo. Gli ex sacerdoti giudei, ora convertiti, capiscono che non possono più conservare il loro vecchio ruolo, perché ce l’ha solo Cristo: devono rassegnarsi a vivere come gli altri cristiani.

“Ogni sommo sacerdote infatti viene costituito per offrire doni e sacrifici: di qui la necessità che anch’egli abbia qualcosa da offrire. Se Gesù fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote, poiché vi sono quelli che offrono i doni secondo la legge.” (Eb 8,3-4).

Non c’è più bisogno di sacerdoti: il sacerdozio di Gesù è quello di chiunque mette in pratica la volontà di Dio. E’ la croce (e la vita) a far sì che Gesù sia sacerdote; aver amato fino alla fine, fino a donare la propria vita: questo è atto sacerdotale. E’ un atto di Gesù, ma non è solo suo: non esistono sacerdoti precedenti questo atto. Si diventa sacerdoti sul modello di Gesù nel momento in cui uno è disposto ad offrire la propria vita fino all’estremo. Ciò che fa la sacerdotalità di Gesù è la sua Pasqua, la sua vita. Ecco perché il testo dice che Gesù “non sarebbe neppure sacerdote”, perché non serve più esserlo. L’offerta della propria vita non è sacrificale, ma atto d’amore: si può definire martirio, ma non sacrificio. La vera azione sacerdotale è donare se stesso fino all’estremo, ma non a Dio, come faceva il sommo sacerdote nel tempio, bensì all’uomo. Gesù non è morto per Dio, ma per l’uomo. L’autore della Lettera agli Ebrei tutto questo lo ha capito e in questo modo ce lo mette per iscritto, per far capire alle comunità giudeo-cristiane la novità di Gesù; lo fa dialogando con la teologia ebraica, che conosce molto bene.

 

 

Antica Alleanza e compito del Messia
E’ importante leggere Ebrei 7 dove si può notare come, grazie a Gesù, il nuovo sacerdozio sostituisce l’antico, c’è il superamento della Legge e l’inefficacia delle prescrizioni legali.

Lo stesso tema lo si ritrova nel vangelo di Matteo quando a Gesù vengono rivolte domande circa la sua origine e la sua autorità.

La comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme per molti anni, come si è visto, è in dialogo ed in sintonia col mondo giudaico: va al tempio, non lavora il sabato, segue le prescrizioni di purità, eccetera.

A partire dall’anno 62 inizia la frizione e poi la rottura ed ecco che l’autore della Lettera agli Ebrei sostiene che tutte le pratiche finora seguite non servono più a niente.

Risultato: fine del riposo del sabato e delle abluzioni, d’ora in poi si mangia quello che si vuole …

I Giudei però chiedono: come mai voi cristiani cominciate a prendere le distanze in questo modo, visto che fino a ieri vi comportavate come noi? E su quali motivazioni teologiche, visto che quando pregate usate passi biblici, come i profeti e i salmi? E’ vero che siete discepoli di Gesù, ma costui da dove viene? Non era ebreo anche lui?

Nel Vangelo di Matteo si trova spesso questa domanda rivolta a Gesù: «Con quale autorità fai questo? Chi ti ha dato questa autorità?». Sono scribi e farisei che chiedono a Gesù, vista la sua origine ebraica, su quali basi fondava la sua autorità. Questi passi di Matteo li troviamo perché erano le domande che i giudei ponevano ai cristiani di Gerusalemme dell’epoca. E ancora: se questo Gesù era veramente il messia, perché non ha svolto il suo compito di messia, cioè liberare Israele?

Domande, risposte, dialogo, controversie, contrapposizioni, ostracismi: così matura la riflessione e la presa di coscienza, che origina i testi che stiamo esaminando.

Nonostante la questione sia ancora dibattuta, è probabile che la Lettera agli Ebrei rappresenti il quadro che si viene a creare dopo la morte di Giacomo il Giusto. Per alcuni studiosi, questa Lettera è di poco posteriore al 62 (mentre per altri deve essere ulteriormente posticipata): certamente essa prende vita all’indomani dell’uccisione di Giacomo ed è un invito ai cristiani a staccarsi dalla tradizione giudaica, senza paura e senza rimpianto. Fare questo poteva significare uscire dal popolo dell’Alleanza e non sperimentare più la salvezza e il mondo futuro. Ecco perciò la paura vissuta da molti e il possibile rimpianto per la perdita delle proprie radici culturali e religiose.

Quale idea emerge dalla Lettera agli Ebrei?

Niente paure o rimpianti, perché tutta la Legge e l’Alleanza avevano un compito ben preciso: preparare a Cristo. Arrivato Cristo esse hanno esaurito il loro compito. Non c’è abbandono dell’antica alleanza, è questa che ha terminato la sua funzione.

Quando si arriverà al 70, con la presa di Gerusalemme e la distruzione del tempio, il cordone ombelicale col giudaismo verrà definitivamente reciso.

4.           Il difficile inizio della comunità cristiana dopo il distacco dalla tradizione
La responsabilità dei nuovi capi della comunità (dal 62 al 70)
“Richiamate alla memoria quei primi giorni nei quali, dopo essere stati illuminati, avete dovuto sopportare una grande e penosa lotta, ora esposti pubblicamente a insulti e tribolazioni, ora facendovi solidali con coloro che venivano trattati in questo modo. Infatti avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di esser spogliati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e più duraturi.” (Eb 10,32-34).

Sta parlando ad ex ebrei battezzati (illuminati dalla luce di Cristo), dopo i giorni dell’entusiasmo iniziale. Per loro sono iniziati i problemi dovuti alla persecuzione. Questi versi sono lo spaccato del clima vissuto dai cristiani durante l’uccisione di Giacomo e dei notabili. Fatto fuori il gruppo che coordinava la comunità di Gerusalemme, per i giudeo-cristiani rimasti iniziava la tribolazione: insulti, carcere, confisca dei beni, eccetera.

Questi brani della Lettera agli Ebrei riportano a quel preciso dato storico.

“Non scordatevi della beneficenza e di far parte dei vostri beni agli altri, perché di tali sacrifici il Signore si compiace (si sente l’eco della solidarietà già vista in Atti). Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi, come chi ha da renderne conto; obbedite, perché facciano questo con gioia e non gemendo: ciò non sarebbe vantaggioso per voi.” (Eb 13,16-17). C’è l’invito ad obbedire ai capi, che non devono gemere. E’ ancora fresca la decapitazione della leadership cristiana di Gerusalemme: i nuovi capi, oltre a rendere conto del loro operato a Cristo, temono di fare la stessa fine dei precedenti.

A proposito dei propri responsabili leggiamo: “Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l’esito del loro tenore di vita, imitatene la fede. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb. 13,7-8).

Qui si sta parlando di Giacomo e gli altri notabili che sono stati uccisi e si invita la comunità a far tesoro della loro vita.

“Salutate tutti i vostri capi e tutti i santi. Vi salutano quelli d’Italia. La grazia sia con tutti voi.” (Eb 13,24). Non è citato Giacomo: ciò significa che è già stato ucciso. E’ uno degli elementi che ci dice che questa Lettera è successiva al 62.

Egesippo, nella sua “Storia della Chiesa”, scrive che dal 62 al 70 ci fu un collegio di capi (ἡγούμενοi), che guidò la Chiesa di Gerusalemme.

Si sta parlando di una guida collegiale della comunità e di un certo valore, visto che è riuscita a rimanere fuori dagli intrighi politici e militari che portarono alla prima guerra giudaica, combattuta tra Impero romano ed Ebrei ribelli, con distruzione di Gerusalemme e del tempio (70 d.C.).

Questi capi guidarono la comunità cristiana verso Pella (nella Decapoli, a est del fiume Giordano, tra Gadara e Gerasa), ai margini del deserto giordano, salvandosi così dall’annientamento ad opera dei romani. Alcuni, in seguito, ritorneranno a Gerusalemme dopo il ritiro di Tito.

“Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.

Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù. E si fermò sulla spiaggia del mare.” (Ap 12,1-6.17-18).

L’interpretazione tradizionale vedeva la Madonna nella donna e Gesù nel figlio. Esegeticamente, invece, la donna è la Chiesa e il figlio rapito la comunità cristiana; il drago rosso rappresenta l’impero romano.

Interessante anche l’interpretazione del brano ad opera di altri autori: i giudeo-cristiani che sono scappati nel deserto in direzione Pella, salvando così la loro vita ed evitando la distruzione qualora fossero rimasti a Gerusalemme, sono rappresentati dalla donna col figlio di questo capitolo 12 di Apocalisse.

Quindi, questo testo, oltre a rievocare l’esodo d’Israele nel deserto al tempo di Mosè e la situazione della Chiesa nell’Asia Minore, si riferisce anche agli avvenimenti del 70 in Giudea.

I capi della comunità sono stati lungimiranti nel momento del pericolo: abbandonando la città, hanno salvato la comunità dei discepoli di Gesù.

 

 

La trasmissione del potere ecclesiastico
Eusebio di Cesarea (265-340), vescovo ariano e storiografo ufficiale di Costantino, segue Egesippo ma si discosta da Papìa, e scrive un’opera monumentale: “Storia Ecclesiastica”.

Questa rappresenta il primo esempio di storia della Chiesa.

“Dopo che Giacomo il Giusto fu martirizzato come il Signore per la sua stessa predicazione, fu costituito vescovo di Gerusalemme un figlio di uno zio del Salvatore, Simone di Cleofa; lo prescelsero con consenso unanime perché era parente del Signore.”

Se viene prescelto significa che vi erano vari pretendenti: Simone prevale perché era della famiglia di Gesù. Morì martire, come Giacomo, sotto l’imperatore Traiano.

Non è strano tutto questo? Gesù infatti nei Vangeli aveva detto qualcosa di diverso, prendendo di mira la famiglia fondata sul sangue. Per Gesù la famiglia vera è quella basata sulla scelta.

Quando “qualcuno gli disse: « Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti »”.Gesù risponde: “«Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? ».Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre». (Mt 12,47-50).

E ancora: “«Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.” (Lc 14,25).

In Gesù la famiglia secondo il sangue non funziona: nella citazione di Eusebio si segue una logica opposta. I Vangeli non concordano con questa posizione. Anche se più avanti Matteo eviterà di inserire la moglie nei soggetti da abbandonare: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna.” (Mt 19,29).

Come mai? Paolo, nella prima Lettera ai Corinzi, si chiede: “Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?” (1 Cor 9,5).

E’ probabile che Paolo, parlando di donna credente (siamo nel 54-56), si stia riferendo anche alla moglie. E’ chiaro che nelle comunità delle origini le mogli seguivano i mariti oppure, assieme ai mariti, esse davano vita alle comunità cristiane.

Sempre secondo Eusebio, a capo della Chiesa di Nazareth ci fu un certo Giuda, fratello di Giacomo, che era parente del Signore e ne resta capo fino ai tempi di Adriano. Chi è questo Giuda? Ecco l’inizio della Lettera di Giuda: “Giuda, servo di Gesù Cristo, fratello di Giacomo, agli eletti che vivono nell’amore di Dio Padre e sono stati preservati per Gesù Cristo” (Gd 1,1).

Ancora Eusebio: “I fedeli trovarono normale la trasmissione del potere ecclesiastico secondo gli usi dinastici. A Efeso, Policrate afferma a Vittore (vescovo di Roma 189-199) di essere l’ottavo vescovo della sua parentela”.

Sempre secondo Eusebio, a capo della Chiesa di Gerusalemme dal 107 (anno della morte di Simeone) al 135 ci furono 13 vescovi (in 28 anni!), tutti provenienti dal giudeo-cristianesimo; mentre a Roma nello stesso periodo ce ne furono solo 3.

Per caso Eusebio ha messo assieme vescovi di più sedi? Oppure cambiavano frequentemente come i sommi sacerdoti? Oppure vi erano contemporaneamente più vescovi con funzioni diverse (uno che presiedeva e gli altri in quanto ausiliari)? Oppure infine sono compresi anche i vescovi ebioniti?

Epifanio di Salamina (315-403) scrive che gli Ebioniti “hanno i loro presbiteri e i loro capi-sinagoga e che non chiamano Chiese le loro assemblee, ma sinagoghe”.

Si tratta quindi di una realtà giudeo-cristiana, o meglio, di una piccola setta all’interno della comunità giudeo-cristiana.

 

 

Le comunità cristiane cominciano a lasciare la Palestina
Eusebio di Cesarea (storiografo di Costantino) riferisce che, dopo la seconda guerra giudaica (115-117), Adriano sconfigge definitivamente le truppe giudaiche nel 135, durante la terza guerra giudaica. Fa uccidere nel 137 anche il rabbino più importante dell’epoca, Akiva, attaccandolo a due cavalli che spingevano in direzioni opposte. Ci fu l’interdetto nei confronti degli Ebrei: cacciati dalla Palestina, fu impedito loro di tornarvi. Vi torneranno solo a metà del 1900.

Non solo furono cacciati gli Ebrei, ma anche i giudeo-cristiani. Per i Romani non c’erano grandi differenze. Anche sotto l’imperatore Claudio (qualche decennio prima), i litigi interni tra comunità ebraiche avevano provocato la loro espulsione da Roma.

La città di Gerusalemme viene ricostruita con criteri romani, e chiamata Aelia Capitolina da Adriano. Nell’area del santo sepolcro, rasa al suolo, viene costruito un tempio dedicato a Giove, Giunone e Minerva (la triade capitolina).

Nel momento in cui gli Ebrei e i giudeo-cristiani devono abbandonare Gerusalemme, in città restano pagani ed etnico-cristiani (anch’essi provenienti dal mondo pagano).

Sempre secondo Eusebio, i cristiani del mondo pagano che possono restare in città hanno un vescovo di nome Marco (135-155).

In seguito, lentamente, alcuni ebrei possono ritornarvi e così alcuni giudeocristiani.

 

 

La questione della celebrazione pasquale
Dopo vari decenni, a Gerusalemme ritornano anche comunità giudeocristiane, le quali devono cominciare a convivere con quelle etnico-cristiane. Sul finire del II secolo, sorge in Palestina il problema della Pasqua: quando va celebrata? In che giorno? La questione è di tipo teologico: quale aspetto di Gesù va focalizzato con la celebrazione pasquale? Le comunità etnico-cristiane la celebravano nel giorno di domenica, quelle giudeocristiane nel giorno di venerdì (14 di nisan): le prime accentuavano il momento della resurrezione, le seconde quello della morte.

Vittore, vescovo di Roma dal 189 al 199, di origini africane, scomunica le Chiese dell’Asia Minore (specie quelle della parte occidentale) perché si rifiutavano di celebrare la Pasqua di domenica, come veniva celebrata a Roma (la domenica successiva al 14 di nisan). Esse celebravano il 14° giorno del mese di nisan, in memoria dell’uccisione degli agnelli che servivano per la pasqua ebraica: per questo erano chiamate quartodecimane.

Il vescovo di Roma aveva già assunto un ruolo importante all’interno del mondo cristiano, in quanto presiedeva la comunità della capitale dell’impero e della città del martirio di Pietro e Paolo: per questi motivi, egli comincia ad arrogarsi il potere di intervenire anche sulle altre comunità.

Queste Chiese dell’Asia Minore erano legate alla Chiesa di Efeso (destinataria della prima lettera alle 7 Chiese dell’Apocalisse), dove c’era una comunità paolina (vedi Lettera agli Efesini), una giovannea (ricordata appunto nell’Apocalisse), una giudaica, una etnico-cristiana, una giudeocristiana.

Il problema che si poneva Vittore era questo: stabilire la data di Pasqua significava stabilire l’intero calendario liturgico. Per questo egli convoca dei sinodi, per poter giungere ad una soluzione condivisa.

Ad esempio a Cesarea (intorno al 195), si riuniscono i 18 vescovi della parte costiera della Palestina (Gerusalemme compresa): nessun vescovo presente è giudeocristiano, perché sono tutti etnico-cristiani. Ma i giudeo cristiani erano stati invitati? Oppure si sono rifiutati di partecipare? Non si sa.

Ecco che i vescovi presenti approvano l’uso liturgico presente fuori dell’Asia Minore, e cioè in Grecia e a Roma. Ecco la lettera di chiusura di quel sinodo: “Guardate di inviare esemplari della nostra lettera ad ogni Chiesa, affinché non siamo responsabili di coloro che hanno la coscienza facilmente sviabile. Vi rendiamo noto che ad Alessandria celebrano la Pasqua il medesimo giorno di noi. Dallo scambio delle lettere che ci siamo scritti, risulta chiaro il vicendevole accordo e la simultaneità del giorno santo.”

Come dire: le Chiese che si discostano sono solo una minoranza ed è il caso che si adeguino.

Il problema però non viene risolto: bisognerà aspettare il concilio di Nicea del 325.

Però le comunità giudeo-cristiane non desisteranno, fino alla loro estinzione, nel mantenere un proprio calendario liturgico: era l’ultimo aspetto identitario e ultimo primato della Chiesa-madre, e stava per finire anche questo.

Occorre anche ricordare che fino alla fine del II secolo d.C. gli Ebrei fissavano l’inizio del mese in base al calendario giudeo-cristiano e ciò era un segno di grande stima di cui bisognava tener conto.

Concilio di Nicea nella Lettera sinodale alle Chiese d’Egitto, ma con valore universale: “Noi vi diamo il lieto annuncio dell’unità che è stata ristabilita intorno alla festa di Pasqua. Tutti i fratelli d’Oriente, che prima celebravano la Pasqua con gli Ebrei, d’ora in poi la celebreranno con i Romani, con noi e con tutti gli altri che l’hanno sempre celebrata con noi”. Nel 325 il problema viene formalmente risolto così: la Pasqua verrà celebrata la prima domenica dopo il plenilunio che segue l’equinozio di primavera.

Il vescovo e teologo Ireneo di Lione (130-202) non rimproverò il vescovo di Roma Vittore di aver fatto ricorso alla scomunica, ma il modo brusco e sproporzionato con il quale era intervenuto, visto il problema di scarsa importanza che era oggetto della scomunica alle Chiese dell’Asia Minore. La scomunica era plausibile, ma per una questione adeguata.

 

 

La sinagoga giudeo-cristiana del Monte Sion
E’ probabile che l’edificio del Cenacolo (zona del Monte Sion) fosse in realtà una sinagoga giudeo cristiana, nella quale veniva celebrata sia la cena che la fractio panis. Sulle pareti ci sono tre graffiti: “Vinci o Salvatore, pietà”; “Il proselita”; “Oh Gesù, che io viva, oh Signore dell’autocrate”.

Chi è l’autocrate? E’ Davide. Il Salmo 110 comincia così: “Di Davide. Salmo. Oracolo del Signore al mio Autocrate: «Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi»” (Sal 110,1).

In Atti 2, dopo la Pentecoste, Pietro parla ai Giudei chiamandoli fratelli e citando Davide: “Dice infatti Davide a suo riguardo: Contemplavo sempre il Signore innanzi a me; poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli. Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua; ed anche la mia carne riposerà nella speranza, perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione. Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza. Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli mori e fu sepolto e la sua tomba è ancora oggi fra noi.” (At 2,25-29).

Forse la tradizione, ma non la ricerca archeologica, indicava in quel ritrovo di giudeo-cristiani il luogo della tomba di Davide. Forse.

Il più antico racconto di itinerario cristiano conosciuto, Il Pellegrino di Bordeaux (333-334 dC), riporta il viaggio di un anonimo pellegrino che va in Terrasanta, partendo da Burdigala (l’attuale Bordeaux), per visitare il Santo Sepolcro. Siamo otto anni dopo il concilio di Nicea. L’autore afferma di aver visitato la sinagoga giudeo-cristiana che si trova al monte Sion.

Percorso di andata: valle del Danubio-Costantinopoli-Siria-Gerisalemme.

Percorso di ritorno: via Egnatia-Macedonia-Otranto-Appia-Roma-via Flaminia.

Epifanio, nel 373, scrive che il santuario presso il monte Sion era condotto dai giudeo-cristiani e quindi, in quanto santuario, meta di pellegrinaggi.

Nel 381 c’era stato il primo concilio di Costantinopoli, con il trionfo dei Padri Cappadoci: Basilio Magno, Gregorio di Nissa e Gregorio Nazianzeno. Mentre a Nicea (325) la discussione si era fermata sul rapporto tra Padre e Figlio, nel 381 si affronta la questione dello Spirito Santo, grazie al contributo teologico dei Cappadoci.

Gregorio di Nissa (335-395), il più giovane dei teologi della Cappadocia, proprio nel 381 si reca a visitare i luoghi santi. Afferma di aver visto il santuario di Betlemme, il sepolcro, il Calvario, il Monte degli ulivi, ma non il santuario del monte Sion: come mai? Dopo la descrizione di Epifanio, di otto anni prima, la sinagoga giudeo-cristiana era scomparsa? Oppure Gregorio di Nissa non era assolutamente interessato a visitarla? Resta il fatto che non viene menzionata. Sicuramente era grande la distanza tra la teologia dei giudeo-cristiani e quella dei Padri Cappadoci, visto che i primi consideravano Maria la madre di Gesù (e non la madre di Dio) ed aspettavano ancora la ricostruzione del tempio (con tutto quello che ne conseguiva).

In definitiva, verso la fine del IV secolo, c’erano ancora comunità cristiane che si sentivano legate alla tradizione ebraica ed auspicavano il ripristino della struttura sacerdotale e sacrificale.

 

 

I giudeocristiani definiti “minim”
La Chiesa giudeo-cristiana ha dovuto lottare su tre fronti, ed ha perso su tutti: quello giudaico, quello etnico cristiano, quello interno.

Dopo i primi scontri con il giudaismo (lapidazione si Stefano e uccisione di Giacomo Maggiore), la comunità cristiana si trova di fronte a due diverse tattiche da parte degli stessi giudei: quella del dialogo e quella dell’ostracismo. Per vari anni ci fu un rapporto di discussione teologica tra giudei e giudeo-cristiani (chiamati minim dagli ebrei): molti documenti ebraici riferiscono di dispute tra rabbini e giudeocristiani, riguardo all’interpretazione della Bibbia, alle usanze tradizionali e all’unicità di Dio (monoteismo). I punti di rottura con i giudei riguardavano Gesù, la sua divinità e la sua messianicità. Gli ebrei avevano rimproverato Gesù, in quanto messia, di non aver liberato Israele. Dove avvenivano le discussioni tra le due parti? Nelle sinagoghe, sia in quelle giudaiche che in quelle giudeo-cristiane.

Nel momento in cui i giudei si accorgono che i cristiani non erano più recuperabili, dal dialogo passano all’ostracismo, alla contrapposizione. Da questo momento c’è l’espulsione dei giudeocristiani dalle sinagoghe ebraiche. Per questo motivo i cristiani devono cominciare a creare propri luoghi di incontro, di preghiera, di culto. Il termine minim, indicante ebreo fuoriuscito, da questo momento viene usato come “eretico”, l’ebreo che si è dato alla sequela di Gesù.

Rabbi Tarfon (70-135): “Se qualche ebreo è in pericolo di essere ucciso o morso da un serpente può entrare in un tempio idolatra, ma non nelle case dei minim, poiché essi conoscono e negano, mentre gli altri pagani negano senza conoscere”. Siamo all’ostracismo.

Midrash Rabbah 19,4: “Nessun circonciso andrà all’inferno, ma per quanto riguarda i minim, un angelo discenderà dal cielo, rimetterà loro il prepuzio, onde possano andare all’inferno”.

Rabbi Akiva (40-137): “Colui che legge libri stranieri non avrà parte al Regno futuro”. I libri dei minim, cioè i Vangeli, diventano libri stranieri.

Verso l’anno 85, sotto Gamaliele II, Samuele il Picolo redasse il testo palestinese di una maledizione contro i giudeo-cristiani, inserita nella preghiera delle diciotto benedizioni che ogni ebreo recitava alcune volte ogni giorno: “Che per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell’orgoglio; e periscano in un istante i nazareni e i minim; siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano iscritti: Benedetto sei tu che pieghi i superbi”.

Nazareni e minim: in definitiva, tutto il mondo giudeo-cristiano. Non si sta parlando degli etnico-cristiani, ma di coloro che si sono staccati dalla casa madre ebraica.

Giustino, nel suo Dialogo con Trifone, scrive: “Nelle vostre sinagoghe voi maledite i giudei divenuti cristiani. I gentili poi mettono in pratica le vostre imprecazioni e non condannano a morte altro che coloro che confessano di essere cristiani”.

Come dire: voi giudei maledite noi cristiani e i Romani ne approfittano per ucciderci.

In realtà le comunità giudeocristiane, pur di far breccia nel mondo giudaico e non essere subito considerate eretiche, mantengono certi riti e certe norme della legge mosaica (come quelle sulla purità degli alimenti): si mostrano accomodanti e flessibili con la cultura giudaica. Svolgono le visite ai malati: l’unzione degli infermi nasce in ambito giudeocristiano e non etnico-cristiano. Sostengono che la fede di Gesù unisce tutti, solo la fede in Gesù divide. Ovviamente questo ragionamento non produrrà alcunché, ma rimanderà solo di qualche tempo la rottura e separazione, fino a raggiungere la contrapposizione.

 

 

5.           I conflitti all’interno delle comunità cristiane
Le tensioni tra giudeocristiani ed etnico-cristiani
Rispetto al fronte etnico-cristiano, le tensioni in ambito giudeocristiano saranno ancora più forti. Quali saranno gli elementi determinanti?

Innanzitutto la lapidazione di Stefano (un ebreo ellenista che vive nel mondo pagano) e la chiamata di Saulo.

Nell’Asia Minore centrale, le comunità etnico-cristiane della Galazia stanno correndo un grande rischio: si stanno facendo irretire dai giudeo-cristiani, che intendono imporre la circoncisione. Come dire: prima si diventa ebreo, poi cristiano.

Nella Lettera ai Gàlati, Paolo così scrive: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge.” Con la circoncisione non si può seguire solo una parte della Legge, ma tutta quanta. “Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia.” Chi è ebreo si salva in quanto ebreo; in quanto figlio di Abramo ha già la salvezza, per cui la grazia non c’entra più. “Noi infatti per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità. Correvate così bene; chi vi ha tagliato la strada che non obbedite più alla verità? Questa persuasione non viene sicuramente da colui che vi chiama!”. La persuasione è che basti la Legge e chi sta tagliando la strada, a questa comunità della Galazia, sono i giudeocristiani.

“Dovrebbero farsi mutilare (= castrare) coloro che vi turbano. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!” (Gal. 5,1-15).

Qui c’è un bel gioco di parole in greco: castrazione=katatuè e circoncisione=perituè; per Paolo costoro non dovrebbero farsi circoncidere, ma castrare.

Ai Filippesi, così scrive Paolo: “Per il resto, fratelli miei, state lieti nel Signore. A me non pesa e a voi è utile che vi scriva le stesse cose: guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere(=guardatevi dalla mutilazione/castrazione=katatuen)! Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dalla Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne, sebbene io possa vantarmi anche nella carne. Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ ho considerato una perdita a motivo di Cristo.” (Fil. 3,1-7).

Qui sta dando dei cani (animali impuri per gli Ebrei) ai giudeocristiani e vede la circoncisione come forma di mutilazione. Nessuna fiducia nell’appartenenza della carne, ma piena fiducia a Gesù. Lo scontro è notevole. La comunità giudeo-cristiana era consapevole dell’opera e della persona di Gesù e dell’azione dello Spirito nella Chiesa, ma faceva un’enorme fatica a capire il rifiuto da parte dei loro correligionari della messianicità di Gesù: se noi giudeo-cristiani ci abbiamo creduto, perché gli altri ebrei invece no? Se noi ci mettiamo in toto alla sequela di Gesù, non rischiamo di trovarci fuori dalla nostra tradizione, dal nostro mondo, dalla salvezza, visto che la salvezza è concessa in forza dell’essere figli di Abrano? Non è facile buttare all’aria 2000 anni della propria storia. Ecco la difficoltà nel rinunciare alla circoncisione: facendosi circoncidere potranno dialogare col mondo ebraico, ma non più con quello pagano. Guardare in avanti verso il mondo pagano o all’indietro? Obbligare i correligionari a fare una data scelta? La circoncisione diventa così l’elemento discriminante.

Ancora Giustino nel Dialogo con Trifone: “A mio avviso, se un giudeocristiano crede in Cristo ed ubbidisce alla sua Legge può ben salvarsi, anche se continua ad osservare le prescrizioni mosaiche, purché non pretenda di imporre agli etnico cristiani quelle prescrizioni che furono imposte ai Giudei a motivo della durezza del loro cuore”.

L’ebreo Trifone chiede a Giustino: “Perché hai detto che a tuo avviso il giudeocristiano che continua ad osservare la Legge di Mosè può essere salvo? Vi sono forse di quelli che lo negano?”.

Risponde Giustino: “Sì, o Trifone, vi sono degli etnicocristiani che giudicano peccaminosa l’osservanza di molte prescrizioni della Legge mosaica. Questi tali non parlano né prendono cibo con i giudeocristiani. Per parte mia, però, non li approvo. Ma non approvo nemmeno i giudeocristiani che fanno altrettanto con gli etnico cristiani.  In quanto ai giudeocristiani, o Trifone, i quali dopo aver riconosciuto che Gesù è il Messia, lo negano, o peggio ancora lo bestemmiano nelle sinagoghe, io affermo che costoro, se non si convertono prima di morire, non possono essere salvi”.

Nella prospettiva etnico-cristiana, ecco la Lettera a Diogneto (testo cristiano del II secolo), sul ritualismo giudaico, cap.4: “Non penso che tu abbia bisogno di sapere da me intorno ai loro scrupoli per certi cibi, alla superstizione per il sabato, al vanto per la circoncisione, e alla osservanza del digiuno e del novilunio: tutte cose ridicole, non meritevoli di discorso alcuno. Non è ingiusto accettare alcuna delle cose create da Dio ad uso degli uomini, come bellamente create e ricusarne altre come inutili e superflue? Non è empietà mentire intorno a Dio come di chi impedisce di fare il bene di sabato? Non è degno di scherno vantarsi della mutilazione del corpo, come si fosse particolarmente amati da Dio? Chi non crederebbe prova di follia e non di devozione inseguire le stelle e la luna per calcolare i mesi e gli anni, per distinguere le disposizioni divine e dividere i cambiamenti delle stagioni secondo i desideri, alcuni per le feste, altri per il dolore? Penso che ora tu abbia abbastanza capito perché i cristiani a ragione si astengono dalla vanità, dall’impostura, dal formalismo e dalla vanteria dei giudei. Non credere di poter imparare dall’uomo il mistero della loro particolare religione.”

Si parla di superstizione per il sabato, che è stato nell’epoca post-babilonese quello che ha salvato gli ebrei. E’ la posizione molto dura degli etnico-cristiani nei confronti del mondo giudeo-cristiano.

 

 

I conflitti interni alla Chiesa giudeo-cristiana
La comunità giudeo-cristiana ha a che fare con molti movimenti ereticali al proprio interno, come gli Ebioniti e i Nicolaiti. Questi ultimi non sono ben definiti storicamente, anche se ne parla l’Apocalisse nella lettera alla Chiesa di Efeso: “Tuttavia hai questo di buono, che detesti le opere dei Nicolaìti, che anch’io detesto.” (Ap. 2,6). Mentre alla Chiesa di Pergamo si dice: “Così pure hai di quelli che seguono la dottrina dei Nicolaìti.” (Ap. 2,15).

Questo significa che i Nicolaiti si trovano sia ad Efeso che a Pergamo, cioè nell’Asia Minore.

Ci sono anche i Nazareni. Loro però non erano considerati eretici, in quanto credevano nella messianicità e nella divinità di Gesù. Infatti Egesippo, Origene ed Eusebio, li chiamavano semplicemente giudei credenti. Epifanio e Girolamo distinguevano i Nazareni cristiani dai Nazareni giudei, però per tutti c’era la circoncisione e il rispetto del sabato.

Girolamo (a proposito dei Nazareni): “Essi vogliono essere giudei e cristiani allo stesso tempo e pertanto non sono né giudei né cristiani”.

Per Origene (Contra Celsum) gli Ebioniti ammettevano la divinità di Cristo. Per Ireneo invece erano da considerarsi eretici.

Eusebio: “All’eresia ebionita aderiscono coloro che insegnano che il Cristo nacque da Giuseppe e da Maria, riducendolo pertanto a semplice uomo e così pretendono imporre le osservanze della Legge alla maniera giudaica”. Gesù per gli Ebioniti è solo un uomo, semmai un profeta: si sente l’eco dei discepoli di Emmaus che descrivono “Gesù Nazareno, come profeta potente” (Lc. 24,19). Gli Ebioniti non avevano rapporto con gli etnico-cristiani, rifiutavano le lettere di Paolo e accettavano soltanto il Vangelo secondo gli Ebrei. Ireneo di Lione (fine II sec.) identificherà questo vangelo (nella sua Adversus Haeresis III,1,2) con quello di Matteo in aramaico.

Le Pseudo-Clementine sono opera ebionita. In questi testi Paolo è chiamato “l’uomo nemico”.

 

 

L’affermazione degli etnico-cristiani e l’orientamento di Paolo
Alla fine del IV secolo, le comunità giudeo-cristiane sparse in Palestina, Siria, Asia Minore, Grecia e Roma, sono ridotte al lumicino. Molte sono già scomparse, altre sono state assimilate dalle comunità etnico-cristiane e, quelle che restano, diventano praticamente comunità ereticali.

Gregorio di Nissa, quando visitò la Palestina nel 381, rimase stupito nel vedere che a Gerusalemme i giudeocristiani si tenevano a debita distanza dagli etnico-cristiani e avevano un atteggiamento di purezza superiore come dire: stammi lontano, non ti avvicinare perché io sono puro e tu no.

Dalla Lettera agli Efesini, di scuola paolina: “Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito.” (Ef. 2,11-22).

Come si vede, Cristo Gesù è “akrogoniaiou” che traduce “pietra angolare-chiave di volta”.

Questo passo indica la chiamata dei pagani.

Il pensiero di Paolo, riguardo al popolo ebraico si sta evolvendo sul piano teologico e lo si nota ancor meglio nella Lettera ai Romani: “Io domando dunque: Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino.” (Rm. 11,1).

Non è cristiano Paolo; lui è stato chiamato, non si è convertito da un Dio all’altro: la sua idea di Dio è sempre la stessa, è il Dio della salvezza, il Dio dell’esodo.

“Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio (…) Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale!” (Rm. 11,2.12).

Per Paolo, se tutti gli Ebrei fossero diventati cristiani avremmo avuto la supremazia della Chiesa giudeo-cristiana, che sarebbe stata un ostacolo per la chiamata dei pagani. Che gli Ebrei siano rimasti tali, secondo Paolo, è un vantaggio: non sarebbe mai nata la Chiesa etnico-cristiana e il cristianesimo sarebbe stato un’altra versione dell’ebraismo.

“Pertanto, ecco che cosa dico a voi, Gentili: come apostolo dei Gentili, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni.” (Rm. 11,13-14).

La comunità etnico-cristiana deve però fare attenzione a non inorgoglirsi, per aver preso il posto dei giudei.

“Se però alcuni rami sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non menar tanto vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. Dirai certamente: Ma i rami sono stati tagliati perché vi fossi innestato io! Bene; essi però sono stati tagliati a causa dell’infedeltà, mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia, ma temi! Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te!” (Rm. 11,17-21).

Paolo non accetta che il suo mondo vada in rovina: sa che la promessa di Dio ad Abramo è per sempre, ma che il nuovo (l’ebreo Gesù) è innestato. Così fa un discorso all’uno e all’altro, per ottenere dai due un popolo solo, togliendo il velo e l’inimicizia, mettendo le basi per superare il muro. L’indurimento degli ebrei sarà temporaneo: “Quanto a loro, se non persevereranno nell’infedeltà, saranno anch’essi innestati; Dio infatti ha la potenza di innestarli di nuovo!” (Rm 11,23).

Se finisce l’infedeltà di quei rami ebraici che sono stati tagliati, Dio li reinnesta.

C’è stata ovviamente una difficoltà di relazione tra giudeo-cristiani ed etnico-cristiani a causa di due grandi motivi: l’eccessiva attenzione per la purità legale e la poca affabilità con la filosofia greca, da parte dei giudeo-cristiani; ecco perché costoro sono destinati a rimanere piccoli, rinchiusi nel proprio mondo e a guardare più all’indietro che in avanti.

Il problema della comunità etnico-cristiana invece resta la scarsa conoscenza degli usi e dei principi giudaici, che la porterà a vedere in modo negativo molti aspetti dei giudeo-cristiani (considerandoli pura superstizione); come si fa ad esempio a considerare in malo modo il precetto del sabato quando “più che gli Ebrei a salvare il sabato, è stato il sabato a salvare gli Ebrei” (Abraham Yehoshua)?

Le comunità giudeocristiane hanno la difficoltà a svincolarsi dalla tradizione rituale e legalistica e a non comprendere il mondo contemporaneo, mentre quelle etnico-cristiane a non comprendere il mondo di provenienza considerandolo sempre negativo.

Inevitabile che a un certo punto più che il dialogo subentri la contrapposizione tra queste due realtà.

 

 

Il ruolo di Antiochia e Gerusalemme a metà del I secolo
L’Asia Minore è, per certi versi, il cuore della Chiesa delle origini: Efeso è uno dei centri della teologia e della cristologia. Fondamentale per altri motivi è Antiochia, in Siria.

Partiamo da un breve excursus su Efeso e Antiochia in Atti.

Ad Antiochia è vescovo Ignazio (fine I sec.), Efeso è la prima destinataria delle sette lettere alle sette Chiese nel testo di Apocalisse, nonché città ospitante dello stesso Ignazio di Antiochia.

Inoltre sono da menzionare Smirne e Filadelfia, le problematiche delle Chiese dell’Apocalisse, le lettere ai Corinzi di Paolo, Clemente Romano (vescovo di Roma dal 92 al 97).

Le lettere di Clemente e quelle di Ignazio nella storia della Chiesa hanno avuto sul piano strutturale più peso dei Vangeli e degli altri testi del NT. Clemente e Ignazio cominciano a dare il “la” alla struttura organizzativa delle prime comunità cristiane e in tal modo possiamo capire il perché di certi aspetti relativi all’istituzione ecclesiale e la loro permanenza.

“Intanto quelli che erano stati dispersi dopo la persecuzione scoppiata al tempo di Stefano, erano arrivati fin nella Fenicia, a Cipro e ad Antiòchia e non predicavano la parola a nessuno fuorché ai Giudei” (At 11,19). E’ in atto un ostracismo da parte dei giudei e probabilmente anche dei giudeo-cristiani nei confronti delle comunità ellenistico-cristiane che, lasciata Gerusalemme, si recano altrove fino ad Antiochia (terza città dell’impero, dopo Roma e Alessandria).

“Ma alcuni fra loro, cittadini di Cipro e di Cirène, giunti ad Antiòchia, cominciarono a parlare anche ai Greci, predicando la buona novella del Signore Gesù” (At 11,20). Si tratta quindi di cittadini di fede ebraica ma di cultura ellenistica. E’ da notare che, nei tre vangeli sinottici (dove viene detto “se uno vuol venire dietro di me, prenda la sua croce e mi segua”), la croce di Gesù viene messa direttamente sulle spalle di un uomo proveniente da Cirene (Libia orientale).

Questo può anche significare che il discepolato più autentico di Gesù provenisse prevalentemente da fuori Giudea: il Cireneo diventa così il prototipo del discepolo di Gesù. Perché non prende la croce di Gesù, ma la propria croce.

Questi discepoli cominciano a diffondere il messaggio in lingua greca.

“E la mano del Signore era con loro e così un gran numero credette e si convertì al Signore. La notizia giunse agli orecchi della Chiesa di Gerusalemme, la quale mandò Bàrnaba ad Antiòchia” (At 11,21-22). Luca sta dicendo che la notizia è giunta nel cuore della comunità, ed usa il termine teologico di Gerusalemme (Jerusalem), non quello geografico.

“Ad Antiòchia per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani” (At 11,26).

 

 

Profeti e discepoli verso il 45 dC
“In questo tempo alcuni profeti scesero ad Antiòchia da Gerusalemme” (At 11,27). Qui la città viene indicata con il nome geografico di Jerosolima. Barnaba era stato mandato dall’istituzione religiosa (la curia di allora), mentre i profeti sono mossi dallo Spirito: loro cioè non vanno per controllare quello che sta accadendo ad Antiochia.

“E uno di loro, di nome Àgabo, alzatosi in piedi, annunziò per impulso dello Spirito che sarebbe scoppiata una grave carestia su tutta la terra. Ciò che di fatto avvenne sotto l’impero di Claudio” (At 11,28).

Con questo imperatore c’è una prima espulsione da Roma di tutti gli ebrei, giudeo-cristiani compresi, in quanto provocavano costantemente subbugli e c’erano continue contrapposizioni tra comunità giudaiche e comunità cristiane. Non per un motivo religioso, ma politico (lo stesso che porterà Costantino a convocare un concilio a Nicea nel 325), legato alla pace sociale. Anche a Roma, i giudeo-cristiani si recavano in sinagoga per diffondere la Parola e ciò era motivo di scontro, nel momento in cui facevano proseliti. La comunità giudaica era molto numerosa nella capitale imperiale: si parla di 40.000 persone.

“Allora i discepoli si accordarono, ciascuno secondo quello che possedeva, di mandare un soccorso ai fratelli abitanti nella Giudea; questo fecero, indirizzandolo agli anziani, per mezzo di Bàrnaba e Saulo” (At 11,29-30). La notizia del profeta Àgabo fa scattare l’idea di una raccolta fondi da inviare a Gerusalemme, tramite Bàrnaba che era stato mandato proprio da quella comunità. La colletta viene indirizzata agli anziani.

“C’erano nella comunità di Antiòchia profeti e dottori: Bàrnaba, Simeone soprannominato Niger, Lucio di Cirène, Manaèn, compagno d’infanzia di Erode tetrarca, e Saulo” (At 13,1).

C’erano profeti e maestri: non si dice che c’erano apostoli. E’ una comunità nata dalla diaspora dopo l’uccisione di Stefano, in cui i profeti insieme ai maestri svolgono un ruolo anche più importante di quello degli apostoli.

“Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: « Riservate per me Bàrnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati ». Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li congedarono” (At 13,2-3). Imporre le mani non è un atto di consacrazione, ma un mandato che autorizza a parlare a nome di quella comunità.

 

 

Gli evangelizzatori Paolo e Barnaba
In seguito (At. 13,44-52) arrivano ad Antiòchia di Pisidia, dove c’è una forte componente giudaica: Paolo e Bàrnaba vengono ostracizzati e allontanati dalla città dopo aver fatto un bel discorso di sabato nella sinagoga ed essersi rivolti ai pagani.

Quando Paolo chiederà a Bàrnaba di rifare il giro delle comunità che avevano contribuito a fondare, comincerà il dissenso tra i due fino alla separazione: “Dopo alcuni giorni Paolo disse a Bàrnaba: «Ritorniamo a far visita ai fratelli in tutte le città nelle quali abbiamo annunziato la parola del Signore, per vedere come stanno». Bàrnaba voleva prendere insieme anche Giovanni, detto Marco, ma Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro nella Panfilia e non aveva voluto partecipare alla loro opera. Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro; Bàrnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, raccomandato dai fratelli alla grazia del Signore” (At. 15,36-40).

Non sappiamo il motivo per cui Marco (probabilmente l’evangelista) non aveva partecipato all’evangelizzazione della Panfilia: forse per un dissenso teologico o di metodo. Di certo Bàrnaba sceglie Marco e si separa da Paolo. Quest’ultimo riparte con Sila e abbandona colui che lo aveva “riscattato”: era stato Bàrnaba a prenderlo a Tarso e a portarlo con sé ad Antiochia, per farne un suo collaboratore.

 

 

Aquila, Priscilla e Apollo
Quando Paolo giunge a Corinto c’era già una comunità cristiana: qui infatti trova una coppia, Aquila e Priscilla. “Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro e poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì nella loro casa e lavorava. Erano infatti di mestiere fabbricanti di tende.” (At. 18,1-3).

La coppia aveva già parlato di Gesù a Corinto, erano missionari itineranti che si muovevano solo per annunciare la Parola e facevano un mestiere per mantenersi. C’erano anche missionari che, approfittando del ruolo, si facevano mantenere dalle comunità: Paolo dirà che dopo tre giorni di totale ospitalità bisogna cercarsi un lavoro e contribuire al proprio mantenimento.

Dopo parecchi giorni, Paolo con i due coniugi riparte per Èfeso. Lascia la coppia in quella città e riparte per Antiochia, passando per Cesarea e Gerusalemme. Ad Èfeso giunge Apollo: “Arrivò a Èfeso un Giudeo, chiamato Apollo, nativo di Alessandria, uomo colto, versato nelle Scritture. Questi era stato ammaestrato nella via del Signore” (At. 18,24-25a).

Apollo era uno scriba, proveniente da Alessandria d’Egitto, città culturalmente vivace, dove si trovava la famosa biblioteca e dove era stata tradotta in greco la Bibbia. Egli era stato convertito al cristianesimo, cioè “la via” del Signore: termine col quale le comunità cristiane si autodefinivano.

“Pieno di fervore parlava e insegnava esattamente ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni” (At. 18,25b). Apollo era specializzato nelle Scritture e quindi, da maestro, parlava con autorevolezza. Probabilmente proveniva da un gruppo giovannita, costituito da discepoli di Giovanni il Battista che riconoscevano il ruolo di Gesù, ma erano ancora indecisi su chi fosse veramente il Messia. Questi gruppi resisteranno fino alla fine del I secolo. Nel Vangelo di Giovanni (fine I secolo), già agli inizi troviamo il Battista che ammette la supremazia di Gesù: “Il giorno dopo, Giovanni vedendo Gesù venire verso di lui disse: « Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo! Ecco colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me.” (Gv. 1,29-30). E i discepoli di Giovanni Battista passano con Gesù: “Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: « Ecco l’agnello di Dio! ». E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.” (Gv. 1,35-37).

Ecco allora Apollo che sta diventando seguace di Gesù, provenendo dal mondo dei giovanniti: era di fede ebraica, ma di cultura ellenistica.

“Egli intanto cominciò a parlare francamente nella sinagoga. Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio.” (At. 18,26). I due coniugi aggiornano Apollo, con metodo pedagogico, sulla novità della “via” di Gesù.

Apollo ora è pronto per passare nell’Acaia: “confutava infatti vigorosamente i Giudei, dimostrando pubblicamente attraverso le Scritture che Gesù è il Cristo.” (At. 18,28). Si sta mettendo in campo la catechesi: lo studio procede partendo da Gesù e reinterpretando tutti quei brani dell’antico testamento che lo riguardano.

 

6.           La comunità di Efeso: quando la mancanza di amore fa venir meno l’unità nei valori e nei principi
Paolo ad Efeso
“Mentre Apollo era a Corinto, Paolo, attraversate le regioni dell’altopiano, giunse a Èfeso. Qui trovò alcuni discepoli e disse loro: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?». Gli risposero: «Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo». Ed egli disse: «Quale battesimo avete ricevuto?». «Il battesimo di Giovanni», risposero. Disse allora Paolo: «Giovanni ha amministrato un battesimo di penitenza, dicendo al popolo di credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Gesù». Dopo aver udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù e non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano. Erano in tutto circa dodici uomini.” (At. 19,1-7).

Come si vede, Paolo non solo evangelizza ma amministra anche il battesimo. Poi, per tre mesi va nella sinagoga di Èfeso e parla liberamente del regno di Dio. Èfeso era la città più importante dell’Asia minore occidentale, sia dal punto di vista politico che economico: molto sviluppato il culto dell’imperatore, ma si veneravano anche parecchie divinità pagane, specialmente Artemide, la grande madre delle divinità (non a caso, sarà proprio ad Èfeso che nel 431 Maria di Nazareth verrà proclamata Madre di Dio); era cioè una grandissima città di pellegrinaggio, frequentata da diversi leader religiosi, sede di riti cultuali e magici di ogni tipo, con grandi movimenti di denaro.

Paolo “Entrato poi nella sinagoga, vi poté parlare liberamente per tre mesi, discutendo e cercando di persuadere gli ascoltatori circa il regno di Dio. Ma poiché alcuni si ostinavano e si rifiutavano di credere dicendo male in pubblico di questa via, si staccò da loro separando i discepoli e continuò a discutere ogni giorno nella scuola di un certo Tiranno. Questo durò due anni, col risultato che tutti gli abitanti della provincia d’Asia, Giudei e Greci, poterono ascoltare la parola del Signore.” (At. 19,8-10).

Paolo smette di frequentare la sinagoga e porta con sé quei discepoli che condividono la stessa “via”, andando a predicare per due anni presso un tale di nome Tiranno. Sommando ogni periodo, Paolo rimarrà ad Èfeso per tre anni.

“Dio intanto operava prodigi non comuni per opera di Paolo, al punto che si mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano.” (At. 19,11-12). Sarà poi costretto ad andarsene da quella città per evitare il linciaggio: gli efesini provocheranno un tumulto per difendere il culto di Artemide e il commercio legato ad esso.

Lasciata Efeso, troviamo Paolo a Mileto: qui manda a chiamare i responsabili della chiesa di Efeso, perché li vuole salutare: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi.” (At. 20,28-31).

Prima si parlava di maestri e di profeti, ora si parla di amministratori (cioè vescovi). Ma come si stava comportando questa chiesa di Efeso, in un ambiente non certamente facile per annunciare il Vangelo?

Partiamo dalla Lettera agli efesini, scritta da una comunità paolina, e dall’Apocalisse, scritta da una comunità giovannea.

Tutti i testi del nuovo Testamento sono stati scritti da comunità che vivono in città: per ora l’ambiente della campagna non esiste o non fa testo. Questo è importante anche per capire il ruolo dei funzionari: la figura successiva del prete nascerà nelle campagne, come ausilio del vescovo che resta invece in città.

Il primo capitolo della Lettera agli efesini fa emergere la cristologia di alto livello della comunità di Efeso; mentre il secondo descrive la misericordia e la grazia di Dio, che ci ha gratuitamente salvati mediante Gesù Cristo: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace” (Ef. 2,14-15).

Non dimentichiamo che, precedentemente, l’osservanza della legge ebraica era stato motivo di opposizione a Paolo. Ulteriormente importante è il capitolo 4.

 

 

La comunità di Efeso (in Apocalisse)
La prima delle sette lettere dell’Apocalisse è rivolta proprio alla chiesa di Efeso (Ap. 2,1-7). Il numero 7 (perfezione – compiutezza) sta ad indicare che si tratta di un messaggio rivolto alla Chiesa intera, quella di tutti i tempi (quella di allora e quella di oggi).

“All’angelo della Chiesa di Èfeso scrivi: Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro”.

L’angelo è il vescovo di Efeso  o è la comunità della chiesa di Efeso? Dire “angelo” significa che la comunità di Efeso appartiene a Dio, che è nelle sue mani. “Colui che tiene le sette stelle” è Gesù che cammina in mezzo alla sua comunità, che è presente in essa (e non dove lo mettiamo noi). Come afferma anche il finale di Matteo: “Io sono con voi tutti i giorni”. Il ruolo di Gesù quindi non è statico, ma è dinamicamente collegato alla sua comunità: è presente come azione. La comunità cioè deve fare i conti con il suo Signore. Gesù conosce quello che la comunità vive, infatti: “Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza, per cui non puoi sopportare i cattivi; hai messi alla prova quelli che si dicono apostoli e non lo sono e li hai trovati bugiardi.”

E’ quello che affermava Paolo agli efesini in Atti 20. Grazie alla cristologia di alto livello di quella comunità è stato possibile individuare i falsi apostoli. “Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti.” Quella di Efeso è una comunità che dal punto di vista dottrinale non ha ceduto: i suoi principi e i suoi valori non li ha ritenuti negoziabili. “Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima.” Cioè l’amore, quello primo. “Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti convertirai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto.”

Comunità pura e integra sul piano dottrinale, ma diventata rigida e quindi sterile dal punto di vista umano, priva di amore: l’amore è l’unico motivo di esistenza per una Chiesa, unica condizione dell’esserci della comunità di Gesù: se viene a mancare questo, diventa una dottrina come tutte le altre e non ha più senso. Gesù le chiede di tornare all’origine, all’unico motivo per cui esiste: altrimenti Lui la farà scomparire. Una comunità lodata per il suo impegno, ma minacciata per il suo essere: “deve tornare ad amare come Gesù ha amato”.

“Tuttavia hai questo di buono, che detesti le opere dei Nicolaìti, che anch’io detesto.” Non sappiamo molto dei Nicolaìti, però possiamo supporre che si tratti di una setta che usava mangiare le carni sacrificate agli idoli. Anche Paolo consigliava i cristiani, invitati a pranzo da qualche pagano, a non considerare normale mangiare questa carne offerta agli idoli. Questo significa che i Nicolaìti sono presenti nel mondo cristiano e giudaico, ma che consideravano del tutto normale partecipare a degli incontri con il mondo pagano: con un linguaggio moderno diremmo che i Nicolaìti trovavano normale essere cristiani e vivere, allo stesso tempo, da pagani (infatti si parla di “opere”). E’ un invito alla coerenza, nella pratica di vita, con l’insegnamento di Gesù. Proprio ad Efeso, centro commerciale e religioso: potevano alcuni discepoli di Gesù vendere le statuette di Artemide (per mantenere la propria famiglia)? Mangiare carni immolate agli idoli e subito dopo celebrare la fractio panis?

 

 

Ignazio, Efeso e il ruolo del vescovo
Anche Ignazio, vescovo di Antiochia, scrive da Smirne (poco dopo il 100) alle comunità di Efeso, di Magnesia e di Tralli. “A quella Chiesa degna di essere beata, che è in Efeso dell’Asia, i migliori saluti in Gesù Cristo e nella gioia irreprensibile. Lode agli Efesini e al vescovo Onesimo”. Quest’ultimo era stato schiavo di Filemone e compagno di Paolo. “Bisogna glorificare in ogni modo Gesù Cristo che ha glorificato voi, perché riuniti in una stessa obbedienza e sottomessi ai vescovi e ai presbiteri siate santificati in ogni cosa”. Si comincia a parlare di sottomissione al vescovo e ai presbiteri.

Ancora: “Ma poiché la carità non mi lascia tacere con voi, voglio esortarvi a comunicare in armonia con la mente di Dio. E Gesù Cristo, nostra vita inseparabile, è il pensiero del Padre, come anche i vescovi posti sino ai confini della terra sono nel pensiero di Gesù Cristo. Conviene procedere d’accordo con la mente del vescovo, come già fate. Il vostro presbiterato ben reputato degno di Dio è molto unito al vescovo come le corde alla cetra. Per questo dalla vostra unità e dal vostro amore concorde si canti a Gesù Cristo. E ciascuno diventi un coro, affinché nell’armonia del vostro accordo prendendo nell’unità il tono di Dio, cantiate ad una sola voce per Gesù Cristo al Padre, perché vi ascolti e vi riconosca, per le buone opere, che siete le membra di Gesù Cristo. E’ necessario per voi trovarvi nella inseparabile unità per essere sempre partecipi di Dio.” Il discorso fatto è sempre sull’unità. Se Paolo avverte che il muro che separava gli efesini era ormai caduto con Gesù, se nell’Apocalisse si loda l’ortodossia della Chiesa di Efeso ma si critica la sua mancanza di amore, con Ignazio il discorso ritorna dottrinale: è venuta meno l’unità in ciò che si crede. Infatti prosegue scrivendo: “Se in poco tempo ho avuto tanta familiarità con il vostro vescovo, che non è umana, ma spirituale, di più vi stimo beati essendo uniti a lui come la Chiesa lo è a Gesù Cristo e Gesù Cristo lo è al Padre perché tutte le cose siano concordi nell’unità. Nessuno s’inganni: chi non è presso l’altare, è privato del pane di Dio. Se la preghiera di uno o di due ha tanta forza, quanto più quella del vescovo e di tutta la Chiesa! Chi non partecipa alla riunione è un orgoglioso e si è giudicato. Sta scritto «Dio resiste agli orgogliosi». Stiamo attenti a non opporci al vescovo per essere sottomessi a Dio”. Siamo appena agli inizi del II secolo, visto che Ignazio d’Antiochia muore nel 107. “Occorre dunque onorare il vescovo come il Signore stesso”. “Non ascoltate nessuno che non vi parli di Gesù Cristo nella verità. In effetti ci sono alcuni che con inganno perverso usano portare in giro il nome di Dio ma fanno cose indegne di lui: costoro dovete evitare come bestie feroci, perché sono cani rabbiosi, che mordono di nascosto. Guardatevi da loro, perché è difficile guarirli. C’è un solo medico, carnale e spirituale, generato e ingenerato, Dio che è venuto nella carne, vita vera nella morte, da Maria e da Dio, prima passibile e ora impassibile, Gesù Cristo, nostro Signore”. Questa è cristologia di alto livello. Ed ecco ricalcare quanto detto in Apocalisse: “Ho inteso che sono venuti alcuni portando una dottrina malvagia. Voi non li avete lasciati seminare in mezzo a voi, turandovi le orecchie per non ricevere ciò che speravano. Voi siete pietre del tempio del Padre preparate per la costruzione di Dio Padre, elevate con l’argano di Gesù Cristo che è la croce, usando come corda lo Spirito Santo. La fede è la vostra leva e la carità la strada che vi conduce a Dio. Siete tutti compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito Santo, in tutto ornati dei precetti di Gesù Cristo.” “Nulla di tutto questo vi sfuggirà, se avete perfettamente la fede e la carità in Gesù Cristo, che sono il principio e lo scopo della vita. Il principio è la fede, il fine la carità. L’una e l’altra insieme riunite sono Dio, e tutto il resto segue la grande bontà. Nessuno che professi la fede pecca, nessuno che abbia la carità odia. L’albero si conosce dal suo frutto. Così coloro che si professano di appartenere a Cristo saranno riconosciuti da quello che operano. Ora l’opera non è di professione di fede, ma che ognuno si trovi nella forza della fede sino all’ultimo.”

“È meglio tacere ed essere, che dire e non essere. È bello insegnare se chi parla opera.”

“Soprattutto se il Signore mi rivelerà che ognuno e tutti insieme nella grazia che viene dal suo nome vi riunite in una sola fede e in Gesù Cristo del seme di David figlio dell’uomo e di Dio per ubbidire al vescovo e ai presbiteri in una concordia stabile spezzando l’unico pane che è rimedio di immortalità, antidoto per non morire, ma per vivere sempre in Gesù Cristo.” Qui si sta parlando di un unico pane nell’unico luogo, insieme con il vescovo: senza quest’ultimo non si può far nulla.

 

 

Ignazio e il docetismo ad Efeso
Questo messaggio di Ignazio è molto importante, e non è rivolto tanto ai nicolaiti. Qui sta avanzando in ambito cristologico un particolare modo di pensare, partendo dalla cultura greca, della vicenda di Gesù di Nazareth. Un pensiero che più avanti sarà chiamato docetismo, una delle prime forme di eresia. Figlio dello gnosticismo, il docetismo metteva in crisi l’umanità di Gesù e prendeva spunto dalla cultura greca, una cultura dualista (mondo dello spirito e mondo della materia: lo spirito entra nella materia ma ne resta sempre distaccato). Ecco perché Ignazio dice “figlio dell’uomo e di Dio”, per prendere distanza da questa cultura. Anche la scuola giovannea prende posizione, non solo nel Vangelo ma anche nella prima Lettera di Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato/palpato, ossia il Verbo della vita. quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi.” (1Gv. 1,1.3). Per i docetisti la divinità scende nel mondo dell’umano, prende una forma umana senza diventare pienamente umana: anche sulla croce il Figlio si sveste della sua umanità, e se ne torna da dove era arrivato. Non c’è stata alcuna Incarnazione: la morte e la risurrezione di Gesù, di conseguenza, non sono autentiche/vere per cui la salvezza è falsa. A Corinto, e nel mondo greco, credevano che la sopravvivenza fosse data dall’immortalità dell’anima (1Cor. 15): Paolo dirà invece “ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede”. Il punto centrale che si sta mettendo in discussione è questo: la morte e resurrezione di Gesù, la sua Pasqua. Se togliamo l’autentica umanità di Gesù, svalorizziamo la sua morte e la sua resurrezione: se non esiste la prima, non esiste nemmeno la seconda.

Se è vero che è salvato ciò che viene assunto, se Gesù non è diventato uomo l’umanità non è redenta: in questo modo Gesù di Nazareth non è servito a nulla, come a nulla serve il suo messaggio e la “via” (=cristianesimo). Ecco allora l’insistenza di Ignazio sul fatto che Gesù è figlio di Adamo, figlio dell’uomo. Qui non si mette in crisi la divinità (come capiterà a partire dalla metà del II secolo) di Gesù, ma la sua umanità. Nel mondo greco le divinità entravano nel mondo umano, ma rivestendone l’umanità, senza diventare uomini. La vicenda di Gesù era letta in quest’ottica. Però nel mondo greco non esisteva la morte che avesse valore di salvezza, come quella di Gesù: la morte è morte, non è salvezza. Ecco la predicazione di Paolo, che annuncia il Cristo morto e risorto, il Cristo crocifisso. E di Pietro: voi lo avete crocifisso ma Dio lo ha risuscitato.

Quest‘idea gnostico-docetista che si fa strada verso la fine del I secolo, specie in ambiente di sapere ellenistico, la ritroviamo anche ad Efeso dove c’era la sintesi di tutte le culture dell’epoca. Ecco perché in questa città vi sono alcuni che spingono in questa direzione: amalgamando il messaggio di Gesù di Nazareth con la cultura ellenistica, diventa più facile diffonderlo in quell’ambiente, rendendolo così più comprensibile in un retroterra culturale di stampo greco. Ancor oggi troviamo persone che la pensano in questo modo, in termini dualistici.

Ecco che, Atti degli apostoli, Lettera agli Efesini e Apocalisse, invitano i discepoli di Efeso a mantenere vivo l’amore e a non trincerarsi in una determinata dottrina, perché la salvezza non è la perfezione in una determinata dottrina: la salvezza è prassi e non teoresi.

Infine troviamo Ignazio che invita gli efesini a mantenersi saldi nelle opere della carità, tenendo presente che Gesù non è una divinità rivestita di umanità, ma un Dio che entra veramente nella storia umana. Sul piano pastorale, per Ignazio, queste idee devono avere l’evidenza dell’unità del gruppo sotto l’autorità del presbiterato e del vescovo: come dire, restiamo uniti e bene organizzati, senza prestarci a critiche fuorvianti. Gesù ha detto:“Percuoteranno il pastore e il gregge sarà disperso” ed è questo ciò che vuole evitare Ignazio col suo invito all’unità, e non tanto definire  la dottrina dell’autorità del vescovo. Il vescovo, per Ignazio, non va scelto in base all’età, ma secondo il valore della sua persona/stile di vita in coerenza con il vangelo.  Anche perché occorre evitare quella compromissione con la logica del mondo, ben radicata nei nicolaiti di allora e di oggi presenti nelle comunità cristiane, fatta di accordi sottobanco o sopra per evitare l’estinzione, per poter sopravvivere o anche per contare di più.

 

 

7.           Le lettere di Ignazio: la Chiesa comincia a darsi una struttura ben precisa
Ignazio e l’ordine sacerdotale
Nella tradizione della Chiesa (sia d’oriente che d’occidente), i testi che hanno avuto maggiore influenza non sono stati quelli del Nuovo Testamento, ma le lettere di Ignazio di Antiochia e le due lettere di Clemente vescovo di Roma ai Corinzi.

Ignazio, che muore a Roma attorno al 107, scrive da Smirne anche ai cristiani di Magnesia (in Lidia, Asia Minore), cittadina non destinataria di lettera in Apocalisse.

Dopo una breve e bella introduzione “alla Chiesa di Magnesia benedetta nella grazia di Dio Padre in Gesù Cristo nostro Salvatore il mio saluto”, dice di aver conosciuto un certo diacono di nome Zootione: “Egli è sottomesso al vescovo come alla grazia di Dio e al presbitero come alla legge di Gesù Cristo”. Dai Vangeli non emerge che Gesù abbia dato una legge, ma quello che importa è che già alla fine del I secolo (siamo a 70 anni dopo la morte di Gesù), ci sia già un embrione di strutturazione gerarchica della Chiesa.

“Conviene che voi non abusiate dell’età del vescovo, ma per la potenza di Dio Padre gli tributiate ogni riverenza.” Anche se il vescovo è molto giovane non bisogna approfittare della sua età. “In realtà ho saputo che i vostri santi presbiteri non hanno abusato della giovinezza evidente di lui, ma saggi in Dio sono sottomessi a lui, non a lui, ma al Padre di Gesù Cristo che è il vescovo di tutti.”

Qui Dio è diventato il vescovo di tutti: si va a cercare la motivazione teologica per giustificare un dato di fatto. Perché questo tentativo di centralizzazione sulla figura del vescovo? Siamo sicuramente all’interno di una situazione complessa, in cui non troviamo una comunità cristiana, ma tante comunità di diverso tipo. Forse per evitare la dispersione e la contrapposizione si cerca di costituire un centro di unità: in seguito, nella teologia, cattolica il vescovo diventerà “il principio visibile dell’unità della Chiesa locale”; non il principio dell’unità (che resta la Trinità), ma quello “visibile”.

“Per il rispetto di chi ci ha voluto bisogna obbedire senza ipocrisia alcuna, poiché non si inganna il vescovo visibile, bensì si mentisce a quello invisibile.” Come dire: il vescovo non se ne accorge, ma Dio ti vede!

“Bisogna non solo chiamarsi cristiani, ma esserlo; alcuni parlano sempre del vescovo ma poi agiscono senza di lui. Questi non sembrano essere onesti perché si riuniscono non validamente contro il precetto”. Non solo non si deve agire contro di lui, ma nemmeno si può celebrare l’eucarestia senza di lui. Siamo in un’epoca in cui le comunità cristiane sono in città: quando si diffonderanno anche nelle campagne, allora anche il presbitero (il prete) potrà celebrare l’eucarestia, non potendo il vescovo essere ovunque.

“Vi prego di essere solleciti a compiere ogni cosa nella concordia di Dio e dei presbiteri. Con la guida del vescovo al posto di Dio, e dei presbiteri al posto del collegio apostolico e dei diaconi”. E’ tutto fatto: il sacramento dell’ordine è in dirittura d’arrivo. C’è il vescovo al posto di Dio e i presbiteri al posto degli apostoli. “Come il Signore nulla fece senza il Padre col quale è uno, né da solo né con gli apostoli, così voi nulla fate senza il vescovo e i presbiteri”. “Accorrete tutti come all’unico tempio di Dio, intorno all’unico altare che è l’unico Gesù Cristo che procedendo dall’unico Padre è ritornato a lui unito”.

 

 

Ignazio e la necessità del vescovo
Ignazio scrive da Smirne anche ai cristiani di Tralli, cittadina vicino a Magnesia. Anche questa viene salutata in modo altisonante, come la “chiesa santa che è in Tralli dell’Asia, eletta e degna di Dio, in pace nella carne e nello spirito per la passione di Gesù Cristo”. I temi sono gli stessi: sottomettersi al vescovo come a Gesù Cristo, senza presbiteri e vescovo non c’è Chiesa.

“Se siete sottomessi al vescovo come a Gesù Cristo dimostrate che non vivete secondo l’uomo ma secondo Gesù Cristo”. “È necessario, come già fate, non operare nulla senza il vescovo, ma sottomettervi anche ai presbiteri come agli apostoli di Gesù Cristo. Bisogna che quelli che sono i diaconi dei misteri di Gesù Cristo siano in ogni maniera accetti a tutti. Non sono diaconi di cibi e di bevande, ma servitori della Chiesa di Dio.”

“Similmente tutti rispettino i diaconi come Gesù Cristo, come anche il vescovo che è l’immagine del Padre, i presbiteri come il sinedrio di Dio e come il collegio degli apostoli. Senza di loro non c’è Chiesa.” Non troviamo nulla di simile nei Vangeli; come dire: dove c’è Pietro c’è la Chiesa. Questa impostazione durerà fino al concilio Vaticano II, che la capovolgerà: dove c’è la Chiesa lì c’è Pietro. Siamo attorno al 106 e queste idee si imporranno per 19 secoli.

“Prendete solo l’alimento cristiano e astenetevi dall’erba estranea che è l’eresia.” Non sta parlando tanto dell’ebraismo, ma di altre dottrine e opinioni teologiche che stavano prendendo piede.

“Chi è all’interno del santuario è puro; chi ne è lontano non è puro. Ciò significa che chiunque operi separatamente dal vescovo, dal presbitero e dai diaconi, non è puro nella coscienza.”

“Non date motivo ai pagani che per pochi sconsiderati sia bestemmiata la moltitudine di Dio.”

“Siate sordi se qualcuno vi parla senza Gesù Cristo, della stirpe di David, figlio di Maria, che realmente nacque, mangiò e bevve. Egli realmente fu perseguitato sotto Ponzio, realmente fu crocifisso e morì alla presenza del cielo, della terra e degli inferi. Egli realmente risuscitò dai morti poiché lo risuscitò il Padre suo e similmente il Padre suo risusciterà in Gesù Cristo anche noi che crediamo in Lui, e senza di Lui non abbiamo la vera vita. Se come dicono quelli che sono atei, cioè senza fede, che egli soffrì in apparenza, essi che vivono in apparenza, perché sono io incatenato?” Qui sono chiamati atei i docetisti, primi eretici in ambito cristiano.

 

 

Il docetismo nega l’umanità di Gesù
Nel IV Vangelo (di qualche anno prima delle lettere di Ignazio) Giovanni aveva scritto “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv. 1,14).

Il testo usa il termine σάρξ (sarx), cioè carne, e non quello di uomo. Anche all’inizio della sua prima Lettera troviamo questa idea: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato/palpato, ossia il Verbo della vita” (1Gv. 1,1). E ancora: “Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo. Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio” (1Gv. 4,1-2).

Il docetismo era un’eresia di tipo gnostico, dualista: esiste il mondo dello spirito (buono, vero, perfetto) e il mondo della materia (imperfetto, falso); non può esistere un dio che sia allo stesso tempo l’autore del mondo dello spirito e l’autore del mondo della materia. Di fronte al Logos (il Verbo), questo pensiero sostiene che dio è entrato nella dimensione umana, ma non in modo radicale e totale, ma tangenziale: Dio ha preso dall’umano una forma esteriore, per cui sembrava uomo ma non lo era veramente. Quando Gesù è morto, per i docetisti, il Logos ha abbandonato la forma apparente: la sua non è stata perciò una morte reale, vera.

In gioco c’era l’idea cristologica della salvezza: se Gesù di Nazareth non è morto veramente, ma solo in modo fittizio, neppure la resurrezione è stata reale. Nemmeno la salvezza è reale.

Il docetismo metteva in crisi la vera umanità di Gesù, considerata una mera finzione come quella di Zeus e Apollo, cioè di tutte le divinità del mondo greco che si vestivano e si svestivano dell’umanità in base all’occorrenza: il divino entrava nell’umano senza diventarlo veramente, in quanto l’umanità era considerata inferiore alla divinità: se dio opera un cambiamento in sé diventando minore di quello è, allora non è più dio. Ecco il problema di fondo avvertito anche da Ignazio: Gesù è veramente della stirpe di David e nato da Maria, realmente è stato crocifisso e veramente è resuscitato. Altrimenti non si può parlare di una salvezza reale.

L’opera giovannea e le lettere ignaziane sono i principali testi antidocetisti, tesi a combattere una realtà culturale di stampo ellenistico (in cui lo gnosticismo sul piano filosofico era particolarmente diffuso).

70 anni dopo, nei circoli giudaici, troveremo una dottrina opposta al docetismo, l’adozianesimo: Gesù era un uomo come tutti gli altri (nato come tutti gli altri), ma nel momento del battesimo viene adottato da Dio come Figlio. “E si sentì una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto»” (Mc. 1,11). Questa teoria mette in crisi la divinità di Gesù, mentre il docetismo metteva in crisi la sua umanità. Entrambe queste dottrine troveranno una certa diffusione nel II secolo.

 

 

 

La lettera di Ignazio ai cristiani di Smirne
Smirne è una delle destinatarie delle sette lettere dell’Apocalisse e di una importante lettera di Ignazio, scritta nella Troade, sul finire del suo viaggio verso Roma. Comincia con un grandioso saluto iniziale: “Ignazio alla Chiesa di Dio Padre e dell’amato Gesù Cristo che ha ottenuto misericordia in ogni grazia, che è piena di fede e di carità, piena di ogni carisma, carissima a Dio e portatrice dello Spirito Santo, che sta a Smirne dell’Asia, il saluto migliore nello spirito irreprensibile e nella parola di Dio.” E’ compiaciuto della fermezza dottrinale degli smirnesi nei confronti del docetismo: “Gloria a Gesù Cristo Dio che vi ha resi così saggi. Ho constatato che siete perfetti nella fede che non muta, come inchiodati nel corpo e nell’anima alla croce di Gesù Cristo e confermati nella carità del Suo sangue. Siete pienamente convinti del Signore nostro, che è veramente della stirpe di David secondo la carne, Figlio di Dio secondo la volontà e la potenza di Dio, nato realmente dalla vergine, battezzato da Giovanni, perché ogni giustizia fosse compiuta da lui. Egli, sotto Ponzio Pilato e il tetrarca Erode, per noi fu veramente inchiodato nella carne, e dal frutto di ciò e dalla sua divina e beata passione noi <siamo nati> per innalzare per sempre, con la sua resurrezione, uno stendardo sui suoi santi e i suoi fedeli, giudei e pagani, nell’unico corpo della sua Chiesa.” C’è già il pro nobis (=per noi fu) che troveremo due secoli più tardi nel Credo (=per noi e per la nostra salvezza), come motivazione teologica della morte e resurrezione di Gesù. Parla di una Chiesa fatta da ex ebrei ed ex pagani, una comunità mista.

“Tutto questo soffrì il Signore perché fossimo salvi”. Questo nei Vangeli non lo troviamo, ma nella nostra catechesi sì: la sofferenza-morte-resurrezione di Gesù è per la nostra salvezza.

“E soffrì realmente come realmente risuscitò se stesso, non come dicono alcuni infedeli, essi che sono apparenza, che soffrì in apparenza.” Quelli che a Tralli erano definiti atei, a Smirne sono chiamati infedeli.

“Sono convinto e credo che dopo la risurrezione egli era nella carne. Quando andò da quelli che erano intorno a Pietro disse: “Prendete, toccatemi e vedete che non sono un demone senza corpo”. E subito lo toccarono e credettero, al contatto della sua carne e del suo sangue. Per questo disprezzarono la morte e ne furono superiori. Dopo la risurrezione mangiò e bevve con loro come nella carne, sebbene spiritualmente unito al Padre.” Qui sta dando anche una lettura fenomenica delle apparizioni di Gesù, oltre ad introdurre un principio cristologico fondamentale: una volta che il Figlio si è fatto uomo, lo rimane per sempre. La formula diventa: “Nel nome del Padre, del Figlio fatto uomo e dello Spirito Santo”.

Se noi escludiamo “il Figlio fatto uomo” può sembrare che l’umanità del Figlio sia stata la condizione di un periodo e non una realtà di sostanza: l’umanità del Figlio (secondo la cristologia nicena) appartiene al Figlio per sempre; Egli nella gloria trinitaria ha unito a sé l’umanità di Gesù di Nazareth: è per sempre il Figlio fatto uomo. L’umano si è unito per sempre al divino. Non era esattamente questa l’idea di Ignazio, perché per lui l’importante era il Gesù storico, autenticamente tale, veramente morto e resuscitato.

“Stanno lontani dalla eucaristia e dalla preghiera perché non riconoscono che l’eucaristia è la carne del nostro salvatore Gesù Cristo che ha sofferto per i nostri peccati e che il Padre nella sua bontà ha risuscitato.” “Fuggite le faziosità come il principio dei mali”. “Come Gesù Cristo segue il Padre, seguite tutti il vescovo e i presbiteri come gli apostoli; venerate i diaconi come la legge di Dio. Nessuno senza il vescovo faccia qualche cosa che concerne la Chiesa.” Queste affermazioni di Ignazio coincidono con il messaggio evangelico di Gesù? Assolutamente no! Eppure in meno di 80 anni dalla morte di Gesù l’impostazione viene capovolta. Ed è ciò che viene costantemente citato anche negli odierni documenti romani.

“Sia ritenuta valida l’eucaristia che si fa dal vescovo o da chi è da lui delegato. Dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c’è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica. Senza il vescovo non è lecito né battezzare né fare l’agape; quello che egli approva è gradito a Dio, perché tutto ciò che si fa sia legittimo e sicuro.” La Chiesa clericale è ormai strutturata. Questa impostazione teologica prende piede perché più di ogni altra assicura la salvezza dei piccoli gruppi, in un’epoca in cui sono fortemente minoritari, ostracizzati e perseguitati e quindi corrono il rischio dell’estinzione, mancando loro una forma di compattezza. Il richiamo all’unità attorno al vescovo da parte di Ignazio viene dall’esigenza di salvare il piccolo gregge. Quando la Chiesa diventerà maggioranza, allora assumerà una struttura civile a tutti gli effetti.

 

 

La Chiesa di Smirne in Apocalisse
Una decina di anni prima, sotto la persecuzione di Domiziano (94-95), anche l’autore di Apocalisse aveva scritto alla Chiesa di Smirne.

“All’angelo della Chiesa di Smirne scrivi: Così parla il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita. Conosco la tua tribolazione, la tua povertà – tuttavia sei ricco – e la calunnia da parte di quelli che si proclamano Giudei e non lo sono, ma appartengono alla sinagoga di satana. Non temere ciò che stai per soffrire: ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere, per mettervi alla prova e avrete una tribolazione per dieci gironi. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte.” (Ap. 2,8-11).

Se Ignazio insisteva sulla vera umanità di Gesù e sull’unità dei cristiani per superare indenni i travagli dell’epoca, l’autore di Apocalisse ragiona in maniera opposta. Smirne, città marinara abbastanza importante (non come Efeso), era un grosso centro commerciale con una buona stabilità economica: i cristiani di questa città vivevano all’interno di tale dimensione produttiva. Alcuni di loro negavano la morte e la resurrezione di Gesù (come nella lettera di Ignazio). Contro il docetismo prende posizione anche la scuola giovannea, autrice dell’Apocalisse.

Gesù conosce perfettamente la situazione della comunità di Smirne (“conosco”): c’è una persecuzione in atto (“tribolazione”), siamo quindi a metà degli anni 90 (persecuzione di Domiziano). I cristiani di Smirne vivono in un ambiente difficile: sono perseguitati/ostacolati e poveri; la comunità economicamente sta bene, però condivide con altri parte della sua ricchezza; vive uno stile di vita che non è quello della cultura del tempo: non è cioè una comunità materialistica, non attribuisce ai beni il senso della propria esistenza; possiede molti beni, li usa, li condivide, ma non se ne fa schiava: praticando le beatitudini di Gesù, ha capito che la vera ricchezza non sta nell’accumulo dei beni ma nella loro condivisione. Per questo è fedele e generosa.

Questa è la stessa cosa che dice Ignazio. Policarpo è stato un grande vescovo di questa comunità, poi ucciso (per delle calunnie).

La chiesa di Smirne viene perseguitata, attraverso ogni forma di emarginazione e di espulsione, soprattutto dalla comunità giudaica; infatti si è parlato di sinagoga di Satana, dato che a Smirne c’è una forte e importante comunità giudaica, che riconosce quelle cristiane come nate dalla propria costola e sembra dire: “voi cristiani di Smirne potete muovervi fino a un certo e non andare oltre”. Cioè: “non fate proselitismo, non portare via i fedeli dall’ambito giudaico”. Policarpo morirà per delle calunnie mosse soprattutto dalla comunità giudaica.

L’autore dice “avrete una tribolazione per dieci gironi”: qui occorre far riferimento al libro di Daniele e ai testi di Giosuè, quando Dio rivolgendosi ad Aronne (fratello di Mosè) afferma che “questo popolo mi ha tentato per 10 volte durante il cammino nel deserto, quindi non entrerà nella terra promessa”. Il numero 10 indica sempre una prova che è destinata a terminare: ci sarà da soffrire, si parla di carcere, e Policarpo capo di questa Chiesa sperimenterà anche il carcere e il martirio,ma questa prova cesserà; e quindi Gesù chiede a questa comunità di essere fedele fino alla fine: “hai dimostrato fedeltà al Vangelo? hai scelto di vivere uno stile di vita di solidarietà con gli altri? sei perseguitata, ma hai dimostrato una grande forza, una grande energia? Ti prego, non mollare adesso: prima o dopo le persecuzioni finiranno, non mollare; ti troverai di fronte alle autorità giudaiche e a quelle politiche (=romane), resta fedele, tieni duro, manca poco”.

Perché il difficile non è essere fedele quando tutto va bene, ma quando arrivano le avversità; alla fine avrai la corona della vita che è un modo di dire: “avrai dentro di te la stessa vita di Dio”. Supererai questa prova e sperimenterai dentro di te la stessa vita di Dio, non sarai toccata dalla “morte seconda”. Qui per la prima volta compare l’espressione “morte seconda”, cioè la morte definitiva. Partecipando alla vita definitiva di Dio si parteciperà alla vita intima di Dio e quindi si farà parte del libro della vita. La morte definitiva, antropologica, umana, non ti toccherà.

Ecco che nelle lettere di Ignazio troviamo aspetti simili al testo di Apocalisse.

 

 

8.           La comunità di Roma, tramite Clemente, scrive a quella di Corinto: adottare un’organizzazione ecclesiale che superi i conflitti
Clemente e la Chiesa di Corinto a fine I sec.
Ci spostiamo un attimo da Ignazio e l’oriente  per portarci sul versante occidentale.

Clemente scrive due lettere ai cristiani di Corinto. Clemente è a Roma, in Occidente.

Per capire queste lettere bisogna tornare indietro alle lettere di Paolo. Nelle sue due lettere, Paolo vede una comunità di alto livello culturale, ma che corre grossi rischi a causa della contrapposizione al proprio interno.

Paolo dirà: meno male che ho battezzato solo due persone e non tutti quanti voi! Perché? Qualcuno dirà: mi ha battezzato Pietro e quindi sono di Pietro, qualcun’altro dirà: mi ha battezzato Apollo e quindi sono di Apollo, eccetera. Quindi il battesimo viene visto come appartenenza al modo di vedere e di agire di colui che lo ha amministrato. Mi ha battezzato Apollo? Allora condivido il modo di pensare di Apollo. Mentre la Chiesa è una e di Cristo dice Paolo, ed è nel suo nome che siete stati battezzati, non in quello di Paolo o di Pietro o di Apollo.

A un certo punto Clemente scrive ai cristiani di Corinto, tutti o solo un gruppo? E’ la stessa comunità di Paolo?

Comunque, al di là di tutto, nella tradizione cattolica questa lettera è vista come appartenente al vescovo di Roma.

Questo contesto viene utilizzato dalla teologia che esalta il primato di Pietro, il primato petrino, cioè il papato. Come dire: c’è un problema a Corinto e se il vescovo di Roma deve intervenire in un’altra zona, vuol dire che il vescovo di Roma può intervenire dappertutto. Quindi inizia a farsi strada l’idea di un primato da parte del vescovo di Roma nei confronti delle altre chiese.

L’autore di questa lettera è sicuramente un giudeo di cultura ellenistica. Quando viene scritta? Al termine della persecuzione di Domiziano. E’ difficile una data precisa: la persecuzione è avvenuta nel 95 a Roma, si è dilatata anche dopo questa data nelle periferie dell’impero, per cui si può parlare tra il 95 e il 98. O almeno fino ai testi di Ignazio di Antiochia.

Si inizia con l’elogio dei cristiani di Corinto: “Per le improvvise disgrazie e avversità capitatevi l’una dietro l’altra, o fratelli, crediamo di aver fatto troppo tardi attenzione alle cose che si discutono da voi, carissimi, all’empia e disgraziata sedizione aberrante ed estranea agli eletti di Dio. Pochi sconsiderati e arroganti l’accesero, giungendo a tal punto di pazzia che il vostro venerabile nome, celebre e amato da tutti gli uomini, è fortemente compromesso. Chi, fermandosi da voi, non ebbe a riconoscere la vostra fede salda e adorna di ogni virtù? Ad ammirare la vostra pietà cosciente ed amabile in Cristo? Ad esaltare la vostra generosa pratica dell’ospitalità? A felicitarsi della vostra scienza perfetta e sicura? Facevate ogni cosa, senza eccezione di persona, e camminavate secondo le leggi del Signore, soggetti ai vostri capi e tributando l’onore dovuto ai vostri anziani. Esortavate i giovani a pensare cose moderate e degne. Raccomandavate alle donne di compiere tutto con coscienza piena, dignitosa e pura, amando sinceramente, come conviene, i loro mariti; insegnavate a ben accudire alla casa, attenendosi alla norma della sottomissione e ad essere assai prudenti”. Quando si dice di aver fatto troppo tardi attenzione alle cose che si discutono si sta parlando della persecuzione di Domiziano.  Si risente l’eco delle questioni paoline. Paolo aveva scritto 4 lettere alla comunità di Corinto, di cui due sono andate perdute, intorno alla metà degli anni 50.

Con Clemente siamo nel 96-97: quindi sono passati quarant’anni dalle lettere di Paolo e la situazione non è molto cambiata.

“Gli uni verso gli altri eravate sinceri, semplici e senza rancori. Ogni sedizione ed ogni scisma era per voi orribile”. Quadretto un po’ troppo idilliaco. Poi che succede? “Di qui gelosia e invidia, contesa e sedizione, persecuzione e disordine, guerra e prigionia. Così si ribellarono i disonorati contro gli stimati, gli oscuri contro gli illustri, i dissennati contro i saggi, i giovani contro i vecchi.”

Come dire: prima tutto a posto e poi il caos all’interno della comunità.

Clemente va a prendere degli esempi, quelli vicini alla sua epoca: “1. Ma lasciando gli esempi antichi, veniamo agli atleti vicinissimi a noi e prendiamo gli esempi validi della nostra epoca. 2. Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. 3. Prendiamo i buoni apostoli. 4. Pietro per l’ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. 5. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. 6. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell’oriente e nell’occidente, ebbe la nobile fama della fede. 7. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell’occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza”.

Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne: sta parlando di Pietro e Paolo, contrastati dalle comunità giudaiche di Roma.

Paolo è giunto al confine dell’occidente: è Roma o la Spagna? Sappiamo che Paolo voleva andare in Spagna, ma ad oggi non  abbiamo prove documentali a parte questa citazione.

Questo scritto di Clemente avviene appena 30 anni dopo la morte di Paolo (avvenuta attorno al 67). A meno che per confine dell’occidente non si intenda Roma (come dicono alcuni). Però, per molti altri, è la Spagna.

Negli Atti si parla di questa intenzione di Paolo, ma a Luca (redattore di Atti) interessa solo che Paolo arrivi a Roma, centro dell’impero.

E’ interessante questo testo di Clemente perché presenta una riflessione sulla chiesa strutturata sul modello giudaico.

Qual è il risultato teologico? Che la Chiesa sostituisce l’ebraismo. Si fa strada la “teologia della sostituzione”. Ci si rende conto che alla base c’è la sacra Scrittura, l’humus del primo Testamento e poi quello del secondo. Ma i concetti di questi teologi di fine primo e inizio secondo secolo, soprattutto per ciò che riguarda la struttura e l’ordinamento giuridico-canonico, prevarranno sugli aspetti neotestamentari.

Con Ignazio e Clemente dobbiamo fare i conti prima o poi, in quanto hanno condizionato fortemente l’assetto della Chiesa successiva.

 

 

Clemente Romano e il primato petrino secondo la tradizione
Siamo sempre in epoca sub-apostolica e riprendiamo il discorso con Clemente Romano. La sua prima lettera ai cristiani di Corinto (come quelle di Ignazio) ha avuto un ruolo fondamentale all’interno non solo delle comunità cristiane delle origini: addirittura è risultata prevalente rispetto ad alcuni passi e chiave di lettura dei vangeli.

Questa prima lettera di Clemente, per alcune Chiese (soprattutto quella egiziana), era e lo è ancor oggi, considerata un testo canonico.

Si tratta quindi di un documento molto importante nella storia del cristianesimo.

Rifacciamoci ad un’udienza generale, datata 7 marzo 2007, di Benedetto XVI con i vescovi del Piemonte e Valle d’Aosta in visita ad limina. Dopo il discorso di accoglienza egli parla di Clemente Romano.

Ratzinger è uno studioso dei padri della Chiesa e della storia del dogma. Cosa dice su Clemente? “San Clemente, Vescovo di Roma negli ultimi anni del primo secolo, è il terzo successore di Pietro, dopo Lino e Anacleto. Riguardo alla sua vita, la testimonianza più importante è quella di sant’Ireneo, Vescovo di Lione fino al 202. Egli attesta che Clemente «aveva visto gli Apostoli», «si era incontrato con loro», e «aveva ancora nelle orecchie la loro predicazione, e davanti agli occhi la loro tradizione» (Contro le eresie 3,3,3)”. Ecco l’importanza del contatto visivo e della relazione. E’ questo il periodo in cui nascono i libri “contro”, gli “adversus”.  “Testimonianze tardive, fra il quarto e il sesto secolo, attribuiscono a Clemente il titolo di martire. L’autorità e il prestigio di questo Vescovo di Roma erano tali, che a lui furono attribuiti diversi scritti, ma l’unica sua opera sicura è la Lettera ai Corinti.”

In realtà ne ha scritto due, ma la seconda è meno importante.

“Eusebio di Cesarea, il grande «archivista» delle origini cristiane, la presenta in questi termini: «E’ tramandata una lettera di Clemente riconosciuta autentica, grande e mirabile. Fu scritta da lui, da parte della Chiesa di Roma, alla Chiesa di Corinto … Sappiamo che da molto tempo, e ancora ai nostri giorni, essa è letta pubblicamente durante la riunione dei fedeli» (Storia Eccl. 3,16).”  E’ letta quindi a messa, come si legge qualsiasi altra lettura ecclesiastica. Eusebio, ricordiamolo, era lo storiografo di Costantino.

“A questa lettera era attribuito un carattere quasi canonico. All’inizio di questo testo – scritto in greco – Clemente si rammarica che «le improvvise avversità, capitate una dopo l’altra» (1,1), gli abbiano impedito un intervento più tempestivo. Queste «avversità» sono da identificarsi con la persecuzione di Domiziano: perciò la data di composizione della lettera deve risalire a un tempo immediatamente successivo alla morte dell’imperatore e alla fine della persecuzione, vale a dire subito dopo il 96.

L’intervento di Clemente era sollecitato dai gravi problemi in cui versava la Chiesa di Corinto: i presbiteri della comunità, infatti, erano stati deposti da alcuni giovani contestatori.”

Una volta si diceva che al massimo saranno stati due, in realtà però non lo sappiamo. La fonte di questa contestazione non la conosciamo.

“La penosa vicenda è ricordata, ancora una volta, da sant’Ireneo, che scrive: «Sotto Clemente, essendo sorto un contrasto non piccolo tra i fratelli di Corinto, la Chiesa di Roma inviò ai Corinti una lettera importantissima per riconciliarli nella pace, rinnovare la loro fede e annunciare la tradizione, che da poco tempo essa aveva ricevuto dagli Apostoli»” (Contro le eresie 3,3,3).

E’ Paolo il fondatore della Chiesa di Corinto, nel senso che Paolo trova già dei cristiani ma è lui che dà struttura a questa comunità; infatti essa sarà sempre la figlia prediletta di Paolo, rispetto alle altre comunità. Ma questa lettera da chi è stata veramente scritta? Da Clemente, di proprio pugno, oppure dalla Chiesa di Roma con la firma di Clemente?

“Potremmo quindi dire che questa lettera costituisce un primo esercizio del Primato romano dopo la morte di san Pietro.” Tutto sommato Ratzinger non fa che riprendere l’interpretazione tradizionale di tale lettera: essa è stata, ed è ancor oggi, fortemente utilizzata per la giustificazione del primato del vescovo di Roma.

Assomiglia, ma non è identico, a ciò che diceva Ignazio nella sua lettera ai Romani, quando affermava che la comunità di Roma era quella che presiedeva nella carità.

Secondo l’interpretazione tradizionale del testo di Clemente, la Chiesa di Roma può arrogarsi il diritto (oppure sono gli altri che glielo danno) di intervenire sulle altre Chiese. In sintesi però: è Clemente che scrive di propria iniziativa oppure qualcuno ha chiesto a Roma di intervenire? E’ lo stesso problema che avrà Agostino 300 anni più tardi, quando non riuscendo nelle sue argomentazioni a contrastare efficacemente Pelagio e Donato, sposta tutto sul piano dell’autorità e chiede a Roma l’intervento su questa disputa. Roma si pronuncerà in quel caso e qui abbiamo la famosa frase di Agostino “Roma ha parlato la causa è chiusa” (=Roma locuta, causa finita est).

La questione è questa: l’affermazione di Agostino è sempre stata letta tradizionalmente dalla Chiesa latina come l’affermazione di un primato del vescovo di Roma; se Roma parla, essa mette una parola definitiva su qualsiasi disputa. Ma il problema è un altro: veramente Agostino aveva in testa questo?

Con molta probabilità, no. E allora? Agostino, davanti a quel problema che non trovava soluzione a livello argomentativo, si appella all’autorità del vescovo di Roma per quella specifica e determinata questione e non per tutte le problematiche possibili. Quindi la sua frase “Roma parla e la causa è finita” è soltanto in relazione a quella causa specifica e non per tutte le cause che si sarebbero verificate. Roma non ha il potere di mettere la parola fine su ogni possibile problema, ma tradizionalmente viene affidato il “questo compito” all’autorità assoluta del vescovo di Roma, con Clemente prima e con Agostino poi.

Qui siamo all’interno del magistero. Il termine magistero è un termine che nel primo millennio non esiste. Il magistero del Papa lo troviamo solo nel secondo millennio e non nel primo. E’ certamente lungi dalla testa di Agostino ragionare in questi termini. Probabilmente è ciò che accade in questo testo, dove a Clemente vengono attribuite considerazioni teologiche non proprio sue. Clemente non pensava certamente di essere al centro del mondo.

 

 

Come Clemente affronta i conflitti nella comunità di Corinto
Questa lettera di Clemente è indirizzata all’intera Chiesa di Corinto. Deve essere letta a tutta la comunità e non solo a coloro che hanno dato origine alla situazione di ribellione. Una lettera scritta dalla comunità romana, ma che porta il nome di Clemente, suo vescovo. In questo discorso di papa Ratzinger c’è una lettura  tradizionale del testo in esame.

“L’occasione immediata della lettera schiude al Vescovo di Roma la possibilità di un ampio intervento sull’identità della Chiesa e sulla sua missione. Se a Corinto ci sono stati degli abusi, osserva Clemente, il motivo va ricercato nell’affievolimento della carità e di altre virtù cristiane indispensabili.” Come dire: l’entusiasmo della prima ora è andato perduto ed è subentrata la routine, la quotidianità, la normalità.

In certi testi del nuovo testamento, dopo la resurrezione di Cristo, si aspetta da un momento all’altro il suo ritorno; quando poi i tempi si allungano, vivere quotidianamente questa attesa per 70 anni (dalla morte di Gesù), la scelta cristiana a un certo punto si affievolisce.

Comunque questa è ancora la Chiesa dei martiri, e ciò vale per altri duecento anni.

“Per questo egli richiama i fedeli all’umiltà e all’amore fraterno, due virtù veramente costitutive dell’essere nella Chiesa: «Siamo una porzione santa», ammonisce, «compiamo dunque tutto quello che la santità esige» (30,1). In particolare, il Vescovo di Roma ricorda che il Signore stesso «ha stabilito dove e da chi vuole che i servizi liturgici siano compiuti”. Ciò vuol dire che il problema di Corinto è questo. “Affinché ogni cosa, fatta santamente e con il suo beneplacito, riesca bene accetta alla sua volontà … Al sommo sacerdote infatti sono state affidate funzioni liturgiche a lui proprie, ai sacerdoti è stato preordinato il posto loro proprio, ai leviti spettano dei servizi propri. L’uomo laico è legato agli ordinamenti laici» (40,1-5: si noti che qui, in questa lettera della fine del I secolo, per la prima volta nella letteratura cristiana, compare il termine greco laikós, che significa «membro del laós», cioè «del popolo di Dio»)”. Però nella lettera si parla di uomo laico (=anthropos laikos).

“In questo modo, riferendosi alla liturgia dell’antico Israele, Clemente svela il suo ideale di Chiesa. Essa è radunata dall’«unico Spirito di grazia effuso su di noi», che spira nelle diverse membra del Corpo di Cristo, nel quale tutti, uniti senza alcuna separazione, sono «membra gli uni degli altri» (46,6-7).” Questo ci ricorda Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi. Questo significa che la Chiesa di Roma conosce San Paolo: conosce anche l’opera paolina nel suo insieme, infatti il corpus di quest’opera viene risistemato proprio alla fine del secolo ed è contemporaneo quindi alla lettera di Clemente. Probabilmente conosce anche stralci della Lettera agli Ebrei.

Solo un piccolo problema: i Romani, conoscono i Vangeli? Probabilmente Marco sì, però Matteo, Luca e Giovanni probabilmente no. Quando Clemente scrive probabilmente Giovanni deve ancora redigere il Vangelo, mentre Matteo e Luca stanno approntando le redazioni definitive; Clemente quindi forse conosce qualche stralcio del Vangelo di Marco e parte delle lettere paoline.

Ancora il papa: “La netta distinzione tra il «laico» e la gerarchia non significa per nulla una contrapposizione, ma soltanto questa connessione organica di un corpo, di un organismo, con le diverse funzioni”. Ratzinger quindi interpreta questo numero 40 della lettera come già una struttura data. Tradizionalmente è stata interpretata così. Ma è proprio questo quello che vuole dire Clemente?

“La Chiesa infatti non è luogo di confusione e di anarchia, dove uno può fare quello che vuole in ogni momento”. La Chiesa dovrebbe, in realtà, essere un luogo di con-fusione, che significa fusione insieme nell’unico Spirito e verso l’unico Vangelo: qui il termine confusione viene usato come contrapposizione.

“Ciascuno in questo organismo, con una struttura articolata, esercita il suo ministero secondo la vocazione ricevuta.” Era proprio questa l’idea di Gesù? Voleva proprio creare un’altra struttura? Non bastavano quelle che c’erano? Infatti cosa c’era di più strutturato dell’ebraismo o della religione pagana? Dal punto di vista liturgico, il tempio di Gerusalemme non aveva rivali. Si sentiva il bisogno di presentare un’altra struttura religiosa?

“Riguardo ai capi delle comunità… ” Già si parla di capi della comunità! Probabilmente il problema di fondo era proprio questo. Anche Paolo nella sua lettera lamenta questa situazione, questo problema di leadership: “Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: « Io sono di Paolo », « Io invece sono di Apollo », « E io di Cefa », « E io di Cristo! ». Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati? Ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio” (1Cor. 1,12-14).

Infatti essere battezzato da Apollo significava seguire la scuola di Apollo e il suo modo di vedere, e così per gli altri. Probabilmente a Corinto c’era una ricchezza ed una pluralità sia ministeriale che teologica. E’ chiaro che la diversità arricchisce. Probabilmente qui il gruppo non era molto numeroso e le persone erano sempre le stesse. Corinto era una grande città, ma la comunità cristiana su quante persone poteva in realtà contare?

 

 

La struttura ecclesiale in Clemente
Per Ratzinger, Clemente nella sua lettera esplicita la dottrina della successione apostolica. Sta parlando proprio di una dottrina? Facciamo attenzione ai termini che sta usando papa Ratzinger: parlare di dottrina significa che già tutto è stato stabilito.

“Riguardo ai capi delle comunità, Clemente esplicita chiaramente la dottrina della successione apostolica. Le norme che la regolano derivano in ultima analisi da Dio stesso. Il Padre ha inviato Gesù Cristo, il quale a sua volta ha mandato gli Apostoli. Essi poi hanno mandato i primi capi delle comunità, e hanno stabilito che ad essi succedessero altri uomini degni. Tutto dunque procede «ordinatamente dalla volontà di Dio» (42).” Questa ovviamente è una lettura successiva del testo di Clemente. Ma l’autore intendeva proprio questo? Chi sono i vescovi? I successori degli apostoli! Se non fosse così non ci sarebbe motivo della loro presenza. Allora troviamo già agli inizi il tema della successione apostolica: il Papa sarà il successore di Pietro e i vescovi i successori degli apostoli.

Ma con Paolo come la mettiamo? Perché uno dei criteri fondamentali per essere apostolo era far parte del gruppo dei seguaci di Gesù fin dall’inizio. Infatti quando devono scegliere chi dovrà prendere il posto di Giuda, qual è il criterio fondamentale di preferenza (eliminando così Paolo)? Agli inizi di Atti leggiamo: “Bisogna dunque che tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto in cielo, uno divenga, insieme a noi, testimone della sua risurrezione ».” (At. 1,21-22).

Come dire: se qualcuno deve prendere il posto di Giuda, questo qualcuno deve essere stato con noi fin dalla prima ora. E’ chiaro che Paolo a questo punto viene tagliato fuori, perché lui non c’era, non ha nemmeno visto Gesù ed è per questo che insisterà sulla sua esperienza. “Ha parlato a me, l’ho visto nella via verso Damasco”: “raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato” (At. 9,27).

Ecco allora la dinamica della successione: si parte da coloro che l’hanno visto e poi agli altri, fino ai giorni nostri. Così viene costruita la struttura.

“Con queste parole, con queste frasi, san Clemente sottolinea che la Chiesa ha una struttura sacramentale e non una struttura politica.” Ovviamente sta facendo dire a Clemente molto di più di quello che era nelle sue intenzioni. E’ vero che la sua è una riflessione sulla Chiesa, ma è una lettera che nasce da motivazioni ben precise e particolari. Cerchiamo anche di stare all’interno del valore di una lettera: questo infatti è lo stesso problema di Paolo. Il valore di una lettera è il valore di una lettera.

“L’agire di Dio che viene incontro a noi nella liturgia precede le nostre decisioni e le nostre idee. La Chiesa è soprattutto dono di Dio e non creatura nostra, e perciò questa struttura sacramentale non garantisce solo il comune ordinamento, ma anche questa precedenza del dono di Dio, del quale abbiamo tutti bisogno”. “Particolare rilievo assume l’invocazione per i governanti. Dopo i testi del Nuovo Testamento, essa rappresenta la più antica preghiera per le istituzioni politiche.” Qui troviamo una scopiazzatura dalla Lettera ai Romani, segno che l’autore della lettera di Clemente conosce tra le lettere di Paolo anche quella che ha scritto alla comunità di Roma. Anche in quella lettera Paolo raccomanda sottomissione alle autorità civili: “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna.” (Rm. 13,1-2).

C’è il ricordo dell’imperatore Claudio che espelle da Roma gli ebrei, e ovviamente anche i giudeocristiani (ebrei pure loro). Svetonio dice che Claudio “espulse da Roma i Giudei che per istigazione di Cresto erano continua causa di disordine”.

C’era questa forte contrapposizione tra cristiani ed ebrei sul ruolo del messianismo giudaico e sul ruolo di Gesù Messia, accettato da alcuni ebrei e rifiutato da altri. Evitate i contrasti altrimenti date all’autorità la possibilità di cacciarvi  e rispettate l’autorità perché viene da Dio.

“Così, all’indomani della persecuzione, i cristiani, ben sapendo che sarebbero continuate le persecuzioni, non cessano di pregare per quelle stesse autorità che li avevano condannati ingiustamente. Il motivo è anzitutto di ordine cristologico: bisogna pregare per i persecutori, come fece Gesù sulla croce. Ma questa preghiera contiene anche un insegnamento che guida, lungo i secoli, l’atteggiamento dei cristiani dinanzi alla politica e allo Stato. Pregando per le autorità, Clemente riconosce la legittimità delle istituzioni politiche nell’ordine stabilito da Dio”. Questo è quello che troviamo anche nella lettera ai Romani di Paolo: se c’è un ordine civile politico ci dovrà essere un ordine anche all’interno della Chiesa. “Nello stesso tempo, egli manifesta la preoccupazione che le autorità siano docili a Dio e «esercitino il potere, che Dio ha dato loro, nella pace e nella mansuetudine con pietà» (61,2). Cesare non è tutto. Emerge un’altra sovranità, la cui origine ed essenza non sono di questo mondo, ma «di lassù»: è quella della Verità, che vanta anche nei confronti dello Stato il diritto di essere ascoltata.” Si nota subito che le cose sono un po’ diverse nei Vangeli.

 

 

Clemente manifesta ai corinzi un rapporto ideale tra comunità
E’ opportuno prendere in esame i motivi di questa lettera: scoppia una crisi all’interno della comunità di Corinto e alcuni presbiteri (=anziani) che presiedevano questa comunità, vengono cacciati dal ministero, da parte di un gruppo di giovani. Per essere in contrapposizione a degli anziani è probabile che sia avvenuta una spaccatura. Ma c’è un problema: cosa hanno fatto ? Noi, ad oggi, non conosciamo le motivazioni precise. Nei testi, ed anche nella risposta di Clemente, non si dice cosa abbiano combinato, non emergono abusi del loro potere, non hanno fatto alcuna trasgressione. Ma allora perché sono stati cacciati? Forse sotto c’era l’invidia, come dice la lettera di Clemente; forse perché gli altri erano stufi e volevano prenderne il posto; forse intendevano un altro modo di evangelizzazione o volevano un’impostazione diversa nella catechesi?

Come fa la comunità di Roma a venire a conoscenza di quanto avvenuto a Corinto? Come intervenire?

Si presume che alcuni abbiano lasciato Corinto e si siano spostati verso Roma portando a conoscenza di questa comunità i fatti di Corinto. In seguito, quelli che sono stati cacciati dal proprio posto o altri, hanno chiesto a Roma di intervenire. Quindi la comunità di Roma non interviene di propria iniziativa, ma sollecitata da quella parte che è stata allontanata. Infatti la comunità di Corinto ha accettato questa lettera, ne ha tenuto conto. Quindi Roma non prende altre iniziative.

La comunità di Roma si schiera, non dalla parte di chi ha defenestrato gli altri, ma dalla parte di coloro che sono stati destituiti: anche perché giustamente la comunità romana non comprendeva i motivi di questa lite. Perché rompere un ordine del genere senza una motivazione grave?

Quindi la lettera di Clemente, vescovo di Roma, approfitta di questa situazione che si è verificata a Corinto per dare delle indicazioni, tenendo conto della sua tradizione (in quanto fondata da Paolo). Risponde al conflitto di Corinto, che è un conflitto locale, ma poi ne approfitta (come afferma anche Ratzinger) per disegnare un quadro ecclesiologico-teologico-morale più ampio: come dire, facciamo venir fuori quella che potrebbe essere la nostra idea di Chiesa e quindi anche come vivere il Vangelo in questo tempo.

 

 

La comunità di Roma recupera l’Antico Testamento
Per l’autore della Lettera agli Ebrei (di cui troviamo stralci in alcune lettere di Paolo) l’alleanza sinaitica, cioè l’antica alleanza tra Dio e Mosè, e l’alleanza di Cristo rappresentano un solo grande piano di salvezza. Nell’antico testamento Gesù è già presente, ma è nascosto e velato. Il nuovo testamento lo svela. Per cui lì abbiamo l’antico Israele, mentre qui abbiamo la Chiesa: essa diventa il vero popolo di Dio, con l’accettazione di Gesù. L’antico Israele e il nuovo Israele: è la terminologia che noi abbiamo usato per secoli. La Bibbia, tutta la Bibbia, compreso quindi l’antico testamento, appartiene alla Chiesa a tutti gli effetti. Tutta la Bibbia perciò è cristiana. E’ un problema questo molto importante, ma anche molto delicato.

Inizia così un’interpretazione tipologica dell’antico testamento.

Questo ci permette di capire meglio alcuni passi di questa prima lettera di Clemente alla comunità di Corinto. Il numero 16 parla dell’umiltà di Cristo. Questa è l’interpretazione che dà la Chiesa di Roma sulla morte e pasqua di Gesù: è la cristologia del cosiddetto “servo di Dio”, il servo sofferente preso in prestito da Isaia.

“Cristo è degli umili, non di chi si eleva sul suo gregge.” “Egli è come un fanciullo, come una radice nella terra assetata; non ha apparenza né gloria. Noi lo vedemmo, non aveva una bella apparenza, ma l’aspetto suo era spregevole, lontano dall’aspetto degli uomini”. Qui sta citando Isaia 53. “Come l’uomo che è nel dolore e nel travaglio e che sa sopportare l’afflizione perché nasconde il suo volto, non fu onorato e tenuto in considerazione. Egli porta i nostri peccati e soffre per noi, e noi l’abbiamo considerato punito, castigato da Dio e umiliato. Egli fu ferito per i nostri peccati e tribolato per le nostre malvagità.” Questo capitolo 16 di Clemente è la interpretazione cristologica della Pasqua di Gesù, e lo fa con Isaia 53. Ma come fa a interpretare in modo autentico la morte di Gesù? Se a Gesù abbiamo dato adesione, se in Gesù abbiamo sul serio visto rifulgere il volto di Dio, perché Dio l’ha lasciato sulla croce?

Il dramma delle comunità cristiane delle origini è proprio questo: perché Dio ha non ha tolto dalla croce il proprio Figlio? Come fa a partire l’annuncio di un messaggio di salvezza centrato Vangelo quando all’origine c’è il fallimento della croce? Chi darà adesione a un dramma di fallimento? Il rischio è che tutti quanti se ne vadano (come i due di Emmaus che delusi lasciano Gerusalemme e il gruppo). Questo è ciò che è accaduto.

E questo sarà anche il pezzo forte della predicazione di Paolo: il Cristo crocifisso.

Le comunità delle origini utilizzano i testi a disposizione e cioè la Bibbia e soprattutto il capitolo 53 di Isaia. Ecco perché Paolo parlerà ogni tanto del peccato, dicendo che Gesù è morto per i nostri peccati: è perché usa Isaia per spiegare la croce, il fallimento, altrimenti tutto diventa incomprensibile.

Il problema è che la morte in croce non è una morte qualunque, ma teologica. E’ la morte di colui che è rigettato/rifiutato da Dio. L’uomo che muore in quel modo, muore nel segno dell’abbandono da parte di Dio. Dall’antico testamento sappiamo “che è maledetto colui che muore appeso al legno” (Deuteronomio).

Infatti è il tipo di morte che viene decisa per Gesù. Secondo il Vangelo di Giovanni, quando i capi portano Gesù da Pilato, gli dicono che non lo hanno consegnato perché lo giudichi, ma perché non è permesso a loro metterlo a morte. E’ già stato giudicato e quindi Pilato deve soltanto eseguire la loro sentenza. Ma non è vero che agli Ebrei non è permesso mettere a morte nessuno: bastava lapidarlo. Ma non era questa la loro volontà. In realtà non volevano tanto una semplice eliminazione fisica, ma una morte teologica: infatti la morte in croce diventa per Gesù morte teologica, in quanto morte di un maledetto, di un falsificatore di Dio.

E’ già difficile che il messaggio di Gesù possa partire, con la croce, in un ambiente pagano, ma certamente in un ambiente giudaico non parte. E allora bisogna comprendere il senso profondo di questa morte, che è possibile soltanto andando ai testi biblici. Ecco che il testo scelto è il capitolo 53 di Isaia, dove troviamo la teologia del servo sofferente. Non a caso è proprio il primo titolo cristologico che le comunità cristiane danno di Gesù: il primo titolo non è quello di Figlio, non è quello di Santo e nemmeno di Giusto. Il primo è proprio quello di servo, del servo che non muore per se stesso ma per amore per gli altri, e quindi dà alla propria morte un valore di redenzione per tutti. Dio in questo modo non lo può abbandonare.

Infatti qui Clemente, sempre al numero 16 della sua lettera, dice che “Egli portò i peccati di molti e fu tradito per i loro peccati” e qui termina la citazione di Isaia 53.

“E di nuovo egli dice: “Io sono un verme e non un uomo, obbrobrio degli uomini e disprezzo del popolo. Tutti quelli che mi vedono mi scherniscono, parlano tra le labbra e scuotono il capo: ha sperato nel Signore, Lui lo liberi, lo salvi se lo vuole”.

E questo è il salmo 22 che inizia proprio con l’affermazione “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sl. 22,2), ma che però termina con la salvezza: inizia con l’espressione dell’abbandono ma termina con l’intervento di Dio come redentore.

 

 

Clemente ricorda ai Corinzi le loro radici teologiche
Come mai Clemente vuole ricordare tutto questo ai cristiani di Corinto? Perché questa è la stessa teologia usata da Paolo, quando affermava “noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor. 1,23). Clemente dice a questi cristiani: andiamo alle fonti che voi avete ricevuto da Paolo. Qui si vede come la prima lettera di Clemente ai Corinzi si fonda sulla prima lettera di Paolo. Egli sta invitando i cristiani di Corinto ad andare alle proprie radici, e cioè a quando sono nati.

La prima lettera di Paolo ai Corinzi è databile attorno al 54/56, mentre con Clemente siamo alla fine del I secolo (attorno al 95); quindi sono già trascorsi quarant’anni; a Corinto siamo già alla seconda generazione e Clemente sta parlando ai figli e ai nipoti di coloro che avevano conosciuto Paolo: a loro parla degli umili e non di coloro che si elevano sul gregge; evidentemente nella comunità c’era già qualcuno che vedeva la possibilità di ottenere un ruolo di comando.

E’ un po’ quello che ha recentemente detto papa Francesco qualche giorno fa quando affermava che c’è gente che serve la Chiesa, ma c’è anche gente che si serve della Chiesa per la propria carriera e interessi.

Il punto 16 della lettera di Clemente finisce dicendo: “Vedete, carissimi, quale modello ci è dato! Se il Signore si è umiliato a tal punto, che cosa faremo noi che, per mezzo suo, siamo venuti sotto il giogo della sua grazia?”

Qui è molto chiaro quello che viene sostenuto: se vi muovete con il criterio di servirvi della comunità di Corinto siete fuori gioco, dovete invece rientrare nella logica di Cristo.

Nel punto 21 si legge “Veneriamo il Signore Gesù Cristo il cui sangue fu dato per noi, rispettiamo quelli che ci guidano, onoriamo gli anziani, educhiamo i giovani al timore di Dio, indirizziamo al bene le nostre donne.”

Invita al rispetto le guide della comunità e i presbiteri (=anziani). Per quanto riguarda le donne, si può dire che quelle di Corinto erano particolarmente effervescenti, e questo era risaputo in tutta l’antichità: le donne di Corinto somigliavano a quelle di Sibari (Magna Grecia, oggi Calabria ionica) ed infatti la lettera prosegue dicendo “Esse mostrino l’indimenticabile costume della purezza, manifestino la loro vera volontà di pace, rendano palese la moderazione della loro lingua mediante il silenzio ed esercitino la carità non secondo le passioni, ma santamente senza parzialità per tutti quelli che temono Dio”.

Evidentemente a Corinto stava succedendo qualcosa di particolare, di certo c’erano problemi di emancipazione, anche se non conosciamo che cosa stesse capitando realmente. Ma qualcosa si capisce.

“I nostri figli partecipino dell’educazione in Cristo; imparino che cosa possano l’umiltà e l’amore presso il Signore e come sia bello e grande il timore di Lui che salva tutti quelli che vivono santamente in Lui con mente pura. Egli è scrutatore dei pensieri e dei sentimenti. Il suo spirito è in noi, e quando vuole lo toglie”.

Qui evidentemente si sta parlando anche di catechesi dei ragazzi e bambini.

 

 

Clemente ripropone la “teologia del corpo”
Al punto 37: “Militiamo, fratelli, con ogni nostra prontezza sotto i suoi ordini irreprensibili. Consideriamo i soldati sotto gli ufficiali, con quale ordine, disciplina e sottomissione eseguono i comandi”. Gli ordini impartiti sono quelli di Cristo e i cristiani i suoi soldati.  “Non tutti sono proconsoli, né capi di mille, cento, né di cinquanta e così di seguito, ma ciascuno nel proprio ordine esegue i comandi dei re o dei governanti. I grandi non possono stare senza i piccoli e i piccoli senza i grandi; in tutte le cose c’è qualche collegamento e in questo la utilità. Prendiamo il nostro corpo. La testa non può stare senza i piedi, né i piedi senza la testa. Le più piccole parti del nostro corpo sono necessarie ed utili a tutto il corpo; ma tutte convivono ed hanno una sola subordinazione per salvare tutto il corpo”. Questo non è altro che la ripresa del capitolo 12 della prima lettera ai Corinzi di Paolo.

Questa interpretazione del testo di Paolo da parte della comunità di Roma porterà avanti la “teologia del corpo di Cristo”. Ma questa teologia è funzionale alla struttura “gerarchica” della Chiesa coma appare anche nella enciclica “Mystici Corporis Christi” di Pio XII (29 giugno 1943).

Quando è arrivato il concilio Vaticano secondo, all’interno della Lumen Gentium, si fa strada l’idea di quale sia la figura con cui noi possiamo immaginare la Chiesa. Qualcuno aveva proposto di usare l’idea del Corpo; qualcun altro affermò che questa figura è troppo strutturata verticisticamente, e poi non è presente nella Bibbia. Ecco allora la domanda: qual è la categoria di Chiesa più presente nella Bibbia? Quella di popolo di Dio. Ecco perché il secondo capitolo della Lumen Gentium si intitola proprio “Il popolo di Dio”.

All’interno di questo capitolo, al n. 6, vengono menzionate diverse immagini di Chiesa tra cui anche quella di corpo di Cristo, ma la categoria scelta è quella di popolo di Dio che ha un profondo radicamento biblico.

 

 

L’ordine proposto è quello del Tempio
Al numero 40 della lettera di Clemente troviamo: “I tempi e l’ordine stabiliti. Sono per noi evidenti queste cose e siamo scesi nelle profondità della conoscenza divina. Dobbiamo fare con ordine tutto quello che il Signore ci comanda di compiere nei tempi fissati. Egli ci prescrisse di fare le offerte e le liturgie, e non a caso o senz’ordine, ma in circostanze ed ore stabilite. Egli stesso con la sua sovrana volontà determina dove e da chi vuole siano compiute, perché ogni cosa fatta santamente con la sua santa approvazione sia gradita alla sua volontà. Coloro che fanno le loro offerte nei tempi fissati sono graditi e amati. Seguono le leggi del Signore e non errano. Al gran sacerdote sono conferiti particolari uffici liturgici, ai sacerdoti è stato assegnato un incarico specifico e ai leviti incombono propri servizi. Il laico (=laikos anthropos e cioè uomo laico) è legato ai precetti laici”.

Questa in realtà è l’immagine del Tempio di Gerusalemme. Per convincere la comunità di Corinto che l’ordine è necessario e che si tratta di un ordine voluto da Dio (anche se rifiutato da alcuni giovani ribelli), Clemente fa riferimento al regolamento del Tempio di Gerusalemme, ma in questo modo sostiene che Dio è il Dio dei regolamenti. Per la prima volta compare il termine laico, ma legato all’uomo. Facciamo però attenzione ai termini: troviamo il gran sacerdote e laico al singolare, sacerdoti e leviti al plurale; quindi in questo caso non siamo davanti ad una contrapposizione tra gruppi (come ha sostenuto Ratzinger), perché in tal caso Clemente avrebbe parlato di laici al plurale. In questo parallelo sacerdoti e leviti sono i cristiani, perché l’essere cristiano dà la condizione di poter scendere nelle profondità della conoscenza divina. In questo caso l’uomo laico è colui che è ancorato al vecchio; qui potrebbe essere il giudeo cristiano che è ancora legato all’ebraismo della sua provenienza e che ancora confida nella salvezza tramite l’antica alleanza.

Questa di Clemente è un’interpretazione molto interessante, perché supera il discorso delle contrapposizioni. Quindi in questo caso la differenza è tra chi ha compreso cosa significhi essere cristiano e chi non lo ha ancora pienamente compreso (come quelli di Corinto).

Il contenuto del testo vuole con molta probabilità porre fine alla situazione complessa e confusa di Corinto, cioè vuole riportare alla normalità la comunità di Corinto e quindi richiama in causa la struttura teologica del Tempio; tutto ciò anche per dare un fondamento di ordine alla struttura cultuale della Chiesa che sta nascendo.

Ecco che si fa un discorso analogico con il tempio di Gerusalemme In ogni caso inizia anche il problema della differenza tra coloro che portano le offerte, leviti e sacerdoti, e il laico.

 

 

Per la comunità di Roma la successione apostolica è data da Dio
Al punto 42 si dice: “Gli apostoli predicarono il Vangelo da parte del Signore Gesù Cristo che fu mandato da Dio. Cristo fu inviato da Dio e gli apostoli da Cristo. Ambedue le cose ordinatamente secondo la volontà di Dio. Ricevuto il mandato e pieni di certezza nella risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo e fiduciosi nella parola di Dio con l’assicurazione dello Spirito Santo, andarono ad annunziare che il regno di Dio stava per venire. Predicavano per le campagne e le città e costituivano le primizie del loro lavoro apostolico, provandole nello spirito, nei vescovi e nei diaconi dei futuri fedeli. E questo non era nuovo; da molto tempo si era scritto intorno ai vescovi e ai diaconi. Così, infatti, dice la Scrittura: “Stabilirono i loro vescovi nella giustizia e i loro diaconi nella fede”. Ecco un tentativo di formulazione della struttura gerarchica in chiave di successione. Dio, il Padre, manda Gesù; il Figlio, a sua volta, manda gli apostoli. Cose simili a proposito del mandato/invio le troviamo anche nel Vangelo di Giovanni, che però verrà redatto dopo, al capitolo 17 (la preghiera di Gesù): “Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me;” (Gv. 17,18-20).

E nel capitolo 20, quando Gesù entra nel cenacolo a porte chiuse e dice ai discepoli: « Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi » (Gv. 20,21).

I discepoli cominciano ad andare nelle città e nelle campagne, e nascono i nuovi vescovi e i nuovi diaconi: questa è la prima successione nella Chiesa ed è la prima generazione nella successione degli apostoli. Costoro sono stati mandati direttamente da Gesù, loro vanno e ne stabiliscono altri; è quello che abbiamo trovato nel punto 42 della lettera di Clemente.

Al punto 44: “I nostri apostoli conoscevano da parte del Signore Gesù Cristo che ci sarebbe stata contesa sulla carica episcopale. Per questo motivo, prevedendo esattamente l’avvenire, istituirono quelli che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati. Quelli che furono stabiliti dagli Apostoli o dopo da altri illustri uomini con il consenso di tutta la Chiesa, che avevano servito rettamente il gregge di Cristo con umiltà, calma e gentilezza, e che hanno avuto testimonianza da tutti e per molto tempo, li riteniamo che non siano allontanati dal ministero”.

Come dire: questi sono i vescovi e diaconi costituiti da quelli che furono costituiti dagli apostoli; e cioè la seconda generazione di successione apostolica. Gli apostoli di Gesù costituiscono alcuni (siamo alla prima generazione), questi a loro volta degli altri (seconda generazione). Clemente sta dicendo che costoro, che stavano tranquillamente svolgendo il loro ufficio, sono stati ribaltati: quindi bisogna ristabilire lo status quo.

“Noi vediamo che avete rimosso alcuni, nonostante la loro ottima condotta, dal ministero esercitato senza reprensione e con onore”. Quindi i vescovi e i diaconi cacciati sono legittimi e devono essere totalmente reintegrati. Ecco quindi come funzionavano concretamente le cose: la comunità di Roma era venuta a conoscenza di tutto ciò, e non da coloro che avevano sobillato la comunità di Corinto ma da chi era stato destituito. La comunità di Roma, attraverso il suo vescovo Clemente, come risposta elabora una sua ecclesiologia fondata sulla successione. Ecco che Ratzinger, nel discorso citato, sostiene che fino ad oggi il meccanismo è sempre stato questo, senza interruzione.

 

9.           La “Lettera agli Ebrei” propone un modo nuovo di vivere la fede
La Lettera agli Ebrei: un testo “sacerdotale”?
Abbiamo visto che Clemente, vescovo di Roma dal 92 al 97 d.C., quando scrive a nome della comunità romana la prima Lettera alla comunità di Corinto, è a conoscenza delle lettere di Paolo e della Lettera agli Ebrei. Quest’ultima non è un testo semplice, ma complesso; difficile quindi definire una chiave di lettura e una linea interpretativa.

La Lettera agli Ebrei potrebbe essere il risultato di due grandi omelie, di cui non si conosce l’autore. Probabilmente l’ambiente di redazione definitiva potrebbe essere l’ambiente paolino, lo stesso ambiente che poi ha dato origine a quelle lettere che un tempo erano attribuite a Paolo, ma che non sono di Paolo in realtà (Efesini, Colossesi, ecc.). Una volta si diceva che anche questa lettera agli Ebrei fosse di Paolo, però noi sappiamo che non è assolutamente vero. Certamente riceve la struttura definitiva redazionale all’interno dei circoli paolini.

Secondo alcuni studiosi, con tutta probabilità, le due omelie o sono fatte dallo stesso autore oppure da due autori diversi ed appartengono alla seconda metà degli anni 50.

Poi queste due omelie sono state riprese da un redattore finale, che le ha messe insieme forse qualche anno prima o a cavallo della distruzione del Tempio di Gerusalemme (70).

Le due omelie sono comunque molto antiche, e condividono molte problematiche con i testi paolini. La redazione finale di un altro autore potrebbe anche spiegare il motivo per cui c’è una diversità linguistica, stilistica e un diverso sviluppo cristologico molto interessante.

Ad esempio nella prima lettera ai Corinzi, noi troviamo una “cristologia dal basso” dove Paolo dice “Noi predichiamo Cristo crocifisso” (1Cor. 1,23), nel senso che si fonda sull’esperienza umana, cioè il Cristo nella carne, che ha patito e che è morto. Mentre in altre lettere troviamo una “cristologia dall’alto”, come quando leggiamo ancor oggi “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto” (Ef. 1,4). Questo percorso noi lo troviamo anche all’interno della Lettera agli Ebrei. Quindi essa ci riporta alle problematiche degli anni 50 delle comunità cristiane, e in un periodo vicino alla distruzione del secondo tempio (70). E’ un testo, quindi, molto complesso. Eppure è diventata una lettera particolare anche nella tradizione cattolica. Ad esempio la frase che spesso viene utilizzata in occasione di una ordinazione presbiterale (quasi sempre erroneamente detta sacerdotale) o di un anniversario è: “Tu sei sacerdote in eterno alla maniera di Melchisedek” (Eb. 7,17). Frase utilizzata per dare fondamento al sacerdozio.

Il Concilio Vaticano II ha usato spesso il termine presbitero, ma non ha eliminato del tutto quello di sacerdote. Comunque la Liturgia parla di ordinazione presbiterale.

La lettera agli ebrei è stata per certi versi ampiamente utilizzata come fondamento di una certa logica sacerdotale; si parla di un Cristo che ha ubbidito: “pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb. 5,8).

Ecco che l’obbedienza di Gesù al Padre diventa il prototipo dell’obbedienza del fedele al prete, del prete al vescovo, del vescovo al papa, e così via.

Tradizionalmente questo testo è stato usato proprio dalla tradizione cattolica in questa funzione, sacerdotale e obbedienziale. Però la lettera in realtà vuol dire tutt’altra cosa: se c’è un testo anti sacerdotale è proprio questo.

 

 

Un culto privo di sacrifici e di sacerdoti
Il testo è di fine anni 50 e dà subito l’idea di come si stava sviluppando il culto cristiano del primo secolo: è un culto che di fatto rifiuta sia i sacrifici che il sacerdozio. Il culto, se possiamo chiamarlo così, delle prime comunità cristiane ha già delle parole, delle azioni, delle forme di preghiera, dei segni e dei simboli: viene svolto nel nome di Gesù, con la certezza della sua presenza. Ma questi momenti di aggregazione, con la certezza di essere in comunione con il proprio Signore, non prevedono né sacrifici né forme di sacerdozio.

C’è una cena (=agape), una frazione del pane, un annuncio della Parola, ma soprattutto si rende evidente che quanto stanno celebrando è anche l’offerta della propria vita. Non è un sacrificio di qualche cosa di diverso, non vengono offerti animali, non viene mangiato l’agnello come nella Pasqua ebraica. In questa cena viene condivisa la propria vita con gli altri. Ricordiamoci la prima lettera ai Corinzi (cap. 11), quando Paolo si arrabbia nel momento dell’agape, dove ognuno mangia quello che ha portato, senza metterlo insieme: c’è quindi una privatizzazione della cena e di conseguenza si sta privatizzando anche la frazione del pane e quindi non è la comunità che celebra, ma tanti singoli che celebrano ognuno per conto suo. La fractio panis è adeguata solo se c’è la condivisione del pane: questa è la logica di Paolo. Alla condivisione del pane segue, ovviamente, la condivisione di sé.

Quindi la comunità cristiana degli inizi rinuncia al sacerdozio e ai sacrifici e mette in campo una cena, la propria esistenza e la frazione del pane, con la certezza della presenza di Gesù in mezzo alla comunità. Tutto viene vissuto come gruppo: i cristiani sanno che queste cose le devono fare insieme e non da soli, ma a casa propria con l’invito degli altri. Il gruppo fa comunità.

Un’altro aspetto significativo di questa lettera è che rigetta ogni forma di sacerdozio dopo Cristo. C’è qualcosa di importante specialmente nel capitolo 7 e cioè che non ci può essere assolutamente alcun sacerdozio dopo di Cristo, perché se c’è un sacerdozio significa che non è cambiato nulla, che si è rientrati nell’ottica dell’antica alleanza (il sacerdozio dinastico).

Nel capitolo 8 addirittura si dice che “Se Gesù fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote” (Eb. 8,4).

Questo viene detto in maniera molto semplice con degli esempi. Uno offre la propria vita e non offre un animale: questo è in netto contrasto con il sacerdote del tempio. Infatti il sommo sacerdote, che si incontrava con Dio una volta in un anno, portava al cospetto della divinità il sangue di un animale, non portava la propria vita. Gesù invece “con forte grida” porta la propria esistenza: “non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario” (Eb. 9,12).

 

 

Il difficile cammino per abbandonare i vecchi culti
Nella lettera agli Ebrei, si vede la cristologia dal basso con Gesù che porta la propria vita e la cristologia dall’alto nel santuario del cielo. E qui c’è la parola fine. In questo modo Gesù chiude l’esperienza sacerdotale: non se ne deve parlare più.

L’autore di questa lettera fa questo tipo di lavoro, perché sono molti i cristiani della prima era che hanno ancora una forte nostalgia del mondo cultuale-religioso ebraico.

Anche i cristiani, provenienti dal mondo pagano, hanno nostalgia dell’antico culto: i templi, i sacerdoti, i riti e le liturgie tipicamente pagane.

Certo che le parole sacre, i luoghi sacri, gli arredi sacri, danno sicurezza. Quando uno prega, secondo una certa modalità, spera che il dio di turno lo ascolti e lo esaudisca.

E’ chiaro che quando una persona che arriva da questi mondi, entra nelle comunità cristiane e si accorge che non c’è un tempio, non c’è una sacerdote, non ci sono riti, non ci sono parole o simboli codificati, non c’è nessuno che svolga il ruolo del mediatore tra il cielo e la terra, si domandi se questa fede abbia un fondamento oppure no. O almeno, di che fede si tratti.

Il sacerdote è un uomo, ma un uomo che, grazie a certe modalità, è incaricato da Dio a parlare in suo nome, e i fedeli in questo modo hanno la certezza di ascoltare qualcuno incaricato direttamente da Dio.

Se si entra in questa comunità cristiana dove sono tutti uguali, qualcuno si chiede: ma chi sta parlando a nome di Dio?

Che succede se siamo ad esempio 10 o 100 persone e tutte dicono cose diverse: chi bisogna seguire? Chi ha l’autorizzazione o l’autorità di parlare a nome di Dio? E questa autorizzazione chi gliel’ha data e in che modo?

Questi, che sono anche problemi di oggi, erano gli stessi avvertiti dalla comunità a cui si riferisce la lettera agli Ebrei. Succede che in alcuni comincia a farsi strada una certa nostalgia. Basta guardare anche oggi che succede nelle nostre comunità quando c’è da cambiare qualcosa: la forte resistenza del si è sempre fatto così (dove quel sempre non si sa mai quando ha avuto inizio).

Ecco allora la risposta di questa lettera: è una risposta a questo tipo di nostalgia. Si sostiene che quel tipo di alleanza che c’era in precedenza è finita.

La messianicità di Gesù sta a indicare che siamo nei tempi ultimi e definitivi (=escatologici).

Al mondo ebraico si risponde così: Gesù è quello che realizza l’attesa messianica. Ma questo si può dire anche ai pagani? A loro si dirà che questo Gesù, morto e risorto, è assiso alla destra del Padre: “cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio;” (Col. 3,1).

Quindi la lettera agli ebrei cerca di rispondere a questo duplice problema, che deriva appunto dalla duplice provenienza dei fedeli: “messianicità di Gesù” rivolta ai giudeocristiani e “assiso alla destra di Dio” ai pagani convertiti. Se Gesù è “assiso alla destra di Dio” significa che Gesù è in relazione con Dio. I successivi mosaici del Cristo pantocratore sono un effetto di questa cristologia dall’alto, pensata per sostenere quei cristiani che provenivano dal paganesimo.

Per la Lettera agli Ebrei solo Cristo è sacerdote, mentre il presbitero non è sacerdote in sé, però partecipa del sacerdozio di Cristo.

E’ una questione non risolta, ma ripresa dal Concilio Vaticano II. Si tratta del sacerdozio universale dei fedeli: ogni battezzato è sacerdote, re, profeta. Viene cioè recuperata la categoria biblica del popolo d’Israele, che troviamo nel libro dell’Esodo: un popolo di sacerdoti. Poi la prima lettera di Pietro riprende il sacerdozio dei fedeli, che si distingue dal sacerdozio del ministro: quello dei fedeli è in forza del battesimo, mentre quello ministeriale è in forza del ruolo di Cristo. Quello dei fedeli è battesimale, l’altro è un sacerdozio di tipo ministeriale in relazione a Cristo. Sono piccole sottigliezze per indicare la distinzione all’interno della comunità cristiana tra una figura e l’altra. Sono particolarità che prima o poi andranno a finire, se non per questioni teoretiche, moriranno per questioni pratiche.

La lettera agli Ebrei invece esclude anche questa possibilità. Tocca un tasto nevralgico quando afferma che con Gesù l’alleanza antica termina e con essa tutto ciò che vi apparteneva e il cuore di questa alleanza: il sacerdozio con il tempio, cioè il culto e il sacro.

 

 

Il rapporto con Dio, tra finzione e realtà vitale
La lettera agli ebrei ha capito che il sacerdozio ebraico era una copia e non la realtà.

Nei culti pagani, quando si accedeva al tempio, la luce entrava sulla statua della divinità; la statua veniva lavata e profumata; veniva posto del cibo (…) eppure tutti sapevano che la divinità non mangiava e non godeva della luce, perché era una statua. Quindi si era all’interno di un gioco, un gioco con la copia: i sacerdoti pensavano che quello che facevano lì venisse fatto nel cielo.

Il sommo sacerdote entrava una volta all’anno nel santo dei santi e che cosa portava? Non la sua vita, ma il sangue di un animale. E’ possibile che quando costui si incontra con Dio una volta all’anno, l’unico giorno in cui lo si può chiamare con il suo nome (YHWH), porta il sangue di un capro e con esso il suo peccato e quello del popolo.

Nella lettera ci si chiede: e Gesù cosa porta? La sua vita, la sua sofferenza, la sua gioia, la sua esistenza. Con Gesù quindi finisce l’epoca della copia, dell’ombra, dell’immagine. Con Gesù entra in gioco la vita vera. Il sommo sacerdote non portava se stesso, ma un animale ucciso, per espiare i peccati del popolo.

Gesù porta la sua vita e non quella di un sostituto: cambia il rito.

Il rito che nasce in ambiente cristiano è cena, frazione del pane come gesto di condivisione, con la certezza che Gesù è presente nella comunità. Non si sta scimmiottando qualcosa, ma si sta mangiando, non un pane che si offre alla divinità (che poi non mangia), ma un pane che si condivide, si spezza e si mangia. Qui è la realtà, mentre lì era la copia. Con Gesù avviene questo passaggio. Con che cosa giocavano i sacerdoti? Con i colori dei paramenti, con i ritmi, ecc. Ora non si gioca più, perché è in gioco la propria vita.

“Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza; proprio a causa di questa anche per se stesso deve offrire sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo. Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse: Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato. Come in un altro passo dice: Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedek. Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek.” (Eb. 5,1-10)

In questo passo troviamo degli aspetti fantastici: il sommo sacerdote gioca, Gesù vive; non dice che il sacrificio del sommo sacerdote a nome del popolo venga esaudito, ma che le richieste di Gesù sono esaudite per le sue forti grida e lacrime, cioè per la sua vita, le motivazioni della sua esistenza. Quindi ritornare al culto pagano o giudaico significa rendere vana questa realtà, per tornare a giocare con i tempi, gli spazi e le cose sacre. Tutti questi aspetti che servivano per il gioco di mediazione fra Dio e gli uomini, con Gesù non hanno più senso.

 

 

Gesù ultimo e definitivo sacerdote
Questi versi hanno parlato di un Aronne e di un Melchisedek. Chi è Aronne? O meglio, qual è il sacerdozio di Aronne?

Nel capitolo 8 si legge: “Se Gesù fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote, poiché vi sono quelli che offrono i doni secondo la legge. Questi però attendono a un servizio che è una copia e un’ombra delle realtà celesti” (Eb. 8,4-5).

Nel libro dell’Esodo si legge che Aronne è stato scelto da Dio; è della tribù di Levi e quindi abbiamo un sacerdozio dinastico, con una sua origine, e una sua fine. Con la distruzione del Tempio di Gerusalemme questo sacerdozio avrà una sua fine; una fine c’era già stata con la distruzione del tempio ad opera di Nabucodonosor II (587 a.C.), ma le tribù sacerdotali non erano scomparse. Con l’abbattimento del Tempio ad opera dei Romani (70 d.C.), il tempio non è più stato ricostruito. Si porranno certamente dei problemi se (dopo 2000 anni) lo si dovesse ricostruire: chi appartiene ancora alla tribù dei leviti?

L’autore della lettera agli Ebrei dice una cosa molto importante: quello era il sacerdozio di Aronne, ma qui Gesù è messo in relazione al sacerdozio di Melchisedek; siccome non si conosce l’origine di Melchisedek, allora neanche il sacerdozio di Gesù è un sacerdozio di cui si possa conoscere l’origine, se non fondandolo in Dio stesso. Ciò vuol dire che non c’è un sacerdozio dinastico. Quello di Aronne passava di padre in figlio, mentre quello dell’ordine di Melchisedek no: per cui morto lui è morto anche il suo sacerdozio.

Nel capitolo 7 si legge:”Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno.” (Eb. 7,3)

Ora nella comunità cristiana ci sono giudeo-cristiani che facevano parte della tribù sacerdotale e questa lettera cosa dice loro? Nel momento in cui avete accettato di seguire Gesù, il sacerdozio del vostro mondo di provenienza (che proviene da Aronne) non ha più senso perché sostituito da quello di Gesù che era dell’ordine di Melchisedek, per cui, morto lui è morto anche il suo sacerdozio. Quindi non potete esercitare questa attività presso la comunità cristiana. Qui si dice che il vero sacerdozio è la tua vita, la tua esistenza, quello di Aronne giocava con le ombre; quello di Melchisedek no, ma non sappiamo né quando è morto, né quando è nato, né chi fosse. Melchisedek infatti appartiene all’ordine dell’intervento di Dio nella storia.

Il sacerdozio è la vita. Il sacerdozio deve avere un duplice effetto: il sacerdote è preso dagli uomini a vantaggio degli uomini; quindi ha un’origine umana e il suo è un ruolo a favore dell’essere umano, un ruolo di mediazione, nel senso che deve piacere sia agli uomini che a Dio. Qui l’autore sta dicendo: tu, con la tua vita, nella pienezza della tua umanità, con tutta la tua umanità, stai vivendo questa esperienza di mediazione tra l’umano e il divino.

Il sacerdote “preso” tra gli uomini, nel mondo ebraico, seguiva questa trafila: doveva appartenere a una tribù (quindi non veniva preso tra tutti gli uomini), era separato, cioè della tribù di Levi. Per diventare sommo sacerdote dovevi appartenere alla prima classe, essere in una condizione di completa purità (non poteva ad esempio andare al funerale della propria moglie come gli altri né stracciarsi le vesti come segno di dolore). Preso tra gli uomini nel mondo ebraico significava separato, non doveva avere a che fare con il dolore, cioè con l’umano. Ecco perché lui non portava a Dio se stesso, ma il sangue di un animale, i propri peccati e quelli del popolo.

Questo testo agli ebrei è ironico, perché dice: è mai possibile che l’unica volta che il sommo sacerdote si incontra con Dio porta il peggio di sé? Ironico e sarcastico: non portava la propria vita o il meglio di quello che aveva fatto ma porta il peggio.

Se questa è la logica del Tempio cosa ci sta a fare oggi? La lettera agli ebrei non dice che il sommo sacerdote viene esaudito, che i peccati cioè vengono veramente perdonati; ma dice che ad essere esaudito è Gesù, il quale non porta i suoi peccati o altre cose che non gli appartengono, ma porta se stesso con forti grida, la sua vita, la sua esistenza. “Egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà” (Eb. 5,7).

Qui non si sta giocando con cose sacre. A Dio porti la tua vita, gioia e dolore, fallimenti e realizzazioni. Questo è il vero sacerdozio: la tua vita portata a Dio. E Dio, che la accoglie, ti esaudisce. Mentre non dice che accoglie l’altra, quella del sommo sacerdote, qui si dice che accoglie la tua vita. Questo significa che la tua vita entra nella vita di Dio, è accolta da Dio.

Nota la resistenza di molta parte della comunità cristiana al tentativo di introdurre elementi che provengono dal mondo religioso ebraico e pagano. Con questa lettera si dice: non abbiamo bisogno di costruire templi o chiese, non abbiamo bisogno di liturgie o preghiere rituali perché è come giocare con le copie, mentre nella nostra comunità c’è la presenza costante del Risorto.

Abbiamo bisogno di trovarci insieme, di spezzare il pane, di farci cibo l’uno per l’altro: questo è ciò che Gesù vuole e abbiamo la consapevolezza che lui è in mezzo a noi.

Per la Lettera agli Ebrei il solo luogo sacro è stato ed è la persona; l’uomo è il soggetto sacro e lo spazio sacro. Ciò significa che l’uomo è lo spazio di Dio.

I primi 10 versetti di del capitolo 5 sembrano banali, ma cambiano in realtà il mondo religioso. E’ capibile chi cercava di fare il contrario, perché il cristianesimo delle origini nasce in un determinato ambiente religioso e nasce come esperienza religiosa; non nasce come esperienza sociologica o filosofica. Però ci sono già tante religioni sociali e il cristianesimo pur nascendo come esperienza religiosa non diventa una religione sociale/civile; però qualcuno ha nostalgia del passato, in quanto vuole ripercorrere la strada della religione civile. E’ chiaro che per fare una religione sociale c’è bisogno di spazi, luoghi, persone, riti e parole.

Tutto questo è riuscito a resistere per i primi duecento anni, perché poi il cristianesimo effettivamente è cambiato. Cambierà del tutto nel 300 quando Costantino spostò la capitale a Costantinopoli. Il vescovo di Roma dell’epoca (Silvestro I) mandò le insegne imperiali a Costantinopoli, tranne una: quella di pontefice massimo, che se la tenne a Roma. Si capiva già come sarebbe andata a finire e in che direzione. Quella di pontefice era la massima autorità religiosa romana, che faceva da ponte tra l’uomo e Dio, quella cioè della mediazione. Il vescovo di Roma capisce che quello era il suo ruolo.

Ma anche l’imperatore era colui che svolgeva il ruolo di mediatore a tutti gli effetti, politico e religioso. Quando c’era l’incoronazione questa avveniva alla destra della statua della divinità. Si può capire anche quanto detto precedentemente, Gesù che si siede alla destra del Padre: ad un pagano dell’epoca fa venire in mente l’incoronazione dell’imperatore che stava alla destra della divinità; quindi è l’onnipotente. Mentre il Gesù Messia interessa agli Ebrei, questo Gesù seduto alla destra del Padre interessa ai pagani, e (come l’imperatore) diventa colui che ha potere sulla vita, sullo spazio e sul tempo. La lettera agli Ebrei dice che tutto questo avviene in cielo.

 

 

Una comunità a direzione collegiale
Sarebbe interessante capire dove si trovava questa comunità non sacerdotale, che sta alla base di questa lettera.

Il termine usato per i responsabili, i capi, è quello di sovrintendenti (egoumenoi), come nell’ultimo capitolo: “Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi, come chi ha da renderne conto” (Eb. 13,17).

Giustino userà lo stesso termine, che in seguito passerà a indicare anche il vescovo. Sovrintendente è il termine più antico (siamo verso la fine degli anni 50) che abbiamo a disposizione.

Come guidano la comunità questi sovrintendenti? La guidano in modo collegiale. La guida della comunità è una guida collettiva; non esiste in questa lettera la struttura gerarchica o monarchica e neanche il carattere gerarchico-sacerdotale del ministero di guida della comunità: si guida la comunità insieme. Infatti non si dice mai il capo, ma i sovrintendenti.

Qui siamo davanti a comunità fatte da adulti, dove la conversione riguarda adulti e non bambini.

Che cosa devono fare questi capi? Qual è il loro impegno? L’annuncio della parola. Sono responsabili della salvezza dei fedeli, devono essere i modelli, con la propria vita, della comunità.

Nel capitolo 21 del Vangelo di Giovanni (qualche decennio dopo), che è un’aggiunta redazionale (da parte della comunità del cosiddetto “discepolo che egli amava”), troviamo che Gesù dice a Pietro: “«Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli».” (Gv. 21,15).

Ma qui pascere non vuol dire guidare, ma dar da mangiare, nel senso di sostenere il gregge. Quando si parla di pascere, come ad esempio riferito spesso al ruolo del Papa, non significa guidare il gregge: in effetti il pastore non sta mai davanti al gregge, ma dietro. Pascere significa pasturare, nutrire, condurre al pascolo. Quindi l’incarico dei capi, anche per Gv. 21, è di sostenere, dar da mangiare e proteggere le pecore dai lupi; aver a cuore la vita delle pecore.

Nella lettera agli Ebrei è la stessa cosa: compito del sovrintendente è quello di essere responsabile dell’andamento della comunità, della sua vita.

Costoro hanno funzioni cultuali? Per questa lettera no. In questo periodo storico i vangeli non ci sono ancora, forse qualcosa del Vangelo di Marco. Può sembrare una stranezza il fatto che i sovrintendenti non abbiano funzioni cultuali e che nella comunità ci sia un culto: ascolto della Parola.

In questa lettera non si parla di eucaristia. Noi abbiamo sempre visto il sacerdote in funzione dell’eucarestia, invece in questa lettera non se ne parla. Il loro compito è l’annuncio di questa Parola e il tenerla viva.

Quale Parola? C’è una Parola scritta (quella che noi oggi chiamiamo antico testamento) e poi c’è il messaggio di Gesù: ciò che su Gesù e di Gesù comincia a circolare nelle comunità, inizialmente quella orale e in seguito quella scritta. E’ quella Parola tramandata, e questo è quindi l’unico culto.

Ma non si parla di eucaristia. Per il redattore finale della lettera agli Ebrei l’eucaristia non ha il significato di dare sicurezza alla fede, né l’eucaristia costituisce un surrogato dei sacrifici cultuali precedenti: c’è solo lo spezzare il pane. Tutto questo avviene nella collegialità.

Non è funzione del sovrintendente presiedere l’eucaristia. Come hanno fatto poi le comunità cristiane successive a cambiare tutto? E soprattutto a utilizzare questa lettera per un contesto totalmente diverso da quella che è stata la sua origine?

 

 

La nuova era instaurata da Gesù
Questa lettera è rivolta ad una comunità dove c’è una forte componente giudaica, per dirle che con la scelta di Gesù va superato tutto il mondo di provenienza. Per voi che ora siete cristiani, ma che prima eravate ebrei, sappiate che con Gesù è iniziata una nuova era.

Nel capitolo 7 troviamo Gesù sacerdote al modo di Melchisedek: “che bisogno c’era che sorgesse un altro sacerdote alla maniera di Melchisedek, e non invece alla maniera di Aronne? Infatti, mutato il sacerdozio, avviene necessariamente anche un mutamento della legge.” (Eb. 7,11-12).

“Ciò risulta ancor più evidente dal momento che, a somiglianza di Melchisedek, sorge un altro sacerdote, che non è diventato tale per ragione di una prescrizione carnale, ma per la potenza di una vita indefettibile. Gli è resa infatti questa testimonianza: Tu sei sacerdote in eterno alla maniera di Melchisedek. Si ha così l’abrogazione di un ordinamento precedente a causa della sua debolezza e inutilità – la legge infatti non ha portato nulla alla perfezione – e si ha invece l’introduzione di una speranza migliore, grazie alla quale ci avviciniamo a Dio.” (Eb. 7,15-19).

“Gesù è diventato garante di un’alleanza migliore.” (Eb. 7,22).

“Egli non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso.” (Eb. 7,27).

Nel capitolo 8 Gesù è la nuova alleanza e con Lui si chiude l’alleanza antica: “Se Gesù fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote, poiché vi sono quelli che offrono i doni secondo la legge. Questi però attendono a un servizio che è una copia e un’ombra delle realtà celesti” (Eb. 8,4-5).

“Né alcuno avrà più da istruire il suo concittadino, né alcuno il proprio fratello, dicendo: Conosci il Signore! Tutti infatti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro. Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati. Dicendo però alleanza nuova, Dio ha dichiarato antiquata la prima; ora, ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a sparire.” (Eb. 8,11-13).

Sull’antico e il nuovo tempio: prima c’era il Tempio di Gerusalemme ora c’è il corpo di Gesù: “Lo Spirito Santo intendeva così mostrare che non era ancora aperta la via del santuario, finché sussisteva la prima Tenda. Essa infatti è una figura per il tempo attuale, offrendosi sotto di essa doni e sacrifici che non possono rendere perfetto, nella sua coscienza, l’offerente, trattandosi solo di cibi, di bevande e di varie abluzioni, tutte prescrizioni umane, valide fino al tempo in cui sarebbero state riformate. Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna.” (Eb. 9,8-12).

Gesù diventa così il nuovo mediatore: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza, perché, essendo ormai intervenuta la sua morte per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa.” (Eb. 9,15).

“Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. Ora invece una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come è stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.” (Eb. 9, 24-28).

Nel capitolo 10 si parla del sacrificio di Cristo. Attenzione però a non fraintendere il significato del testo. Questo sacrificio avviene sulla terra (con forti grida) o anche in cielo? Ma se avviene anche in cielo, allora si mette la parola fine a tutti i sacrifici. Ma che tipo di azione sacra è? Quella per i peccati? Si parla anche del sangue di Gesù, ma quale sangue? In sottofondo c’è la teologia del kippur… “Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.” (Eb. 10,5-6)

“Soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo. Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre. Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e ad offrire molte volte gli stessi sacrifici che non possono mai eliminare i peccati. Egli al contrario, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati una volta per sempre si è assiso alla destra di Dio” (Eb. 10,9-12).

“Questa è l’alleanza che io stipulerò con loro dopo quei giorni, dice il Signore: io porrò le mie leggi nei loro cuori e le imprimerò nella loro mente, dice: E non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità. Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più bisogno di offerta per il peccato.” (Eb. 10,16-18).

Il capitolo 11 è importantissimo e qui l’autore afferma che ciò che vale è l’esperienza della fede. Parla della fede di Abele, Noè, Abramo, Mosè, ecc. Poi si arriva a Gesù (nel capitolo 12). Il capitolo 11 comincia così: “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. Per mezzo di questa fede gli antichi ricevettero buona testimonianza.” (Eb. 11,1-2).

Dopo aver parlato della fede di molti protagonisti dell’antica alleanza, nei versetti finali del capitolo dice che tutti costoro pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza non conseguirono la promessa Dio, in quanto Lui aveva predisposto qualcosa di meglio: “Eppure, tutti costoro, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la promessa: Dio aveva in vista qualcosa di meglio per noi, perché essi non ottenessero la perfezione senza di noi.” (Eb. 11,39-40). Avevano avuto tanta fede, ma la loro giustificazione reale e definitiva non è avvenuta per la loro fede (nell’antica alleanza), ma grazie all’azione di Cristo.

Il testo dice: a voi cristiani che venite dal mondo giudaico lasciate perdere la vostra nostalgia di provenienza, poiché inizia un’era nuova, che con la precedente non ha più niente a che fare: “Tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio”. (Eb. 12,2).

“La sua voce infatti un giorno scosse la terra; adesso invece ha fatto questa promessa:Ancora una volta io scuoterò non solo la terra, ma anche il cielo. La parola ancora una volta sta a indicare che le cose che possono essere scosse sono destinate a passare, in quanto cose create, perché rimangano quelle che sono incrollabili.” (Eb. 12,26-27).

C’è anche un sottofondo paolino quando afferma che la legge non salva.

L’epoca ultima e definitiva è iniziata e tutto ciò ha avuto conferma anche nei cieli, come dire che è stata approvata anche da Dio.

Ma non è facile rinunciare a tutto ciò che si era.

 

 

Le problematiche nel passare dalla vecchia alla nuova dimensione
Con la Lettera agli Ebrei siamo ancora nel periodo in cui si celebrava la fractio panis all’interno delle case e dove la struttura comunitaria era completamente laicale, familiare.

Si riferisce ad una comunità costituita da ex ebrei, che per circa 2000 anni aveva seguito una certa tradizione e dato adesione alle norme della Torah e che ad un certo punto aderisce al movimento dei seguaci di Gesù di Nazareth. Costoro sono costretti a porsi una domanda molto semplice: che ne facciamo di tutto quello che abbiamo seguito finora? E cioè, che ne facciamo della spiritualità, dei riti e delle preghiere che ci sono stati tramandati? E’ possibile ad esempio pregare ancora con certi salmi? Oppure, è sempre stato osservato il sabato come giorno di riposo, può essere ancora ripreso? Per non parlare delle abluzioni rituali etc…

In definitiva, dopo che per secoli è stata tramandata una certa idea di Dio, ora che si fa? Oggi posso farmi rappresentare ancora da quei simboli, da quei gesti, da quei riti, da quelle parole?

Questa è la domanda di fondo della lettera agli Ebrei: infatti essa insiste sul passaggio dalla vecchia dimensione alla nuova e a un certo punto dà il colpo definitivo: ciò che facevano i sacerdoti e il sommo sacerdote avveniva nel santuario sulla terra, a Gerusalemme, ma quello che fa Gesù avviene nel cielo, e quindi è ora di chiudere con ciò che precede.

E’ un po’ come quando andiamo a messa la domenica e ci chiediamo se a certe preghiere dei fedeli possiamo ancora rispondere, se possiamo ancora eseguire certi canti, perché sono in contrasto con tutto quello che abbiamo appreso dal Vangelo; ovviamente sono canti e preghiere che esprimevano una spiritualità e una teologia del loro tempo e che oggi sono superate.

E allo stesso modo la lettera agli Ebrei dice: quella spiritualità che conoscevamo aveva un significato tempo addietro, quando era stata elaborata, ma adesso (dopo aver conosciuto Gesù) non ha più senso.

Altro problema delicato: questo Dio ci ha parlato attraverso Mosè e Mosè ha trasmesso la sua eredità a Giosuè e da lì questo mondo è arrivato agli scribi (uno scriba infatti era rivestito ed inserito nella tradizione mosaica, diventando un rabbi). Quindi lo scriba poteva parlare a nome di Dio.

Ora, nella comunità dei discepoli di Gesù, ci si pone lo stesso problema: chi parla in questa comunità a nome di Dio? E a chi una comunità deve dare l’incarico per parlare a nome di Dio? Prima di Cristo si sapeva chi era il mediatore tra Dio e il popolo, ma ora, con la venuta di Gesù, chi è il mediatore e chi ha l’autorevolezza della Parola?

Siamo qui in un gruppo con finalità di contenuto religioso, non è una comunità a valenza sociologica.

Passando al testo vedremo subito che questa lettera non è per niente sacerdotale, come la si considerava tempo addietro.

 

 

Dio parla sempre all’uomo d’oggi: chi lo accoglie diventa suo figlio
“Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo.” (Eb. 1,1-2).

Proprio all’inizio della lettera agli Ebrei troviamo già un aspetto molto interessante: notiamo un certo superamento, nel senso che Dio ha parlato precedentemente attraverso i profeti, ma ora c’è un altro modo di parlare di Dio, totalmente diverso e quindi vi è un superamento.

Secondo alcuni autori questa comunità dei discepoli di Gesù si sostituisce al mondo ebraico: è l’idea della sostituzione.

Oppure l’altra chiave interpretativa, molto più corretta e interessante: Dio parla sempre nel presente della storia dei popoli, non parla mai al passato e nemmeno al futuro. Quindi Dio parla sempre all’uomo nel suo presente: non si tratta del fatto che prima aveva parlato agli ebrei e adesso parla ai cristiani (cioè l’idea della sostituzione, che è andata avanti per secoli e che ora non si può più riproporre perché inesatta).

L’autore scrive ultimamente, in realtà significa adesso, in questi giorni (sono i tempi ultimi/escatologici, quelli definitivi): prima aveva parlato ad altri adesso parla a voi. Infatti il problema è quello già posto prima: possiamo oggi comunicare con simboli, riti, preghiere, parole, che non sono della nostra epoca?

Dio prima aveva parlato ad altri (profeti), ora parla a voi (cristiani) nella novità della vostra storia: quindi siete voi che dovete fare storia con Lui oggi. In un modo ovviamente diverso dalla storia che gli altri avevano fatto nel passato.

Quindi non più l’idea della sostituzione ma l’idea di un’alleanza con Dio: non si può parlare tanto di antica e nuova alleanza, perché Dio fa alleanza sempre, costantemente, con tutte quelle persone con le quali entra in relazione.

Un altro aspetto proviene da una traduzione non corretta, infatti si legge che “ha parlato a noi per mezzo del figlio”; guardando il testo greco troviamo letteralmente “per mezzo figlio”. Potremmo tradurre “per mezzo di figlio”, ma non “del”, perché traducendo “per mezzo del figlio” si dà un’indicazione teologica ben precisa: si va chiaramente a pensare a Gesù e quindi cogliere Gesù, come figlio di Dio fatto uomo (frutto di una teologia che verrà dopo).

Non dobbiamo dimenticare che la comunità alla base di questa lettera è giudeo-cristiana.

Questa lettera, dicendo “per mezzo di figlio”, sostiene che chiunque entra in un rapporto di alleanza con Dio ne diventa “figlio”.

In Efesini 1, 5 leggiamo: “predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo”. Il figlio adottivo di questa lettera è simile nel significato al figlio di cui sta parlando nel testo agli Ebrei.

Ma nella cultura del tempo chi era il figlio adottivo? Ebbene, all’epoca il figlio adottivo era il figlio considerato il più importante, colui che era in grado di portare avanti i progetti del padre, non necessariamente quello biologico, non necessariamente il primogenito. Questo vale in tutto il mondo antico, nel mondo romano come in quello mediorientale, dove i re avevano tante mogli e tanti figli (oppure tanti generali); bisognava poi sceglierne uno. Quando il re o l’imperatore avvertiva che si stava avvicinando la sua fine, si guardava attorno, e cercava chi tra i suoi figli o tra i suoi generali o funzionari aveva la sua stessa idea e le sue stesse capacità di portare a termine il suo progetto di regno: lo sceglieva e lo adottava come figlio erede. Quindi il figlio adottato era il figlio più importante, era l’unico capace di portare avanti il progetto del padre.

Quando Paolo dice che noi siamo figli adottivi significa che Dio ci ha scelti perché siamo gli unici capaci di portare avanti il suo progetto di creazione. Lo stesso vale per la lettera agli Ebrei; c’è Dio che parla adesso a coloro che sono in grado di portare avanti il suo progetto: il verbo usato è “laleô” che è il verbo del parlare chiacchierando, dialogando. Non è quindi un Dio che dà ordini, ma un Dio che dialoga, che chiacchiera, e che sa di essere ascoltato. Ora Lui può parlare perché c’è chi è in grado di ascoltarlo e di realizzare il suo progetto.

 

 

Peccato è abbandonare lo stile di vita proposto da Gesù
Ogni volta che affrontiamo questo testo ci dobbiamo ricordare che il confronto teologico è con il mondo giudaico. Quando nella lettera agli Ebrei troviamo il termine “peccato”, in greco amartia, questo non viene utilizzato come nel senso di “sbagliare il bersaglio”, ma nel significato di “stile di vita sbagliato”. Nel momento in cui uno ha dato adesione a Gesù, ha fatto una scelta di campo, cioè una opzione fondamentale. Se egli ha direzionato la sua vita sul messaggio di Gesù, il peccato in cosa consiste? Abbandonare questo stile di vita.

Quindi non si tratta di commettere qualcosa di particolare, ma è cambiare stile di vita, non adeguato alla scelta che hai fatto: quindi non è tanto sbagliare bersaglio o commettere qualche azione negativa, ma stancarsi di quella adesione iniziale data a Gesù e mollare tutto per ritornare a vivere secondo la logica del mondo.

Se noi andiamo al capitolo 10 (siamo quasi nella parte finale della lettera), quando l’autore arriva alla parte delle raccomandazioni pratiche, troviamo “Cerchiamo anche di stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone,” (Eb. 10,24).

Si sente l’eco della lettera di Giacomo: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa.” (Gc. 2,15-17).

Oppure la prima lettera ai Corinzi, quando Paolo ammonisce chi porta cibi da casa e poi mangia da solo, per cui chi non ha niente da portare non mangia niente: non si può fare la fractio panis in questo modo.

“Senza disertare le nostre riunioni, come alcuni hanno l’abitudine di fare, ma invece esortandoci a vicenda; tanto più che potete vedere come il giorno si avvicina.” (Eb. 10,25).

Il termometro della fede non è l’assidua frequenza all’eucarestia o la quantità di preghiere, ma è la carità. L’autore scrive di non saltiamo le “nostre riunioni” (da notare che l’eucarestia in questa lettera non viene mai citata). Come dire: abbiamo appena iniziato e già c’è qualcuno che diserta (si sta affievolendo l’entusiasmo iniziale?).

Ci troviamo in un’epoca storica in cui si pensava che il giorno del Signore dovesse arrivare quanto prima. Ovviamente sono già passati degli anni dalla morte di Gesù. Di questa attesa del giorno del Signore se ne parla già nella prima lettera ai Tessalonicesi di Paolo, datata 49, mentre quella agli Ebrei, nella redazione finale, è di sicuro dopo il 70 anche se le due omelie che la compongono sono più antiche.

Eppure stanno ancora a parlare di “giorno del Signore che deve arrivare”. Siamo nell’epoca della distruzione di Gerusalemme oppure durante il periodo problematico di Domiziano (epoca di composizione dell’Apocalisse). Ma perché si comincia a disertare le riunioni? E’ probabile che non vedendo nulla di nuovo si cominci a provare nostalgia per la vecchia ritualità, oppure che qualcuno consideri pericoloso proseguire in questa fede. Così alcuni abbandonano e riabbracciano il credo religioso di prima.

 

Dio vuole lo svuotamento del peccato
“Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli” (Eb. 1,3b). Non si parla di purificazione dai peccati, ma dei peccati: il contenuto è quello dello svuotamento, della forza del peccato che deriva da Satana, dall’avversario di Dio, già presente all’origine della creazione. Ad Eva dice: Dio sa che se tu mangi diventerai come Lui e Lui non vuole che tu diventi Dio. E allora instilla nell’uomo questa paura, perché Dio non vuole che tu diventi come Lui.

Questa situazione che tipo di rapporto crea tra uomo e Dio? Una relazione di sudditanza, in cui Dio è il Signore e l’uomo è succube: questo è il peccato, secondo l’autore della Lettera agli Ebrei. Gesù ha detto che il destino dell’uomo è diventare come Dio, liberandolo da questa paura di un Dio giudice e geloso della sua identità, svuotando/annichilendo così il peccato.

A sentire Satana Dio non vuole che l’uomo diventi Dio; ma questo non è il progetto originario di Dio: è l’idea del Satàn. Ecco che l’uomo, che per molto tempo si è portato dietro questa idea di dover essere il perenne peccatore e lo schiavo di Dio, è cresciuto in una condizione di peccato: Gesù nullifica questa concezione. Ecco allora la “purificazione dei peccati”, cioè lo svuotamento di questo concetto. Quest’idea che troviamo all’origine è dell’antagonista di Dio, non è la verità, non è ciò che Dio vuole, ma l’esatto contrario come è stato rivelato da Gesù.

Da non trascurare che sotto c’è sempre un concetto ebraico di peccato e di purificazione; così come quando si parlerà del sangue di Gesù che annulla i peccati, si avrà come sottofondo la festa del kippùr, quando grazie al sangue di un capro Dio liberava il popolo dai peccati.

 

 

La contrapposizione di due cristologie
Una cosa è dire che Gesù è il Messia e una cosa è dire che è assiso alla destra di Dio: è segno che in questa lettera ci sono due cristologie (quella dal basso e quella dall’alto), che dialogano e che a un certo punto una supera l’altra.

Eb. 1,3 propende per la cristologia dall’alto: “Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola” (Eb. 1,3a).

Quando il cristianesimo entra anche nel mondo pagano non ha bisogno di presentare un Gesù Messia (in ebraico māšīāḥ, cioè “re unto”, in greco christòs), piuttosto vuole presentare un Gesù che si siede alla destra di Dio: uno che ha in mano il destino dell’uomo e della storia, cioè il Signore del tempo.

Ciò vuol dire che noi siamo liberi dal destino e dal fato, perché è Gesù che guida la nostra esistenza. “Gesù Messia” è nella predicazione al mondo giudaico, mentre “Gesù alla destra del Padre” (significa che lo è sempre stato) è cristologia dall’alto rivolta a tutti: Egli è venuto in mezzo a noi, ma poi ha ripreso il suo posto. Quindi siamo liberi dal destino, ma siamo liberi principalmente dalla morte e dalla forza del peccato. Soprattutto siamo liberi dall’autore del peccato: il diavolo.

Questa è la riflessione letteraria e culturale di questo testo.

 

 

Il contrasto fra Gesù e il sommo sacerdote (e la Legge degli antenati)
“Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che dalla morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.” (Eb. 1,14-16.17-18).

Gesù si è reso del tutto simile ai fratelli, eccetto che nel peccato. Qui sta preparando il discorso che farà nel capitolo 5: Gesù che offre la sua vita con forti grida e lacrime, che non ha qualcosa di speciale ma che sperimenta la totale realtà dell’esperienza umana. Per fare questo doveva rendersi in tutto simile ai fratelli.

Il sommo sacerdote non era del tutto simile ai fratelli, poiché doveva vivere costantemente in una condizione di purità (conducendo una vita di privazioni, nonostante il potere e la ricchezza a disposizione). La lettera agli Ebrei fa capire la diversità tra Gesù e il sommo sacerdote. Gesù è il vero sommo sacerdote, simile ai fratelli e misericordioso. Come si fa a sperimentare misericordia e amore, se non si è nella condizione di poter vivere questa esperienza? Il sommo sacerdote non doveva provare sentimenti, ma fare il suo rito, sacrificare il caprone, e così via: il tutto seguendo una perfezione rituale e liturgica che garantiva magicamente il perdono.

Per Gesù non è così: è necessario entrare nella condizione umana, viverla fino in fondo, se vuoi portare l’esperienza della misericordia e del perdono. Ecco in sintesi la diversità tra i due: il primo si tira fuori dall’umanità, il secondo ne è completamente immerso.

“Allo scopo di espiare i peccati del popolo”. Qual’era il compito del sommo sacerdote? In definitiva uno solo: fare un’azione una volta all’anno, che nessun altro poteva fare, e cioè aspergere il popolo con il sangue del capro, entrare nel santo dei santi, chiamare Dio per nome (JHWH).

Quella forma di espiazione con Gesù è finita, perché con lui nasce un’altra esperienza (illustrata nel capitolo 5).

Anche la Lettera agli Ebrei, come i Vangeli, evidenzia la superiorità di Gesù su Mosè. Pensiamo alla scena della trasfigurazione: Gesù al centro, con ai lati Mosè cioè la Legge ed Elia cioè i profeti. E’ presente tutta la bibbia in dialogo con Gesù, infatti Mosè ed Elia parlano con Gesù, non coi discepoli, mentre la voce dal cielo invita i discepoli ad ascoltare Gesù e non Mosè ed Elia. Anche per gli evangelisti Gesù è l’unica Bibbia di Dio. Probabilmente la redazione finale della Lettera agli Ebrei avviene nel periodo tra il Vangelo di Matteo e quello di Luca.

Per un sacerdote ebreo, ascoltare il contenuto questa lettera, significa andare in crisi dopo una vita trascorsa ad ascoltare e vivere ben altri insegnamenti. E’ difficile per lui buttare all’aria tutto quello che si era consolidato nella sua esistenza, partendo dalla Bibbia che lui considerava parola di Dio in tutte le sue parti. Come poteva convivere con chi sosteneva che Gesù è l’unica Bibbia di Dio? E poi, chi aveva l’autorità per stabilire quale parte della scrittura era parola di Dio? Questi sono i problemi che la lettera cerca di affrontare, non per un pubblico non credente, ma per un mondo radicato nella fede e nella spiritualità giudaica, ma che ha fatto esperienza di Gesù di Nazareth e a lui hanno dato adesione.

Però il Dio, di chi ha scritto la lettera, è lo stesso di coloro che la stanno ascoltando (Paolo compreso): tutti costoro non cambiano idea su Dio (il discorso trinitario verrà dopo). E’ il ruolo di Gesù che diversifica gli uni dagli altri; è lui che fa da discriminante tra la storia che precede e l’esperienza che verrà dopo; è lui che fa considerare conclusa l’esperienza del sacerdozio di Gerusalemme.

Bisogna però ribadire che quanto fatto da Gesù è nell’ottica della volontà di Dio, cioè lo ha voluto Dio. Come Dio prima aveva parlato a Mosè, ora ha parlato a Gesù: occorre perciò fare attenzione a quello che Dio ha detto a Gesù adesso.

Queste persone, a cui è indirizzata la lettera, sono inserite all’interno di una vita profondamente religiosa: dal mattino alla sera, in ogni ambito della propria esistenza, con parole e gesti sempre identici, stabiliti secondo la “volontà di Dio”. Con l’adesione a Gesù  viene loro detto che va tutto radicalmente cambiato: ora, cosa devono dire e cosa devono fare in ogni momento della loro giornata? Pensiamo al codice di purità-santità del Levitico e non solo, ai cibi impuri, e così via.

Negli Atti troviamo la visione di Pietro, che per tre volte si sente dire: «Ciò che Dio ha dichiarato puro, tu non dichiararlo immondo» (At. 10,15). E Pietro non riusciva a capire, perché questa imposizione (il criterio del puro e dell’impuro) l’aveva ben introiettata.

A Damasco, quanti giorni Paolo è rimasto cieco? Tre giorni. Nella Bibbia il 3 significa completamente. Ciò significa che il lavoro fatto su Pietro è notevole; e lo stesso dicasi per Paolo: i suoi 3 giorni di cecità significano 17/19 anni di catechesi, un cammino necessario per passare dal perseguitare al proclamare. La conversione richiede tempo. La stessa cosa vale anche per noi oggi.

 

 

Non sacrifici, ma immersione nell’umanità
“Poiché dunque abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede.” (Eb. 4,14). Quello di Gesù è un sacerdozio nel cielo, diverso perciò dal sommo sacerdote terreno del tempio. “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre debolezze, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato.” (Eb. 4,15). Un’altra differenza col sommo sacerdote di Gerusalemme.

“Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza; proprio a causa di questa anche per se stesso deve offrire sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo.” (Eb. 5,1-3).

Qui c’è un sommo sacerdote che offre doni e sacrifici anche per i propri peccati, mentre Gesù è simile a noi tranne che nel peccato. Si tratta di due stili di vita completamente diversi, con un sommo sacerdote che nonostante il continuo stato di purità non è esente dal peccato: il suo peccato è sicuramente quello di tirarsi fuori dall’umanità. Gesù invece si è immerso nell’umanità, su questo è stato impeccabile: nel momento in cui uno di noi si tira fuori dall’umanità si mette nella condizione di peccato. Immergendosi nell’umanità si supera questa condizione.

“Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono,” (Eb. 5,7-8).

Il sommo sacerdote offre un sacrificio, Gesù invece offre la sua vita, cioè il suo stile di vita. La sua obbedienza non è quella gerarchica, di un inferiore verso un superiore, ma la comunanza di intenzione con il Padre: ciò che vuole il Padre lo vuole anche il Figlio. La sua vita è stata il risultato di entrambe le volontà. Gesù non ha agito secondo la propria volontà, in quanto diversa da quella del Padre. Gesù dice: io faccio la tua volontà perché quello che tu vuoi è esattamente quello che voglio anch’io; per questo la mia vita diventa causa di svuotamento dei peccati, in quanto ogni uomo ha come destino Dio, il diventare come Dio. Se l’uomo capisce questo allora ha svuotato i peccati, ha svuotato quel concetto sbagliato di un Dio geloso della propria divinità, che non vuole che l’uomo diventi come Lui.

 

 

Solo crescendo nella fede si può ascoltare la voce di Gesù
“Su questo argomento abbiamo molte cose da dire, difficili da spiegare perché siete diventati lenti a capire. Infatti, voi che dovreste essere ormai maestri per ragioni di tempo, avete di nuovo bisogno che qualcuno v’insegni i primi elementi degli oracoli di Dio e siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido. Ora, chi si nutre ancora di latte è ignaro della dottrina della giustizia, perché è ancora un bambino. Il nutrimento solido invece è per gli uomini fatti, quelli che hanno le facoltà esercitate a distinguere il buono dal cattivo.” (Eb. 5,11-14).

Qui l’autore si accorge che ha davanti dei bambini, che devono diventare adulti nella fede: a loro ha molte cose da dire. Gli uditori sono lenti a capire, perché infantili. Hanno ricevuto da piccoli una certa educazione religiosa e non l’hanno più messa in discussione nella fase della maturità.

“Or dunque, se la perfezione fosse stata possibile per mezzo del sacerdozio levitico – sotto di esso il popolo ha ricevuto la legge – che bisogno c’era che sorgesse un altro sacerdote alla maniera di Melchisedek, e non invece alla maniera di Aronne? Infatti, mutato il sacerdozio, avviene necessariamente anche un mutamento della legge.” (Eb. 7,11-12).

Ecco la questione! Dicendo che Gesù è secondo il sacerdozio di Melchisedek, con origine da Dio, mentre l’altro proviene da Aronne, si ha il cambiamento del sacerdozio ed anche della Legge.

Nel vangelo leggiamo che Gesù dice: “non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro” (Mc. 7,15).

In questo modo ha cambiato la Legge, ha reso nullo tutto il codice di purità. Idem quando ha toccato un lebbroso, guarito di sabato, eccetera. La lettera agli ebrei sta dicendo la stessa cosa. Perché oltre ad Aronne c’è anche Melchisedek? Non bastava Aronne?

Perché Abramo paga la decima a Melchisedek? Perché Abramo è inferiore a Melchisedek e da Abramo si arriverà a Mosè. Se Gesù proviene da Melchisedek, Mosè è inferiore a Gesù. Questo è il ragionamento fatto dalla Lettera.

“Infatti, mutato il sacerdozio, avviene necessariamente anche un mutamento della legge. Questo si dice di chi è appartenuto a un’altra tribù, della quale nessuno mai fu addetto all’altare.” (Eb. 7,12-13).

Gesù, appartenendo al sacerdozio di Melchisedek e non a quello di Aronne destinato all’altare, è germogliato dalla tribù di Giuda e non da quella di Levi. Quindi va cambiato il contenuto della Bibbia e va lasciato perdere tutto il mondo religioso e culturale di provenienza. Basta con le nostalgie del passato. Dio ha parlato a te in modo diverso attraverso Gesù: tu devi ascoltare la sua voce, senza prestare orecchio a ciò che era stato detto prima.

Anche oggi spesso si dice “è sempre stato fatto così”, “è la nostra tradizione”. E non si è capaci di parlare ora, adesso, come sostiene la Lettera agli Ebrei.

 

 

Basta nostalgie: la vecchia Legge è diventata inutile
Il colpo di grazia viene dato subito dopo: “Si ha così l’abrogazione di un ordinamento precedente a causa della sua debolezza e inutilità – la legge infatti non ha portato nulla alla perfezione – e si ha invece l’introduzione di una speranza migliore, grazie alla quale ci avviciniamo a Dio.” (Eb. 7,18-19).

Come dire: tutto quello che ci hanno insegnato non vale più nulla, dato che la legge non ha portato nulla alla perfezione. Ma ciò si deve al peccato dell’uomo o all’incapacità della Legge? Se la Legge è incapace in sé, significa che non viene da Dio. Occorre fare attenzione a ciò che viene da Dio e a ciò che viene attribuito a Dio ma che non viene da Lui. Allora come oggi.

Come si fa ad affermare che certe cose sono di origine divina o di diritto divino? Eppure la Torah, per il mondo ebraico, era di Dio; tutte le parole erano di Dio. Si rischiava la lapidazione nel dire che nella Torah c’era una parola umana. Gesù ha osato molto quando, riguardo al ripudio, ha affermato: “«Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma.” (Mc. 10,3-5).

Ha detto che la norma è di Mosè e non di Dio. Ma allora, quante altre parole sono di Mosè e non di Dio? E chi stabilisce che quella parola è di Mosè e non di Dio?

La legge è inutile perché non ha portato nulla alla perfezione, nulla. E si ha invece l’introduzione di una speranza migliore, grazie alla quale ci avviciniamo a Dio: allora c’è un’altra strada da percorrere.

L’abbandono di ogni nostalgia la ritroviamo anche nei Vangeli: “E un altro dei discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti».” (Mt. 8,21-22). E ancora: “Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».” (Lc. 9,62). “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.” (Lc. 14,26). Insomma, con la fede in Gesù bisogna compere con il passato e il mondo di provenienza. «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc. 17,6). “Vino nuovo in otri nuovi” (Mc. 2,22). “Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio” (Mc. 2,21).

Il cristianesimo nasce nell’ambiente di una religione sociale, non quindi soltanto un’esperienza di una fede individuale, ma riguardava l’intera esistenza della persona. Il cristianesimo non ha ancora valenza sociale: si riferisce a poche persone che si ritrovano nelle case; non ha ancora una preghiera propria; una sola cosa ha in comune: il gesto del pane. Alcuni lo inseriscono all’interno della cena, altri prima, altri dopo, ecc. Qualcuno ha il gesto dell’immersione, con ancora il significato della purità o della scelta etica: ci vorranno circa 200 anni prima che si abbia una teologia battesimale strutturata.

Ecco il motivo per cui al capitolo 8 si legge “Se Gesù fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote” (Eb. 8,4): cioè lasciate perdere queste cose. Se Gesù tornasse non farebbe il sacerdote perché non ha più senso.

 

 

Verso una Chiesa che non “copia” ciò che accade in Cielo
L’idea di Chiesa che sta uscendo da questa Lettera agli Ebrei è quella di una Chiesa battesimale e laicale: non ha una dimensione e una struttura sacerdotale. Non si parla di clero o di ministri, di celebrazione dell’eucarestia, di ruoli particolari al proprio interno: i cristiani sono solo dei discepoli. L’unico ruolo ce l’ha Gesù, che ha reso nullo tutto il resto.

Ogni religione non fa altro che rappresentare in terra ciò che accade nei cieli: templi, statue della divinità, eccetera. La Lettera taglia tutto. Non scimmiotta ciò che avviene in cielo, perché Gesù ha superato la fase della copia (la terra che copia il cielo), in quanto è entrato direttamente nella realtà: tutto quello che riguarda la “copia” non serve più, non ha più senso. Templi e riti non servono più. Cosa serve allora? La carità e le opere di bene, solo queste servono. Se tutto quello che è stato fatto finora è “copia” perché portarlo ancora avanti?

Questo tipo di cristianesimo entra anche nel mondo pagano, dove pure è presente la “copia”. Per questo i cristiani sono considerati dei miscredenti, dei superstiziosi, anche dai pagani: dei “senza dio” perché privi di templi, sacerdoti, riti, gesti, libri di preghiere. Invece i cristiani hanno capito che tutto ciò è semplicemente “copia” e che con Gesù sono entrati nella realtà. Anche per loro poi le cose cambieranno …: nasceranno le strutture, la Lettera agli Ebrei verrà interpretata diversamente e il cristianesimo diventerà religione sociale/civile. Dopo aver smontato il mondo religioso precedente, i testi vengono reinterpretati perché funzionali a questo tipo di religione.

 

 

E’ Gesù la nuova Bibbia
Gli autori di questa Lettera hanno davanti solo l’Antico Testamento, per cui, sostenere che è stato superato, non significa sostituirlo con un altro libro: piuttosto che siamo noi l’altra Bibbia. Oggi, l’antico  e il nuovo Testamento possono dialogare tra loro, ma quando gli autori scrivono tale Lettera affermano aspetti inimmaginabili per l’epoca: dicendo che l’antico testamento non ha portato nulla alla perfezione per cui va tolto, cosa resta in mano a loro? Di scritto niente. A quel mondo ormai superato viene tolto qualsiasi riferimento religioso e ad esso non viene dato nulla. Non c’è ancora un Nuovo Testamento che sostituisca quello Vecchio. La Bibbia dà pur sempre sicurezza poiché certifica il mondo di appartenenza.

Gli autori della Lettera mettono Gesù al centro: è Lui che sostituisce la Legge, è entrato nella vita dell’uomo, ha vissuto la vita fino in fondo, non ha rifiutato di finire in croce; la sua vita ha manifestato nella storia la volontà di Dio, e cioè che la vita di Gesù ha un senso eterno che neanche la morte può scalfire. L’unico fondamento è quindi quel Gesù annunciato dai suoi discepoli e non la storia da Abramo in poi, passando per Mosè e le sue strutture religiose che danno sicurezza. E’ Gesù con il suo stile di vita, l’unico riferimento, l’unica certezza.

Ma su Gesù non è stato ancora scritto nulla. Qualcosa circola, ma non un testo che abbia la stessa forza della Bibbia. Per questo la Lettera agli Ebrei fa capire che solo Gesù è la vera roccia, il vero fondamento: non sono né Mosè né il Tempio, nemmeno le liturgie giudaiche o i codici di purità. La roccia è solo Gesù di Nazareth, che a Dio non ha consegnato il sangue di un caprone, ma la propria vita e lo stile della sua esistenza, che è la condizione divina accettata da Dio. E tale condizione non è solo di Gesù, ma di chiunque dia adesione a Gesù. Non c’è quindi bisogno di Tempio e di strutture religiose, ma di un nuovo stile di vita. Ecco il presupposto per entrare nella condizione divina: vivere come Gesù.

Ma alcuni della comunità obiettano: che preghiere occorre dire? Quali riti  praticare e in che luogo? E’ umano porsi tali domande, anche sapendo che si tratta di ripetere una “copia”. Però la questione di fondo resta il bivio tra la propria realizzazione e il proprio fallimento. La spiritualità precedente realizza o spersonalizza? Il vecchio sacerdozio usciva dall’esistenza, promuoveva la spiritualità della separazione.

Ecco perché la Lettera agli Ebrei è di una attualità pungente. La condizione del sacerdozio di Gesù è lo stile della sua vita, dove non c’è separazione dall’esistenza, o “copia” di quanto avviene in cielo. E’ la vita che lo ha reso sommo sacerdote. Chiunque ascolta ora quella Parola, aderisce ad essa, sperimenta e diventa sommo sacerdote della propria esistenza. Questo è ciò che porta a perfezione.

Che fine ha fatto la comunità che sta dietro a questa Lettera? Non lo sappiamo. Di certo molti sono stati gli abbandoni: “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso. Cerchiamo anche di stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone, senza disertare le nostre riunioni, come alcuni hanno l’abitudine di fare” (Eb. 10,23-25).

C’è molta somiglianza col Vangelo di Giovanni, dopo il duro impatto del capitolo 6, quando Gesù chiede di essere eucaristici: “Da allora molti dei suoi discepoli si ritirarono indietro e non andavano più con lui.” (Gv. 6,66).

Essere eucaristici è la vita senza peccato, cioè vivere con lo stile di vita di Gesù.

 

 

 

10.       La comunità delle origini reinterpreta la terminologia biblica
La novità della Chiesa che nasce (Prima Lettera di Pietro)
La Prima Lettera di Pietro, redatta verso la fine del I secolo e forse contemporanea alla redazione in greco del Vangelo di Matteo, parla anche del sacerdozio universale dei credenti. Aspetto ripreso sia da Lutero che dal Concilio Vaticano II.

“Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo.” (1Pt. 2,4-5).

La pietra viva è Gesù. Il passo richiama il cap. 16 di Matteo: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa” (Mt. 16,18). Letteralmente il termine greco petra significa roccia. La roccia (=petra), per eccellenza, resta Gesù (non Pietro): è su questa roccia che viene costruito tutto, al di là di quanto è stato creduto nel corso dei secoli.

Se la pietra viva è Gesù, coloro che lo accolgono sono pietre vive necessarie per edificare la sua Chiesa (εκκλησία, ecclesìa assemblea laica e non religiosa).

Con la prima lettera di Pietro si ha già l’interpretazione esegetica del brano di Matteo.

Il termine “edificio spirituale” fa intendere che non si vuole costruire un ulteriore tempio (quello di Gerusalemme non esiste più): d’altra parte Gesù l’aveva sempre detto, che prima o poi tutto questo sarebbe finito. Il nuovo tempio riguarda lo Spirito.

L’espressione per mezzo di Gesù Cristo è rimasta nella liturgia.

Qui troviamo affermazioni teologiche d’importanza capitale: la pietra viva è Cristo, voi che lo accogliete anche; l’edificio costruito non è materiale ma spirituale; i credenti sono sacerdoti di un nuovo tipo, il cui compito non è quello di offrire sacrifici materiali come a Gerusalemme ma spirituali; il sacerdozio funziona in modo molto diverso. C’è quindi una roccia, tutte le pietre vive sono innestate su di essa, tutti compongono lo stesso edificio: in ciascuno troviamo in pienezza la stessa realtà. Questa è un’idea affascinante. Nasce un tipo di sacerdozio (=ministero/servizio) che non ha nulla a che fare con quello giudaico e con quello pagano.

“Si legge infatti nella Scrittura: Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso. Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Loro v’inciampano perché non credono alla parola; a questo sono stati destinati.” (1Pt. 2,6-8).

Quando si parla di Scrittura si intende l’Antico Testamento. Anche i discepoli, uscendo dal mondo palestinese per entrare in quello dell’impero romano, saranno pietra di scandalo: la loro fede sarà senza culto, tempio, sacerdozio, riti.

“Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia.” (1Pt. 2,9-10).

Questi attributi erano tutto quello che la Scrittura diceva di Israele. Se Israele era stato liberato dall’Egitto, il suo compito era quello di manifestare agli altri popoli questo Dio della liberazione. L’autore prende questi elementi del mondo ebraico e li attribuisce ai discepoli di Gesù, alla Chiesa che sta nascendo. Si tratta di una reinterpretazione radicale della Scrittura: in continuità con essa, perché il Dio in cui crede è sempre il Dio della creazione e della liberazione, ma in discontinuità, perché considera la novità portata da Gesù.

 

 

La comunità dei discepoli costituisce un regno di sacerdoti (Apocalisse)
Gesù “ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.” (Ap. 1,6).

Noi, discepoli di Gesù, siamo un regno di sacerdoti. Quelli di Gerusalemme lo erano per nascita. Qui è la comunità dei discepoli che nella sua interezza è un regno di sacerdoti.

I discepoli, che avevano subito ogni persecuzione ed erano rimasti fedeli, “Cantavano un canto nuovo: « Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra ».” (Ap. 5,9-10).

Qui non si sta parlando di sacerdoti all’interno della comunità, ma è la comunità che è sacerdotale e regale.

“Beati e santi coloro che prendono parte alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la seconda morte, ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno con lui per mille anni.” (Ap. 20,6).

Il concetto di sacerdote nel libro di Apocalisse non si riferisce alla mediazione tra Dio e l’uomo o all’idea di sacrificio. Perché i discepoli saranno sacerdoti? Perché hanno superato la tentazione di inchinarsi davanti alla bestia e alla sua immagine. Quella cristiana è una comunità sacerdotale in quanto non è scesa a compromessi, non si è impaurita, non è scappata, non si è fatta annientare, ha resistito sebbene messa alla prova: tutto questo l’ha resa sacerdotale, e non per la funzione particolare svolta da un suo membro.

I credenti sono pietre vive, formano una comunità spirituale, i sacrifici sono spirituali (1Pt.), la comunità è un sacerdozio santo (Ap.). Tutto questo a 60 anni dalla morte di Gesù.

Anche se distaccata, questa idea però riprende la terminologia del passato, del tempio di Gerusalemme (come sacrificio, tempio, sacerdote): non viene perciò completamente abbandonata, anche se il tempio (dopo il 70) non c’è più. Però questa terminologia, anche se ripresa, viene reinterpretata.

 

 

Il recupero della critica profetica e sapienziale
Le comunità delle origini conoscono la realtà del tempio (in cui quotidianamente prestavano il loro servizio circa 700 persone), ma anche la posizione dei profeti rispetto a tale realtà: questa posizione Gesù l’aveva fatta propria, e così anche la Chiesa primitiva.

Amos (VIII sec a.C.), profeta del Regno d’Israele (Nord), così riporta le parole del Signore: “Essi odiano chi ammonisce alla porta e hanno in abominio chi parla secondo verità. Poiché voi schiacciate l’indigente e gli estorcete una parte del grano, voi che avete costruito case in pietra squadrata, non le abiterete; vigne deliziose avete piantato, ma non ne berrete il vino, perché so che numerosi sono i vostri misfatti, enormi i vostri peccati. Essi sono oppressori del giusto, incettatori di ricompense e respingono i poveri nel tribunale. Perciò il prudente in questo tempo tacerà, perché sarà un tempo di sventura. Cercate il bene e non il male, se volete vivere, e così il Signore, Dio degli eserciti, sia con voi, come voi dite. Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto; forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe. Perciò così dice il Signore, Dio degli eserciti, il Signore: In tutte le piazze vi sarà lamento, in tutte le strade si dirà: Ah! ah! Si chiamerà l’agricoltore a fare il lutto e a fare il lamento quelli che conoscono la nenia.  In tutte le vigne vi sarà lamento, perché io passerò in mezzo a te, dice il Signore. Guai a coloro che attendono il giorno del Signore! Che sarà per voi il giorno del Signore? Sarà tenebre e non luce. Come quando uno fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso; entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde. Non sarà forse tenebra e non luce il giorno del Signore, e oscurità senza splendore alcuno? Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco i vostri doni e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei tuoi canti: il suono delle tue arpe non posso sentirlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne. Mi avete forse offerto vittime e oblazioni nel deserto per quarant’anni, o Israeliti? Voi avete innalzato Siccùt vostro re e Chiiòn vostro idolo, la stella dei vostri dèi che vi siete fatti. Ora, io vi manderò in esilio al di là di Damasco, dice il Signore, il cui nome è Dio degli eserciti”. (Am. 5,10-27).

Le riunioni non gradite da Dio sono quelle del Tempio. Dio sta dicendo agli Ebrei che tutto quello che stanno facendo per Lui non ha senso, non serve a nulla.

 

Anche Osea (VIII sec a.C.) non è da meno. L’idea teologica sottostante è che solo Dio è il re d’Israele: chi governa è soltanto un suo luogotenente.

“Dà fiato alla tromba! Come un’aquila sulla casa del Signore… perché hanno trasgredito la mia alleanza e rigettato la mia legge. Essi gridano verso di me: «Noi ti riconosciamo Dio d’Israele!».Ma Israele ha rigettato il bene: il nemico lo perseguiterà. Hanno creato dei re che io non ho designati; hanno scelto capi a mia insaputa. Con il loro argento e il loro oro si sono fatti idoli ma per loro rovina. Ripudio il tuo vitello, o Samaria! La mia ira divampa contro di loro; fino a quando non si potranno purificare i figli di Israele? Esso è opera di un artigiano, esso non è un dio: sarà ridotto in frantumi il vitello di Samaria. E poiché hanno seminato vento raccoglieranno tempesta. Il loro grano sarà senza spiga, se germoglia non darà farina, e se ne produce, la divoreranno gli stranieri. Israele è stato inghiottito: si trova ora in mezzo alle nazioni come un vaso spregevole. Essi sono saliti fino ad Assur, asino selvaggio, che si aggira solitario, Efraim si è acquistato degli amanti. Se ne acquistino pure fra le nazioni, io li metterò insieme e fra poco cesseranno di eleggersi re e governanti. Efraim ha moltiplicato gli altari, ma gli altari sono diventati per lui un’occasione di peccato. Ho scritto numerose leggi per lui, ma esse sono considerate come una cosa straniera. Essi offrono sacrifici e ne mangiano le carni, ma il Signore non li gradisce; si ricorderà della loro iniquità e punirà i loro peccati: dovranno tornare in Egitto. Israele ha dimenticato il suo creatore, si è costruito palazzi; Giuda ha moltiplicato le sue fortezze. Ma io manderò il fuoco sulle loro città e divorerà le loro cittadelle.” (Os 8).

 

Isaia (VIII sec. a.C.) addirittura paragona i capi di Israele ai capi di Sodoma e Gomorra.

“Udite, cieli; ascolta, terra, perché il Signore dice: « Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende ». Guai, gente peccatrice, popolo carico di iniquità! Razza di scellerati, figli corrotti! Hanno abbandonato il Signore, hanno disprezzato il Santo di Israele, si sono voltati indietro; perché volete ancora essere colpiti, accumulando ribellioni? La testa è tutta malata, tutto il cuore langue. Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è in esso una parte illesa, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite, né fasciate, né curate con olio. Il vostro paese è devastato, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri; è una desolazione come Sòdoma distrutta. È rimasta sola la figlia di Sion come una capanna in una vigna, come un casotto in un campo di cocomeri, come una città assediata. Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato un resto, già saremmo come Sòdoma, simili a Gomorra. Udite la parola del Signore, voi capi di Sòdoma; ascoltate la dottrina del nostro Dio, popolo di Gomorra!” (Is. 1,2-9).

 

Se ci sono due città che nella tradizione biblica sono considerate negativamente, queste sono Sodoma e Gomorra, distrutte da Dio per il loro essere peccaminoso.

“«Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?» dice il Signore. « Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli.” (Is. 1,11-14).

 

E’ una questione molto seria, perché anche noi a volte facciamo dei riti o delle preghiere pensando che a Dio piacciano e magari non le sopporta. E’ la discrepanza tra Dio e la comunità che si rivolge a Lui: siamo sicuri che non si sia stancato di certe pratiche religiose che facciamo anche oggi?

“Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova ». « Su, venite e discutiamo » dice il Signore. « Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana.” (Is. 1,15-18).

 

Lo stesso tenore lo ritroviamo in ambito sapienziale, dove si sottolinea l’ascolto e la messa in pratica: “Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. Allora ho detto: « Ecco, io vengo, Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore ».” (Sal. 40,7-9).

“Ascolta, popolo mio, voglio parlare, testimonierò contro di te, Israele: Io sono Dio, il tuo Dio. Non ti rimprovero per i tuoi sacrifici; i tuoi olocausti mi stanno sempre davanti. Non prenderò giovenchi dalla tua casa, né capri dai tuoi recinti. Sono mie tutte le bestie della foresta, animali a migliaia sui monti.” (Sal. 50,7-10). E’ tutto di Dio, cosa mai vogliono dare di più i suoi adoratori?

“Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode; poiché non gradisci il sacrificio e , se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi.” (Sal. 51,17-19). A Dio interessa lo spirito e il cuore dell’uomo, non olocausti e sacrifici.

“Loderò il nome di Dio con il canto, lo esalterò con azioni di grazie, che il Signore gradirà più dei tori, più dei giovenchi con corna e unghie.” (Sal. 69,31-32).

 

E ancora Osea: “poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti.” (Os. 6,6).

Nel Vangelo di Matteo, Gesù riprenderà due volte questo passo di Osea: “Misericordia io voglio e non sacrificio.” (Mt. 9,13; Mt. 12,7). Questi versetti sapienziali e dei profeti saranno ripresi anche dalle prime comunità cristiane: la linea del Gesù storico sarà anche la linea dei suoi discepoli.

 

La comunità-tempio sostituisce il Tempio
Cosa stava avvenendo a Qumran? Lì c’era una comunità, contraria alla teologia del Tempo di Gerusalemme, che ha elaborato un’idea nuova. Mentre a Gerusalemme i sacerdoti diventano tali per appartenenza tribale (levita), qui è la stessa comunità di Qumran che si considera il vero santuario di Dio.

A Qumran troviamo scritto: la comunità di Qumran è “casa santa per Israele, convegno del Santo dei Santi per Aronne”. Non ci sono più tribù sacerdotali, per questo motivo è la stessa comunità ad essere sacerdotale. Nonostante quest’aspetto in comune con le prime comunità cristiane, ci sono delle profonde differenze con esse.

Ma l’idea della comunità-tempio che nasce anche a Qumran preparerà il terreno a quell’immagine di comunità cristiana come tempio dello Spirito che troviamo nelle Lettere di Paolo.

C’è quindi l’eco di Qumran nei primi scritti cristiani, quando affermano che “siamo noi il tempio di Dio”.

“Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.” (1Cor. 3,16-17). Si sente l’eco della teologia qumranica.

E ancora:”O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1Cor. 6,19).

“Quale accordo tra il tempio di Dio e gli idoli? Noi siamo infatti tempio di Dio vivente, come Dio stesso ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo.” (2Cor. 6,16).

“Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito.” (Ef. 2,18-22).

“Ti scrivo tutto questo, nella speranza di venire presto da te; ma se dovessi tardare, voglio che tu sappia come comportati nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità.” (Tim. 3,14-15).

Sembra di risentire Gesù quando, davanti al tempio, affermava “Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta” (Lc. 21,6).

Come si nota il termine tempio è ancora usato, ma è cambiato radicalmente: il tempio non è quello di Gerusalemme, ma è la comunità. Per cui non esistono funzioni di intermediazione tra la comunità e Dio: la comunità nella sua interezza sarà sacerdote regale. Molto cambierà poi, nel giro di due secoli.

 

Il nuovo sacrificio è l’insegnamento della Parola
Come il tempio, anche il sacrificio dovrà essere profondamente diverso.

A Qumran c’era scritto: “il tributo delle labbra sarà come un gradito odore di giustizia, e la sua via perfetta sarà come l’offerta spontanea di una gradevole oblazione”. A Qumran capiscono che il sacrificio non sarà più quello dei capri, ma sarà quello della Parola.

Nella Lettera agli Ebrei si capisce il profondo legame con la comunità di Qumran: “Per mezzo di lui dunque offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome. Non scordatevi della beneficenza e di far parte dei vostri beni agli altri, perché di tali sacrifici il Signore si compiace.” (Eb. 13,15-16).

Il sacrificio qui è la Parola e la Vita, non un rito sacro. Il termine sacrificio (come quello di tempio) viene mantenuto, ma con un altro significato. Questo vale anche per la pasqua: i Vangeli parlano della pasqua dei Giudei e non dicono mai che Gesù abbia mangiato la pasqua in modo regolare, secondo le prescrizioni (ciò significa che hanno preso posizione su quel tipo di sacrificio pasquale). Quando scrivono della pasqua di Gesù sottolineano un distacco dalla teologia pasquale precedente.

D’altra parte Gesù è stato fortemente critico con il sacerdozio del tempio; la stessa decisione di eliminare Gesù è stata presa nel tempio; per ben sei volte i vangeli riportano le minacce di distruzione del tempio da parte di Gesù: “Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo” (Mc. 14,58).

Oltre tre decenni dopo, Giovanni scriverà nel suo Vangelo: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere. Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.” (Gv. 2,19-22).

Giovanni, rispetto a Marco, aggiunge una specificazione: il nuovo tempio che verrà ricostruito è il corpo di Gesù. Ciò significa che nelle comunità cristiane di fine secolo è cambiata la liturgia e il concetto di tempio, come l’importanza acquisita dalla fractio panis che in quel tempo si celebrava nelle case.

Riusciamo così a capire meglio l’espressione “ogni giorno Gesù insegnava nel tempio”, che troviamo numerose volte nei Vangeli: le comunità delle origini capiscono che il nuovo sacrificio è l’insegnamento. L’insegnamento prende il posto di vitelli, capri e sangue.

La Parola di Gesù diventa il cuore del nuovo culto. Gesù crocifisso diventa la nuova Parola di Dio, vale a dire il cuore del culto cristiano. Questo l’aveva già capito Paolo, a metà anni 50, quando scriveva “noi predichiamo Cristo crocifisso” (1Cor. 1,23).

Oltre 40 anni dopo, Giovanni scriverà nell’ambito della crocifissione: I sommi sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: « Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei ». Rispose Pilato: « Ciò che ho scritto, scritto rimane/resta » (Gv. 19,21-22). Nel mondo ebraico quando si dice “ sta scritto” ci si riferisce sempre alla sacra Scrittura. Anche per Giovanni quindi la nuova Bibbia è Gesù in croce, cioè la predicazione/vita di Gesù: Gesù predica, la comunità cristiana predica. Ecco il cambiamento.

Se il sacrificio è la predicazione, ci si chiede: chi è il soggetto sacrificato? I popoli che a questa parola vengono conquistati. E così è proprio cambiato tutto.

La comunità dei discepoli di Gesù, alla fine del primo secolo, si auto-comprende in tal modo. Non è stato facile questo passaggio, ma la comunità cristiana, rispetto ai giudei e ai pagani, ne esce con qualcosa di diverso.

Quando il sommo sacerdote interroga Gesù, a riguardo della sua dottrina e dei suoi discepoli, Lui risponde: “Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto.” (Gv. 18,20-21).

Ecco l’insegnamento: essi sanno che cosa Gesù ha detto e ,attraverso loro, l’insegnamento della Parola può continuare. “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me;” (Gv. 17,20).

Sempre in Giovanni troviamo l’episodio della samaritana, a cui Gesù dirà: “Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv. 4,23-24).

Dio è spirito: significa che Dio è perenne comunicazione di vita e quelli che lo adorano lo devono adorare nello stesso modo. L’adorazione qui non è l’atto di prostrazione, ma l’esperienza di continuarne la storia: se questo Padre è il Dio che comunica vita, Dio vuole che altri comunichino vita come Lui.

Gli evangelisti instaurano un legame tra il culto che si svolgeva nelle comunità delle origini e lo stile di vita di Gesù, come dire che quel culto è il culto voluto da Gesù.Ecco perché ci sarà una rottura con il sacerdozio, il discorso della purità, il tempio, eccetera; perché gli evangelisti scriveranno che “nessuno mette vino nuovo in otri vecchi.” (Lc. 5,37; Mt. 9,17; Mc. 2,22).

Sulla diatriba puro-impuro tra Gesù e l’istituzione religiosa, il biblista E. Kasemann afferma: “chi nega che l’impurità entri dall’esterno nell’essere umano, respinge le premesse e i principi su cui si basano la Torah e lo stesso Mosè, e respinge inoltre l’intero culto antico con la sua prassi sacrificale e penitenziale”.

Gesù stesso aveva sostenuto che “Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo!” (Mt. 15.11). Negare quest’affermazione significa anche negare tutta la Torah.

A contribuire a tutto questo, probabilmente pesava l’immagine (che aveva anche Gesù) dell’imminente irruzione del regno dei cieli. Nei vangeli sinottici, Gesù dice “in verità vi dico, vi sono alcuni qui presenti che non moriranno, prima di aver visto il regno di Dio che viene con potenza” (Mc. 9,1).

Quando col passar del tempo, l’imminenza della fine svanisce e subentra la consapevolezza che la storia proseguirà, la necessità è quella di costruire delle strutture che diano stabilità nel tempo. “Ma voi non fatevi chiamare ” rabbì “, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno ” padre ” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare ” maestri “, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo.” (Mt. 23,8-10).

Con l’imminenza della fine non servono strutture, col protrarsi della fine si creano le strutture, e quindi i ruoli: Matteo si rende conto di questo e ricorda le parole di Gesù.

Secondo Paolo, infine, il sacerdote è colui che proclama con le parole e con la vita il messaggio di Gesù: “Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo” (Rom. 1,9). E questo lo fa tutta la comunità.

Quindi: non sacerdote di chi sa quale altro culto al tempio, ma proclamatore con la parola e con la vita del vangelo di Gesù Cristo.

Paolo usa lo stesso termine “latreuo” che la LXX e il N. T. utilizzano per indicare il culto giudaico del tempio.

Rom. 15, 16: “Di essere un ministro (=leitourgon) di Gesù Cristo tra i pagani, esercitando l’ufficio sacro (=ierourgounta – esercitando il sacerdozio) del vangelo di Dio perché i pagani (=ton ethnon) divengano una offerta/oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo”.

Il servizio sacro è l’annuncio del vangelo. Il sacrificio/offerta sono i popoli conquistati al vangelo.

 

 

11.  Le questioni affrontate dalle comunità ecclesiali nel III secolo
Aspetti ecclesiali e culturali attorno al 200
Ignazio di Antiochia (fine I – inizio II sec.) aveva focalizzato il ruolo centrale del vescovo (episcopo). L’eucarestia aveva messo il vescovo in una situazione particolare, essendo diventata sempre più importante. Nei testi di Ignazio, eucarestia e vescovo si fondono in una profonda unità. Il vescovo diventa il garante dell’unità della comunità: la comunità cristiana si trova unita attorno alla sua figura (vescovo come principio visibile della Chiesa). Questa unità comunitaria viene significata e realizzata dalla e nella eucarestia (così com’è ancora oggi).

Dalla sua Lettera ai cristiani di Filadelfia: “Preoccupatevi di attendere ad una sola eucarestia. Una è la carne di nostro Signore Gesù Cristo e uno il calice dell’unità del suo sangue, uno è l’altare come uno solo è il vescovo con il presbiterato e i diaconi miei conservi. Se ciò farete, lo farete secondo Dio.” Solo più tardi ci saranno più eucarestie, quando cominceranno ad aderire i fedeli della campagna: ma sarà sempre il vescovo, in nome dell’unità comunitaria ed eucaristica, a delegare espressamente dei presbiteri per svolgere questo compito. Per Ignazio questa unità significa, sostanzialmente, uniformità.

Dalla sua Lettera ai cristiani di Smirne (anni 107-110): “Come Gesù Cristo segue il Padre, seguite tutti il vescovo e i presbiteri come gli apostoli; venerate i diaconi come la legge di Dio. Nessuno senza il vescovo faccia qualche cosa che concerne la Chiesa. Sia ritenuta valida l’eucaristia che si fa dal vescovo o da chi è da lui delegato. Dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c’è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica. Senza il vescovo non è lecito né battezzare né fare l’agape; quello che egli approva è gradito a Dio, perché tutto ciò che si fa sia legittimo e sicuro.”

L’agape consisteva nella cena comune, con all’interno la fractio panis. In questi testi di Ignazio non si parla di ordinazione (episcopale e presbiterale) e nemmeno di uno stato laicale o ecclesiastico. Siamo ancora agli inizi.

Anche Ireneo di Lione (130-202) riteneva che i vescovi non avessero uno speciale carattere sacramentale rispetto agli altri cristiani; e nemmeno pensava ad una diversificazione tra laici e clero. Nulla di strutturato sul piano ecclesiastico, però l’aver usato una certa terminologia, aveva in un certo senso aperto un cammino, e nel III secolo qualcosa comincia a cambiare. Tertulliano (155-220) e Cipriano (200-258) daranno indicazioni per Cartagine, Ippolito (170-235) per Roma, Clemente (150-215) e Origene (185-254) per Alessandria d’Egitto.

Breve digressione sulla questione del velo per le donne nelle comunità cristiane.

Clemente alessandrino, che svolge un ruolo di collegamento tra mondo biblico e il mondo greco, scrive attorno al 190 un saggio dal titolo “Pedagogo”. Il pedagogo in questione è Gesù. “Il vestito serve per proteggersi dal freddo e dal caldo, sia per gli uomini che per le donne. Se dunque è questo lo scopo del vestito, bada che non si stabilisca uno per gli uomini e uno diverso per le donne, poiché entrambi hanno in comune il doversi coprire, allo stesso modo che il mangiare e il bere. E’ ora di smetterla, gli uomini non possono seguire questa moda asianista: gli uomini del mondo asiatico utilizzano seta, strascichi, turbanti. Per le donne non va bene che l’abito giunga fin sopra il ginocchio, come si dice fosse costume delle ragazze spartane; non è decoroso per una donna scoprire una qualunque parte del suo corpo, Alle donne è fatto divieto non solamente di lasciare scoperte le caviglie, ma è prescritto che si coprano e si avvolgano il capo e si velino il volto; non è infatti conforme alla legge di dio che la bellezza del corpo diventi un’esca per catturare gli uomini, né è conforme al Logos che una donna porti un velo di porpora per attirare gli sguardi: se di queste donne si mettesse in vendita il corpo non si troverebbe chi lo pagherebbe più di mille dracme attiche, mentre loro acquistano un solo vestito per 10.000 dracme, dando prova così di essere esse stesse meno utili e preziose delle stoffe”.

Tertulliano, influenzato dal montanismo, scrive verso il 210 un testo dal titolo “Il velo delle vergini”. “Se la donna è stata fatta dall’uomo e per l’uomo, fu prima di tutto vergine; che tu sia madre o sorella o figlia, vela il capo; madre per i figli, sorella per i fratelli, figlia per i padri, tutte le età in te corrono pericolo. Sappiano le donne che ogni parte della loro testa è femminile, che i margini e le estremità della loro testa si estendono fin dove inizia l’abito e che il dominio del velo si estende a tutto quanto i capelli sciolti possono coprire, comprendendo quindi anche la nuca. Donna, indossa l’armatura del pudore, circonda la fortezza della verecondia, costruisci il muro a difesa del tuo sesso, perché non lasci uscire i tuoi sguardi e non lasci entrare quelli degli altri. Indossa la tenuta integrale di donna per servire lo statuto di vergine. Dissimula qualcosa di ciò che hai dentro per eseguire la verità solo a Dio. Proprio la nuca è la parte che dev’essere sottomessa, è a causa sua deve esserci sul capo delle donne un segno di dominio. Il velo è il loro giogo.”

Qui il coprirsi non è per nascondere qualcosa, ma atto di sottomissione. E mancano ancora quattro secoli perché arrivi l’Islam. Ed erano passati solo 180 anni da quel Gesù che aveva sempre e soltanto citato, per il rapporto uomo-donna, la versione del primo capitolo di Genesi, quella che mette maschio e femmina sullo stesso piano. Si avverte comunque l’impostazione legalista e non teologica di Tertulliano (di mestiere faceva l’avvocato).

 

 

Il vescovo nel Nuovo Testamento
Il termine vescovo è un titolo assolutamente profano. Non esiste nell’Antico Testamento e compare solo 5 volte nel Nuovo.

La migliore traduzione di episcopos è quella di sorvegliante. A quali sorveglianti ci si riferisce? Agli ispettori dello Stato, i sorveglianti delle città, quelli dei sottoposti, quelli degli schiavi, quelli dei lavori di costruzione edile, gli impiegati delle comunità religiose in quanto amministratori dei loro beni, gli ispettori dei mercati, in certi casi anche i predicatori itineranti, le divinità pagane che avevano assunto il ruolo di protettori (di uomini, di città, di alleanze)?

Come mai le comunità cristiane cominciano a utilizzare il termine episcopo, cioè vescovo? Lo prendono da questo mondo pagano? No, però non lo sappiamo. Sta il fatto che un termine così ambiguo, per origine e significato, diventerà fondamentale nella tradizione cristiana. Allo stesso modo, altre parole di incerta origine entreranno nel linguaggio delle prime comunità (pensiamo ad agape, usato una sola volta nella letteratura greca classica).

Una volta il termine episcopo è riferito direttamente a Gesù, mentre le altre quattro volte è riferito a uomini che svolgono una funzione o ricoprono un ruolo all’interno della comunità cristiana.

Nei Vangeli il termine “vescovo” non compare, una sola volta in Atti.

“Eravate erranti come pecore ma ora siete tornati al pastore, e guardiano delle vostre anime.” (1Pt. 2,25b). Il guardiano (il termine usato è episcopos) in questione è Gesù.

In Atti troviamo Paolo che sta salutando i presbiteri di Efeso: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue” (At. 20,28): qui è da intendere “sorveglianti”.

Paolo chiama vescovi i presbiteri: non si tratta però di uno status, di un’ordinazione ad personam o di un ruolo specifico, ma di un compito che hanno i presbiteri stessi.

E’ importante cogliere il giusto significato del termine, perché nel corso dei secoli il vescovo è diventato il successore degli apostoli, come il vescovo di Roma è diventato il successore di Pietro.

La Lettera ai Filippesi di Paolo è forse il testo più antico (siamo alla metà del I secolo) in cui compare la parola episcopos, unita però al termine diakonos. E’ il saluto iniziale di Paolo ai fedeli della Chiesa di Filippi: “Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù, a tutti i santi in Cristo Gesù che sono a Filippi, con i vescovi e i diaconi.” (Fil. 1,1).

La lettera è rivolta a tutti i santi con i sorveglianti e i servitori: i sorveglianti in questione sono i presbiteri di Filippi.

“Questa parola è degna di fede: se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro. Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia guidare bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi e rispettosi, perché, se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Inoltre non sia un convertito da poco tempo, perché, accecato dall’orgoglio, non cada nella stessa condanna del diavolo. È necessario che egli goda buona stima presso quelli che sono fuori della comunità, per non cadere in discredito e nelle insidie del demonio.” (1Tim. 3,1-7).

Di queste indicazioni di Paolo nel corso della storia se ne è tenuto conto sì e no: pensiamo a Cipriano e Ambrogio che erano neofiti, cioè convertiti da poco. Si capisce che il vescovo non può essere un predicatore itinerante, se deve saper guidare la propria comunità e godere di buona stima presso la società civile: deve essere stabile nella propria comunità e scelto da essa.

“Il vescovo infatti, come amministratore di Dio, deve essere irreprensibile: non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, pio, padrone di sé, attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmesso, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono.” (Tito 1,7-9).

Anche in questo caso episcopo equivale a presbitero, che ha il compito di presiedere la Chiesa locale, per esserne il riferimento a livello di unità (anche sul piano della dottrina e della trasmissione).

In sintesi, dalle citazioni neotestamentarie, l’episcopo non è altro che il presbitero o semplicemente il capo di una comunità o chi la presiede sul piano organizzativo. Nulla cambia se questo compito episcopale viene svolto da una donna.

Non c’è alcuna distinzione gerarchica in quello che abbiamo visto e nemmeno la designazione sicura di una funzione: è soltanto un fedele con compiti di presidenza, non una funzione particolare (es. dare incarichi ad altri).

La stranezza è che un termine ambiguo nei suoi significati e nell’utilizzo che ne è stato fatto, poco significativo e di dubbia provenienza, diventerà importantissimo nella struttura ecclesiale. Qualcosa inizia dopo l’epoca apostolica ma, a partire dalla metà del III secolo, comincia un processo di specificazione dei ruoli all’interno della Chiesa: nello specificare i ruoli ci si separa all’interno della comunità, creando degli stati particolari separati. Si tratta di un percorso di clericalizzazione, che porterà al male più grande della Chiesa, cioè al divorzio tra mondo del clero e mondo dei laici. Ci vorrà il Concilio Vaticano II per recuperare (dopo 1700 anni) il sacerdozio universale dei credenti.

 

 

I rapporti all’interno del clero nella “Traditio apostolica”
Ippolito (170-235) scrive a Roma, attorno al 215, la “Traditio apostolica” (la consegna degli apostoli); probabilmente si tratta di un’aggregazione di materiale proveniente da differenti fonti. Questo è un testo importante perché esprime la teologia di Roma; c’è però anche una versione etiope, dell’Africa nord orientale, che manifesta la teologia di Alessandria.

 

A proposito della preparazione al battesimo: “Quando I’istruttore ha terminato il suo insegnamento, i catecumeni pregano separatamente dai fedeli. Le donne occupano un posto a parte nell’assemblea sia che si tratti di fedeli o di catecumeni. Quando i catecumeni hanno finito di pregare, non si danno il bacio di pace, perché il loro bacio non è ancora puro. I fedeli si scambiano il bacio di pace, gli uomini tra loro, le donne tra loro. Gli uomini non debbono dare il bacio alle donne. Tutte le donne debbono coprirsi il capo con il pallium, ma non con un panno di lino che non è sufficiente per coprirle.”

 

Preghiera di consacrazione del vescovo, dove il termine ordinazione non ha lo stesso significato che avrà in seguito. “Sia ordinato vescovo colui che è stato scelto da tutto il popolo, purché sia irreprensibile.” Se il compito di questo vescovo è quello di governare tutto il popolo della Chiesa locale è giusto che sia tutto il popolo ad eleggerlo.

“Si farà il nome del prescelto e, se esso incontrerà unanimità di consensi, si riuniranno, di domenica, il popolo, il collegio dei presbiteri e i vescovi presenti.” Come si nota, se negli scritti neotestamentari vescovo e presbitero erano la stessa figura, qui sono presentati con due ruoli diversi. “Questi ultimi (i vescovi), con consenso di tutti, impongano le mani sull’eletto, mentre i presbiteri assistano senza far nulla.”

L’imposizione delle mani, nella cultura del tempo, significava assegnare un incarico (da parte degli altri vescovi presenti): non quindi un’ordinazione vera e propria, ma un incarico.

 

“Tutti tacciano, ma preghino in cuor loro per la discesa dello Spirito Santo. Poi uno dei vescovi presenti, a richiesta di tutti, imponga la mano su colui che riceve l’ordinazione episcopale e preghi dicendo: … Concedi, Padre che conosci i cuori, a questo servo che hai scelto per l’episcopato, di pascolare il tuo santo gregge, di esercitare, in maniera irreprensibile e in tuo onore, la massima dignità sacerdotale stando al tuo servizio giorno e notte, di rendere il tuo volto incessantemente propizio, di offrirti i doni della tua santa Chiesa, di avere, in virtù dello Spirito del sommo sacerdozio, il potere di rimettere i peccati secondo il tuo comando, di distribuire i compiti secondo la tua volontà e di sciogliere ogni legame in virtù del potere che hai dato agli apostoli,”: parlare in questi termini significa affermare che il vescovo è il sommo sacerdote. Ma secondo la Lettera agli Ebrei, sommo sacerdote è solo e unicamente Gesù. Ecco che un po’ alla volta le cose cominciano a cambiare. “Dopo che è stato ordinato vescovo, tutti lo salutino e gli diano il bacio della pace, poiché ne è diventato degno. I diaconi gli porgano l’offerta ed egli, imponendo su di essa le mani insieme con tutti i presbiteri, renda grazie dicendo: «Il Signore sia con voi». Tutti rispondano: «E con il tuo spirito». «In alto i cuori». «Li teniamo rivolti al Signore». «Ringraziamo il Signore». «È cosa degna e giusta».” Come si vede sono formule che ancor oggi si recitano, dopo 1800 anni e che nascono  dopo soli due secoli da Gesù.

 

Ippolito descrive anche l’ordinazione dei preti: “Quando si ordina un presbitero, il vescovo gli imponga la mano sul capo, imitato dai presbiteri, e preghi nel modo che abbiamo detto a proposito dell’ordinazione del vescovo, dicendo: «Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, volgi lo sguardo su questo servo qui presente ed infondigli spirito di grazia e di saggezza sacerdotale, affinché aiuti e governi il popolo con cuore puro, come volgesti lo sguardo sul popolo da Te eletto e ordinasti a Mosè di scegliere dei presbiteri che riempisti dello stesso spirito che avevi donato al tuo servo.” Qui c’è il parallelo con i 70 presbiteri ordinati da Mosè.

 

Poi anche l’ordinazione dei diaconi: “Quando si ordina un diacono, lo si scelga nel modo già detto, ma solo il vescovo gli imponga le mani. Nell’ordinazione del diacono imponga le mani solo il vescovo proprio perché il diacono viene ordinato non al sacerdozio, ma al servizio del vescovo con il compito di eseguirne gli ordini. Difatti egli non prende parte al consiglio dei presbiteri, ma amministra e segnala al vescovo ciò che è necessario, né riceve lo spirito comune di cui tutti i presbiteri partecipano, ma quello che gli è conferito per potere del vescovo. Per questo soltanto il vescovo ordini il diacono. Sul presbitero devono imporre le mani anche i presbiteri perché godono anch’essi del comune e simile spirito sacerdotale. Infatti il presbitero ha il potere di ricevere, ma non di dare questo spirito, perciò non ordina il clero, ma, nell’ordinazione del presbitero, non fa che esprimere la sua approvazione mentre è il vescovo che ordina.”

 

Il vescovo ordina il diacono, il prete approva. Ricapitolando, il vescovo comincia a dare ordini ai suoi sottoposti (i diaconi), il presbitero (cioè il prete) è già una carica, i diaconi sono privi dello spirito sacerdotale.

 

“Ordinando il diacono, il vescovo dica così: «Dio, che hai creato tutte le cose e le hai ordinate mediante il Verbo, Padre di nostro Signore Gesù Cristo, che hai inviato perché eseguisse la tua volontà e manifestasse a noi la tua intenzione, concedi il santo spirito della grazia, dello zelo e della diligenza al tuo servo qui presente, che hai scelto affinché sia al servizio della tua Chiesa e porti nel tuo santuario ciò che viene offerto da colui che è stato stabilito tuo sommo presbitero a gloria del tuo nome, affinché, adempiendo il suo compito in modo irreprensibile e con purezza di vita, sia degno di conseguire un grado più elevato e ti lodi e glorifichi per il tuo figlio Gesù Cristo nostro Signore, per il quale hai, con lo Spirito Santo, gloria, potenza e lode nei secoli dei secoli. Amen».”

 

Come si nota nella Traditio Apostolica, il vescovo è sommo sacerdote, pastore, dottore, responsabile per le decisioni della comunità, circondato dal collegio dei presbiteri. Vescovo, presbiteri e diaconi compongono il clero (solo uomini).

Il clero fa parte di un “ordo” (ordine), di cui fanno parte anche le vedove.

 

Ci sono pure le figure del suddiacono e del lettore: “Non si imponga la mano sul suddiacono, ma lo si nomini perché sia al servizio del diacono. Egli effettuerà il lavaggio per il vescovo. Il lettore viene istituito nell’atto in cui il vescovo gli consegna il libro: non gli si fa, infatti, l’imposizione delle mani.”

 

C’è anche la vedova, che assume un ruolo nella comunità ecclesiale non per una sua capacità particolare, ma per il fatto di aver perso il marito da tanto tempo: “Quando si istituisce una vedova, questa non riceva un’ordinazione, ma solo il titolo. L’istituzione avvenga se la donna ha perduto il marito da molto tempo; ma se da poco, non si abbia fiducia in lei. Se la donna è attempata, la si tenga in prova per qualche tempo, poiché spesso le passioni invecchiano insieme con colui che fa loro posto nel proprio intimo. La vedova venga istituita con la sola parola e poi venga unita alle altre. Non le si faccia l’imposizione, in quanto ella non fa l’offerta né assume alcun compito liturgico. Del resto, l’ordinazione è limitata al clero che svolge un ufficio liturgico, mentre la vedova è istituita per la preghiera che è dovere di tutti.”

Nasce così l’Ordo Viduarum (l’ordine vedovile), ma senza compiti precisi.

 

Nella Traditio Apostolica troviamo indicazioni anche sul battesimo, sulla confermazione, sulla prima comunione dei battezzati, sulla comunione domenicale: “La domenica il vescovo, se può, distribuisca personalmente a tutto il popolo, mentre i diaconi lo spezzino. Anche i presbiteri spezzeranno il pane. Quando il diacono porgerà il pane al presbitero, lo porga su di un piatto, e il presbitero prenda il pane e lo distribuisca di sua mano al popolo. Gli altri giorni si faccia la comunione secondo le istruzioni date dal vescovo.”

“Ogni fedele, prima di toccare cibo, si affretti a ricevere l’eucaristia. Se la riceve con fede, qualunque cosa mortale gli si dia non potrà nuocergli. Tutti stiano attenti affinché non gusti dell’eucaristia un infedele o un topo o altro animale, né parte di essa cada o vada perduta. Il corpo di Cristo, difatti, deve essere mangiato dai fedeli e non deve essere disprezzato. Benedicendo il calice, lo hai ricevuto in nome di Dio come simbolo del sangue di Cristo: perciò non versarne ed evita che uno spirito maligno lo lecchi, come se tu lo disprezzassi. Sarai tu responsabile del sangue, poiché avrai disprezzato il prezzo a costo del quale è stato comprato.”

 

Anche il segno della croce viene definito: “Se sei tentato, segnati devotamente la fronte. Difatti, questo è il segno della passione, noto e sperimentato contro il diavolo se lo fai con fede, cioè non per farti vedere dagli uomini, ma opponendolo saggiamente come uno scudo … E in verità, segnandoci con la mano la fronte e gli occhi, allontaniamo colui che tenta di annientarci.”

 

 

Il ruolo della liturgia e l’impronta di Tertulliano sull’eucarestia
Ciò che comincia a separare il clero dai laici è la celebrazione liturgica. La liturgia diventa uno strumento di separazione tra clero e laici. Per svolgerla è richiesto un mandato attraverso l’imposizione delle mani: alcuni lo ricevono altri no. Tale mandato è diverso da quello che si farà strada a partire dal V secolo e che porterà all’odierno concetto di ordinazione: nel III secolo troviamo ancora un mandato, un incarico, non è ad personam che resta per tutta la vita e non è un sacramento, ma il conferimento di un ufficio e vale finché dura il ministero.

L’istituzione di un sacerdozio compare nel momento in cui l’eucarestia da cena di Gesù con i suoi discepoli diventa memoria per ricordare la sua passione e la sua morte. Questa tendenza inizia a farsi strada dal II secolo, quando, con Ignazio e altri, emerge  l’idea di sacrificio.

 

Tertulliano di Cartagine (155-220) ha scritto un trattato sul battesimo e uno sulla penitenza, ma non ha mai scritto un testo sull’eucarestia. Come mai il vocabolario più utilizzato sull’eucarestia proviene da Tertulliano? E’ lui che per la prima volta parla di sacramento dell’eucarestia. Chi deve presiederla? Gli anziani-presbiteri che hanno dato buona prova di sé.

Per Tertulliano, essa è presenza reale di Cristo, ma anche vero sacrificio. Per altri è presenza reale di Cristo, ma non vero sacrificio. Da sempre la Chiesa ha considerato la presenza reale di Cristo nell’eucarestia, ma non ha mai toccato le modalità di tale presenza. Non importa come sia presente. Ma è presente con le sue parole, le sue scelte, la sua vita.

Se con l’inizio del III secolo l’eucarestia richiama l’offerta del sacrificio di Gesù allora si rende necessario un sacerdote di turno. È l’eucarestia che cambia l’assetto ecclesiale e l’idea di culto: in essa è presente Gesù, richiama il sacrificio, bisogna abilitare qualcuno (un sacerdote) per compiere il rito e  il sacerdote così acquista uno status del tutto particolare. Chi occuperà quel ruolo?

Episcopo e presbitero però sono ancora (in quest’epoca) ministeri e non stati particolari.

 

 

Cipriano e l’unità della Chiesa fondata su Pietro
Cipriano, vescovo di Cartagine dal 247 al 258, si era scontrato con la comunità di Roma sul ruolo del vescovo, pur ritenendola inizialmente centrale per la Chiesa.

Cipriano si trova ad affrontare la questione dei lapsi (cioè scivolati), visto che si era trovato a vivere nel periodo della più grande persecuzione in cui i cristiani si erano trovati (con probabilità): la persecuzione di Decio, che aveva interessato tutto l’impero. Siamo nel periodo 249-251.

Alcune persone rifiutano di sacrificare all’imperatore, perdendo così la vita; altre per non morire sacrificano (i lapsi), pur mantenendo la propria fede. Finita la persecuzione, queste ultime chiedono di essere riammesse nella Chiesa. Ci sono alcuni vescovi, come Feliciano, che erano disposti al rientro senza alcun gesto penitenziale; altri propensi ad un minimo di penitenza; altri ancora che escludevano il rientro nella comunità; altri invece pensavano che era necessario un secondo battesimo; altri infine richiedevano un lungo percorso penitenziale. La questione dei lapsi creerà una divisione all’interno della Chiesa, tra la parte intollerante e quella indulgente. Alla fine viene deciso: non un secondo battesimo, poiché una volta dato questo resta per sempre, ma un percorso penitenziale.

Cipriano, durante la persecuzione di Decio, era scappato da Cartagine, in quanto ”se viene ucciso il pastore il gregge si disperde”. Finita la persecuzione può tornare dalla clandestinità e riprendere il suo ruolo. Ma nella tribolazione successiva, quella dell’imperatore Valeriano, Cipriano viene prima esiliato e in seguito arrestato e decapitato nel 258.

Attorno al 251 così scriveva nella “De catholicae Ecclesiae unitate” (sull’unità della Chiesa cattolica): la Chiesa è una, fondata su Pietro. “Se si considerano ed esaminano queste cose, non c’è bisogno di un lungo trattato. Per la fede la prova è facile e contenuta in un compendio di verità: il Signore parla a Pietro: «E io ti dico» dice «che tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa; e a te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche nei cieli»”. Questo testo, d’ora in poi, sarà fondamentale sempre. “Su uno edifica la Chiesa e, sebbene attribuisca uguale potere a tutti gli apostoli dopo la sua resurrezione e dica: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo. Se rimetterete i peccati di qualcuno, gli saranno rimessi; se non li rimetterete, resteranno non rimessi» tuttavia, al fine di rendere manifesta l’unità, con la sua autorità ne fissò l’origine come a partire da uno. Certamente anche gli altri apostoli erano ciò che fu Pietro, dotati di un comune e pari possesso di onore e potestà, ma l’inizio si ha dall’unità, affinché la Chiesa di Cristo fosse mostrata una.”

Poi prosegue con un’interpretazione allegorica: “Questa stessa Chiesa che anche nel Cantico dei Cantici lo Spirito Santo Signore indica e dice: «Una è la mia perfetta colomba, una è per sua madre, la preferita della sua genitrice». Chi non conserva quest’unità della Chiesa crede di mantenersi nella fede?”.

E quindi ribadisce l’idea che fuori dalla Chiesa non c’è salvezza: ciò che salva è l’appartenenza alla Chiesa cattolica, attraverso il battesimo (come confermerà il concilio di Firenze nel 1445).

“Colui che si oppone alla Chiesa e che le resiste, confida di poter essere nella Chiesa, quando anche il beato apostolo Paolo insegna la stessa dottrina e mostra il sacramento dell’unità dicendo: «Un solo corpo e un solo Spirito, una sola speranza nella vostra chiamata, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio»”.

Allo stesso Pietro, Gesù “dopo la resurrezione gli dice: «Pasci le mie pecorelle». Su di lui edifica la chiesa e a lui dà l’incarico di pascere le pecore e, sebbene attribuisca lo stesso potere a tutti gli apostoli, tuttavia costituì una sola cattedra e con la sua autorità fissò l’origine e il significato dell’unità. Certamente anche gli altri erano ciò che fu Pietro, ma il primato venne dato a Pietro e una sola chiesa ed una sola cattedra venne mostrata; e tutti sono pastori, ma unico è il gregge, che viene mostrato come accudito da tutti gli apostoli in unanime accordo. Chi non conserva questa unità presente in Pietro, crede di mantenersi nella fede? Chi abbandona la cattedra di Pietro, sul quale è fondata la Chiesa, confida di poter essere nella Chiesa?”

In questo testo di Cipriano (De catholicae Ecclesiae unitate, cap. IV), troviamo argomentazioni tenute in buona considerazione ancor oggi.

 

 

Una struttura ecclesiastica stabile, a partire dalla metà del III secolo
In un momento molto delicato per il cammino della Chiesa, Cipriano di Cartagine affronta anche le tematiche relative ai presbiteri e agli episcopi. Usa il termine “ordinare”, ma non nel senso sacramentale come noi lo intendiamo oggi. Comunque il suo pensiero, assieme a quello di altri autori del suo tempo, comincia ad apportare una modifica nelle strutture del clero.

Fino a una data epoca storica, il dottore (catechista-teologo) era un servizio svolto al di fuori del clero; ma, a partire dalla metà del III secolo, anche l’ufficio del dottore viene inserito nella gerarchia e viene sottomesso alla sorveglianza e al controllo del vescovo: si trattava di una struttura all’infuori del clero (totalmente laica) che ora viene inserita all’interno della gerarchia e quindi meglio sistemata nella comunità.

Sempre in quest’epoca, si avverte la scalata agli uffici superiori, passando da un ministero di livello più basso ad uno di livello più alto. Prima il ministero caratterizzava una persona per tutta la vita, da questo periodo in poi si può fare carriera, passando a cariche sempre più prestigiose: da lettore si poteva diventare accolito, poi diacono, poi presbitero, infine vescovo. Ci vorrà il Vaticano II per ricomprendere alcune di queste figure (ministeri laicali, lettorato/accolitato, che poi in concreto sono diventati propedeutici all’ordinazione presbiterale).

La carriera ecclesiastica iniziava dal gradino inferiore, per la giovane età-periodo di prova-livello salariale più basso, per ottenere in seguito, posizioni più autorevoli.

Non trascurabile era il fatto che ad ogni ministero era legata la retribuzione salariale: i compensi aumentavano col passaggio a cariche più prestigiose; presbiteri ed episcopi rientravano in un’alta fascia salariale. Cipriano vieta ai presbiteri di svolgere un altro lavoro, essendo questo un impiego a tempo pieno.

Durante il periodo della persecuzione di Decio, molti giovani cristiani (specie di Cartagine) avevano dato una forte testimonianza di fede, non rinunciando al proprio credo: verranno chiamati confessori della fede. Costoro furono nominati da Cipriano lettori, in attesa di diventare presbiteri col passare dell’età.

Cipriano in questo modo copiava le regole civili, che prevedevano passaggi di carriera col trascorrere degli anni. In una sua lettera al vescovo di Roma Cornelio così scrive: “Ciò che rende del tutto degno, presso Dio e Cristo e presso la sua Chiesa e tutti i sacerdoti, il nostro carissimo Cornelio, è il fatto che egli non sia arrivato alla carica episcopale direttamente, ma che vi sia giunto solo dopo aver salito tutta la trafila degli uffici ecclesiastici, rendendosi spesso benemerito nel servizio divino, giungendo all’episcopato passando per tutti i gradini.”

Questo non succederà né per Agostino né per Ambrogio, acclamati vescovi direttamente.

Non abbiamo informazioni precise sullo stipendio del vescovo, soltanto che doveva garantire una vita dignitosa. Paolo stesso sosteneva che per il lavoro che svolgeva (la predicazione del Vangelo) presso una comunità aveva il diritto ad essere mantenuto da essa, ma per evitare malintesi preferiva lavorare per mantenersi.

I soldi provenivano dalla comunità di riferimento, attraverso l’autotassazione. In seguito la Chiesa acquisirà delle eredità, per cui diventerà in parte autosufficiente: sarà il vescovo (nominato dalla comunità locale) ad amministrare un patrimonio sempre più grande.

La possibilità di passare da un ministero inferiore ad uno superiore introduce a livello ecclesiastico il carrierismo, la scalata verso il vertice, con l’inevitabile aumento della retribuzione (e quindi la sete di guadagno): nasce così nelle comunità cristiane l’ambizione, l’avidità, l’arrivismo.

 

Prima ognuno faceva il proprio lavoro e la domenica ci si trovava nelle case per la frazione del pane e per la cena. Chi svolgeva un ministero lo faceva accanto al proprio lavoro. Dalla metà del III secolo cambiano le cose: il ministero ecclesiastico diventa un lavoro a tutti gli effetti. Passata la persecuzione di Decio, si avverte la necessità di creare delle strutture per non correre il rischio, di fronte ad un’altra persecuzione, della dispersione delle comunità. Si individuano delle persone che in modo stabile costituiscono la struttura ecclesiale: saranno loro il riferimento ben visibile della comunità.

La Chiesa comincia a prendere come modello la struttura dello Stato.

 

 

Cipriano e l’affermazione del clero
In quest’epoca fa capolino il verbo ordinare, già usato nella struttura statale: era un termine tecnico che indicava l’insediamento al servizio dell’imperatore. Per Cipriano ordinare significava mettersi al servizio della gerarchia ecclesiastica.

All’interno del clero l’ordine gerarchico è diventato, a metà del III secolo, una istituzione fissa, sul modello odierno.

C’è diversità tra l’impostazione di Cipriano e quella di Ippolito (l’autore della “Traditio Apostolica”). Per Cipriano il vescovo diventa il sacerdote per eccellenza, il vicario di Cristo, in quanto assume il Suo ruolo. A chi dovrà rendere conto del suo operato il vescovo? A Dio e solo a Lui, perché ne è il vicario. Per il passaggio da vescovo di Roma a papa, in ambito contenutistico, occorrerà aspettare ancora qualche secolo, il Dictatus Papae di Gregorio VII (1075) e la Unam Sanctam Ecclesiam di Bonifacio VIII (1302).

L’idea che il vescovo risponda solo a Dio, non è attribuita da tutti gli studiosi a Cipriano.

Inizia a farsi strada anche l’idea che gli apostoli siano stati i primi vescovi e che i vescovi successivi non siano altro che i loro successori. Così come il futuro papa sarà il successore di Pietro. In sintesi, per i primi due secoli nella Chiesa non ci sono queste idee, ma poi compaiono: come mai? Una reazione alle persecuzioni di Decio? Possiamo considerare tali idee come tradizione ininterrotta? Possiamo dire che tale era la volontà di Gesù e che quindi sono di diritto divino (poiché appartengono alla volontà di Dio)?

Con Cipriano i presbiteri cominciano ad acquistare una maggiore autonomia: presiedono l’eucarestia in modo indipendente, mentre con Ignazio essa avveniva attorno al vescovo. Ora i cristiani si ritrovano anche nelle campagne e i vescovi non possono esserci dappertutto: devono quindi delegare i presbiteri in alcune loro funzioni, e non solo volta per volta ma per sempre.

Questi presbiteri vengono avvicinati al sacerdozio levitico del Tempio. Si tratta di un sacerdozio di serie B, in quanto quello di Aronne rimane ai vescovi. Resta quindi una distinzione di ruoli tra presbitero e vescovo.

Il vescovo distribuisce le parti (in greco kleroi) e i destinatari nel riceverle diventano clero: il termine κλῆρος (kleros, che ha vari significati) compare nel nuovo testamento 11 volte (4 volte nei Vangeli, 5 in Atti, 1 in Col e 1 in 1Pt), ma sempre come parte, come porzione. Di fronte all’ampliamento delle comunità, il vescovo distribuisce le parti di questa comunità e il destinatario diventa clero: chi ha ricevuto un ministero di gestione (cioè una parte) all’interno di una Chiesa locale (oggi sono le parrocchie) diventa in questo modo clero; tutti gli altri restano laici. Se qualche presbitero voleva operare in un’altra zona, doveva chiedere il consenso presentandosi con una lettera del proprio vescovo.

Anche gli accoliti e i lettori entrano a far parte del clero.

L’appartenenza al clero non dipende più dalla liturgia. Ci sono chierici che diventano tali in base all’attività liturgica che svolgono, mentre altri non hanno alcun compito liturgico, pur rivestendo semplicemente un ministero ecclesiastico.

Ecco che dalla metà del III secolo si fa strada una distanza tra popolo e clero, sulla falsa riga della struttura del Tempio. Anche architettonicamente si nota il divario: prima tutti si ritrovavano attorno ad una mensa all’interno di una struttura absidale, ora qui ci stanno solo i presbiteri (nasce il presbiterio) e la mensa diventa altare, mentre i laici vengono relegati in un’altra zona.

In un secondo momento il presbiterio viene rialzato e i fedeli rimangono nel piano inferiore con un ruolo del tutto passivo. Ovviamente nelle due parti dell’edificio si fanno due attività diverse.

Nei testi di Cipriano ricorre spesso quest’espressione: clero e plebe, dove plebe è il popolo cristiano e clero il gruppo dirigente ecclesiastico.

Incominciano a farsi strada atteggiamenti particolari: quando il vescovo o il presbitero entra in chiesa il popolo si deve alzare in piedi; di fatto si passa da un popolo sacerdotale a un popolo dei sacerdoti.

 

 

La Chiesa come imbarcazione nelle Pseudo-Clementine
Le Pseudo-Clementine sono forse il primo romanzo cristiano, frutto di un assemblaggio di più fonti diverse della prima metà del III secolo. Vi troviamo che Pietro trasmette a Clemente, suo successore, le indicazioni su come esercitare il proprio ministero di vescovo di Roma, sui doveri dei presbiteri, dei diaconi, dei catechisti e dei fedeli.

La Chiesa è vista come una barca, con Cristo come primo timoniere e con il vescovo come secondo timoniere, i presbiteri sono i marinai, i diaconi sono i capi della ciurma, i catechisti (cioè i dottori) sono gli ufficiali contabili, la massa dei fedeli sono i passeggeri. I fedeli non conducono la nave ma sono trasportati e affidati in tutto e per tutto alla capacità o all’incapacità dell’equipaggio.

Questa è un’idea di Chiesa fortemente clericale, arrivata fino a noi. Gesù non voleva che ci fossero, tra i suoi discepoli, classi o stati: “Voi siete tutti fratelli” (Mt. 23,8), per questo i primi cristiani si consideravano e si definivano “fratelli” e “sorelle”.

In questo testo c’è un’interessante raccomandazione che dà il tono a tutto il discorso: “I passeggeri stiano seduti ai loro posti e non si muovano, affinché non provochino con i loro spostamenti disordinati pericolosi movimenti e sbandamenti della nave”. Tale sviluppo ha determinato la relegazione dei laici in un ruolo sempre più passivo.

Inutile dire che questi testi hanno avuto una grandissima fortuna nell’antichità, in quanto largamente utilizzati, tanto da lasciare la loro impronta anche oggi.

 

 

Cipriano: se Dio è uno e una è la Chiesa, chi l’abbandona non si salva
Cipriano, nel cap.5 della sua “De catholicae Ecclesiae unitate” (251), afferma che uno è l’episcopato e una è la Chiesa. “È proprio questa unità che dobbiamo conservare fermamente e difendere, soprattutto noi vescovi, che stiamo a capo della Chiesa: e ciò affinché possiamo provare che anche l’episcopato è uno e indiviso. Nessuno attenti con qualche menzogna alla fraternità, nessuno corrompa con perfida prevaricazione la verità della fede. Uno è l’episcopato, e ciascuno per la sua parte lo possiede tutto intero.” Come dire, nessun vescovo può comandare su un altro vescovo, in quanto è perfettamente autonomo nel proprio episcopato; dietro sta la questione del conciliarismo e della collegialità episcopale di cui parleranno anche i Concili Vaticano I e II: l’infallibilità del papa (1870) non andrà a diminuire il potere del vescovo previsto anche dai due concili. Il Vaticano II poi insisterà sulla collegialità dei vescovi, facendo nascere le conferenze episcopali (l’ultima parola però resta sempre del papa).

 

Ancora Cipriano: “Una è la Chiesa, mentre si estende al largo abbracciando una gran moltitudine per la sua crescente fecondità. È come per il sole, che ha molti raggi ma una sola è la sorgente luminosa; come per l’albero, che ha molti rami ma uno solo è il tronco che si erge su radice tenace; e per la sorgente, che è una sola, ma da essa sgorgano molti ruscelli, e cosi, mentre dall’esuberanza del gettito d’acqua sembra derivare la molteplicità, tuttavia nell’origine si conserva l’unità. Provati a strappare il raggio del sole dalla sorgente: l’unità della luce non segue una tale divisione. Provati a staccare un ramo dall’albero: il ramo staccato non potrà germogliare. Provati infine a isolare un ruscello dalla sor gente, questo ruscello, cosi tagliato fuori, inaridirà. Così, anche la Chiesa del Signore diffonde la luce dei suoi raggi per tutto il mondo; tuttavia una sola è la luce che sparge ovunque, e non si divide l’unità del corpo. Estende i suoi rami frondosi per tutta intera la terra, riversa in ogni direzione le sue acque in piena; e tuttavia non v’è che un solo principio e una sola origine; e una sola è la madre feconda, ricca di frutti. Noi nasciamo dal suo grembo, ci nutriamo del suo latte, siamo animati dal suo spirito.”

 

Al capitolo 6: “Non può avere Dio per padre chi non ha la Chiesa per madre. Se avesse potuto salvarsi chi restò fuori dell’arca di Noé, allora potremmo dire che si salverà chi è fuori della Chiesa”. “Colui che spezza la concordia, la pace di Cristo, è contro Cristo”.

Nella storia della Chiesa a Cipriano viene attribuita la frase Extra Ecclesiam nulla salus (“Al di fuori della Chiesa non v’è salvezza”). Voleva proprio dire quello che in seguito gli è stato attribuito?

In Appendice: una rilettura storico – critica della «Extra ecclesiam nulla salus» tratta dalla rivista Servitium.

Cipriano non intendeva parlare dei pagani, ma di chi stava “fuori dall’arca”, cioè gli scismatici: non mette a repentaglio la propria salvezza chi non crede, ma chi ha abbandonato la Chiesa cattolica. In seguito il fuori dall’arca diventerà fuori dalla Chiesa. Un’espressione simile, contenuta in una lettera (epistola 72) scritta nel 256 da Cipriano al vescovo di Roma Stefano, è Salus extra ecclesiam non est.

 

Sempre al cap. 6: “La sposa di Cristo non sarà mai adultera: essa è incorruttibile e pura. Ha conosciuto una sola casa, ha custodito con casto pudore la santità di un sol talamo. Lei ci conserva per Dio, lei destina al regno i figli che ha generato. Chiunque, separandosi dalla Chiesa, ne sceglie una adultera, viene a tagliarsi fuori dalle promesse della Chiesa: chi abbandona la Chiesa di Cristo, non perviene certo alle ricompense di Cristo. Costui sarà un estraneo, un profano, un nemico.” Sembra confermare che chi sta “fuori dall’arca” siano proprio gli scismatici, considerati estranei e nemici perche hanno abbandonato la Chiesa. “Ecco quanto il Signore ci dice ammonendoci: «Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde» (Mt 12,30). Colui che spezza la concordia, la pace di Cristo, è contro Cristo; e colui che raccoglie fuori della Chiesa, disperde la Chiesa di Cristo. Il Signore dice: «Io e il Padre siamo uno» (Gv 10,30). E ancora sta scritto del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo: «E i tre sono uno» (1Gv 5,7). Ebbene, può forse esserci qualcuno che creda si possa dividere l’unità nella Chiesa, questa unità che viene dalla stabilità divina e che è legata ai misteri celesti, e penserà che si possa dissolvere per la divergenza di opposte volontà? Chi non si tiene in questa unità, non si tiene nella legge di Dio, non si tiene nella fede del Padre e del Figlio, non si tiene nella vita e nella salvezza.”

 

Al cap.7 si parla della tunica di Gesù come simbolo dell’unicità della Chiesa: “Questo mistero dell’unità, questo vincolo di concordia stretto alla perfezione, ci viene indicato nel Vangelo, là dove si parla della tunica del Signore Gesù Cristo: essa non viene affatto divisa né strappata; ma si gettano le sorti sulla veste di Cristo, sicché chi dovrà rivestirsi di Cristo (Gal 3,27; Rm 13,14) riceva la veste intatta e possieda indivisa e integra quella tunica.” Si tratta di un’interpretazione allegorica e non esegetica come si farebbe oggi. “Cosi leggiamo nella divina Scrittura: «Quanto poi alla tunica, poiché era senza cuciture dall’alto al basso e tessuta d’un pezzo, si dissero a vicenda: Non stracciamola, ma tiriamola a sorte a chi tocchi» (Gv 19,23). Lui portava l’unità che viene dall’alto, che viene cioè dal cielo e dal Padre: tale unità non poteva essere affatto divisa da chi la ricevesse in possesso, conservandosi tutta intera e assolutamente indissolubile. Non può possedere la veste di Cristo, colui che divide e separa la Chiesa di Cristo.”

 

Nel capitolo seguente affronta altri simboli religiosi: “Egli ci ammonisce e ci insegna nel suo Vangelo: «E ci sarà dice un sol gregge e un solo pastore» (Gv 10,16). E può forse pensare qualcuno che possano esserci in uno stesso luogo molti pastori e più greggi?”. “Ebbene, credi tu che si possa stare in piedi e continuare a vivere, allontanandosi dalla Chiesa, costruendosi altre sedi e dimore diverse? se pensi che a Rahab, nella quale era prefigurata la Chiesa, fu detto: «Radunerai tuo padre, tua madre, i tuoi fratelli, tutta la tua parentela presso di te in casa tua; e accadrà che chi uscirà fuori della porta di casa tua, sarà colpevole della sua rovina» (Gs 2,18). Parimenti, il rito della Pasqua, nella legge dell’Esodo, prescriveva che l’agnello, il cui sacrificio era figura di quello di Cristo, fosse mangiato in una stessa casa. Ecco le parole stesse di Dio: «Sarà mangiato in una sola casa, e non getterete la sua carne fuori della casa» (Es 12,46)”. L’agnello pasquale diventa l’eucarestia, l’unica casa diventa la Chiesa.

 

Sono tanti i simboli che Cipriano prende dalla Bibbia per sostenere che la Chiesa è unica e unita. Mancano ancora 130 anni al concilio di Costantinopoli, con il suo “credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica”. Per Cipriano l’obiettivo di fondo è evitare la scissione: nelle comunità ci sono diversi modi di pensare che creano di fatto delle divisioni interne; molte persone se ne sono andate, altre hanno fondato comunità di altro tipo, le forze centrifughe sono sempre presenti all’interno della Chiesa. Cipriano avverte che alla prossima persecuzione la comunità cristiana rischia di estinguersi. Lo stare assieme non può che essere una forza reciproca: Cipriano non riesce a fare una profonda riflessione teologica su questo tema: lui non è un uomo preparato teologicamente, anche se acclamato vescovo abbastanza in fretta; però coglie alcuni aspetti di rischio per la comunità cristiana. L’aspetto critico sta nel fatto che col tempo i suoi scritti verranno utilizzati con significati diversi da quelli che Cipriano intendeva.

Cap. 12: “Una sola è la Chiesa di Cristo, quelle degli eretici e degli scismatici sono chiesuole, in cui non ci sono né Cristo né i sacramenti.” E quindi non c’è neppure salvezza.

 

Nel cap. 14 parla ancora di eretici e scismatici: “Costoro, anche se fossero uccisi per la confessione del nome, non laverebbero la loro macchia neppure col sangue: la colpa grave e inespiabile della discordia non può essere cancellata neppure dal martirio. Non può essere martire chi non è nella Chiesa; non potrà pervenire al regno chi abbandona colei che è destinata a regnare. Cristo ci ha dato la pace, ci ha prescritto di essere d’un sol cuore e di un’anima sola, ci ha raccomandato di conservare integri e inviolati i legami dell’amore e della carità; perciò non potrà essere un martire colui che non osserva la carità fraterna.” “Chi non ha la carità, non ha Dio.” “Non possono rimanere con Dio, quelli che non han voluto essere unanimi nella Chiesa di Dio. Brucino pure nelle fiamme, ed esposti al fuoco o dati alle belve diano pure la vita: non otterranno la corona della fede ma la pena del l’infedeltà; e ciò non sarà per loro l’esito glorioso della fortezza dei credenti, ma la fine dei disperati. Un uomo del genere può ben essere ucciso, non potrà essere coronato;”.”L’eretico se muore fuori della Chiesa non può ottenere i premi della Chiesa”, cioè non si salva.

 

Al cap. 23: “Occorre dunque stare alla larga; o meglio, occorre fuggire dai colpevoli: e ciò perché non accada che qualcuno, unendosi a quelli che si comportano male e vanno errando per vie traverse in mezzo ai peccati, finisca per commettere egli pure gli stessi peccati deviando dal cammino della verità. Uno è Dio e uno è Cristo, una è la sua Chiesa, e una la fede, e uno il popolo strettamente congiunto dal cemento della concordia nell’unità solida di un corpo. Non può spezzarsi l’unità. Non può essere separato un unico corpo, scompaginando la sua struttura; né può essere fatto a pezzi, lacerando e strappando le sue viscere. Quel che si separa da ciò che gli comunica la vita, fuori non può più vivere e respirare, finisce per perdere la sostanza vitale.”

Un solo Dio e una sola Chiesa: quest’idea di Cipriano entrerà nel secolo successivo anche nel credo (Costantinopoli, 381).

 

Quella di Cipriano non è tanto una riflessione sulla Chiesa in sé, ma un cercare di preservare la Chiesa stessa attaccata da una dura persecuzione: le comunità cristiane avevano vissuto un periodo di massima crisi, che metteva in forse la loro esistenza (come mezzo secolo più tardi con Diocleziano). Di certo la sua “Unità della Chiesa cattolica” segnerà profondamente la teologia e il diritto del cristianesimo futuro.

 

12 Il cristianesimo diventa religione di Stato
Agostino affronta il tema del sacramento
Parlando della grazia, Agostino (354-430) distingue la grazia dello Spirito Santo (che si può perdere, nel momento in cui non ci si dispone ad essa, ma anche riacquistare) dalla grazia del sacramento dell’Ordine (che non si può mai perdere). Egli è il primo che fa questo tipo di riflessione, anche se l’idea dell’attuale sacramento affonda le sue radici nella teologia medioevale. Per cui se uno viene allontanato dal ministero (magari per eresia), il sacramento dell’Ordine viene conservato. Se per vari motivi è reintegrato non viene ordinato un’altra volta.

Questo modo di conservare il sacramento è identico al marchio di appartenenza delle persone (come il soldato verso l’imperatore o lo schiavo verso il padrone): con questo sacramento il presbitero viene marchiato una volta per sempre in modo indelebile.

Per Agostino, questa grazia del sacramento dell’ordine è un segno che indica un rapporto di proprietà che non può essere cancellato, allo stesso modo del battezzato che porta il sacramento incancellabile del battesimo (lo sbattezzo è soltanto la cancellazione dalla lista dei battezzati). L’ordinazione ti lega in modo indissolubile e questo legame non potrà mai più essere reciso.

Agostino però usa in modo indistinto i concetti di sacramento, santità, consacrazione, come sinonimi di carattere, dimostrando di non avere ancora un’idea chiara e specifica dell’argomento. Sarà la riflessione teologica medioevale che farà gli ulteriori approfondimenti.

Il carattere in Agostino richiama l’appartenenza, ma non è un’entità impressa nell’anima: esso indica soltanto un rapporto di proprietà tra Cristo e la persona. Tommaso d’Aquino dirà in seguito che il carattere è impresso nell’intelletto.

Per i primi 400 anni, quello che veniva chiamato ministero o sacerdozio era molto diverso da quello che intendiamo oggi.

Agostino scrive dal nord Africa, in un periodo già segnato da due concili ecumenici (Nicea del 325 e Costantinopoli del 381) e muore alla vigilia del terzo, quello di Efeso del 431. Un periodo in cui era vivacissimo il discorso cristologico e trinitario, il ruolo della Chiesa e il problema di un centro di autorità, il percorso dei sacramenti, la questione degli eretici. Agostino vuole affrontare due grandi problemi: il donatismo e il pelagianesimo.

Il donatismo era un movimento cristiano sorto in Africa nel 311 dal vescovo Donato, il quale diceva chiaramente: “se amministro un sacramento, io, come ministro, devo essere integro, altrimenti non vale”. Ma la validità del sacramento da chi dipende: dalla fede di chi lo amministra o dalla fede di chi lo riceve? Se a dare un sacramento è un eretico, che si fa? Oggi noi lo consideriamo comunque valido, però a quel tempo si era agli inizi della questione.

Le dottrine del monaco bretone Pelagio (a cavallo del 400) riguardano principalmente il ruolo del battesimo e il disconoscimento del peccato originale.

Molte sono le Chiese donatiste e pelagiane, per questo Agostino si mette a scrivere, per confutare queste teologie. Sulle questioni di Pelagio, dopo alcuni sinodi africani (anti-pelagiani), farà anche ricorso alla comunità di Roma, che si dichiarerà d’accordo con lui. Così potrà sentenziare “Roma locuta, causa finita est” (Roma ha parlato, la causa è chiusa). Nel corso dei secoli, i filo papisti, per sostenere la centralità del vescovo di Roma, riprenderanno in senso assoluto quest’affermazione di Agostino. Costui peraltro non intendeva questo: si era rivolto a Roma come centro visibile su quel particolare problema. Come dire: su quello che abbiamo deciso in merito a questo particolare problema nei nostri sinodi africani, Roma è d’accordo oppure no? Qui si ricalcano le dispute e gli accordi tra Cornelio e Cipriano. Questo per dire che ogni Chiesa era molto gelosa della propria specificità.

 

Il decisivo passaggio tra IV e V secolo
Come possiamo far risalire a Gesù, cioè istituito da lui, il sacerdozio (come noi oggi lo intendiamo) che manca nei primi 400 anni della Chiesa? Siamo abituati a pensare che certe istituzioni esistenti oggi lo siano sempre state. Ma non è così. C’è stata un’evoluzione rituale e teologica. Come facciamo a dire che Gesù voleva il sacerdozio così come lo intendiamo ed è esercitato oggi? Non è per caso uno spingere oltre i testi del Nuovo Testamento e l’intenzione di Gesù?

Tutti i ministeri e tutti gli uffici esistenti nella Chiesa sono nella disponibilità della Chiesa, nel senso che sono stati sviluppati in un determinato senso dalla Chiesa stessa. Ciò significa che la Chiesa può cambiare oggi quello che ha cambiato precedentemente. Solo il Regno di Dio è definitivo. E’ nel potere della Chiesa perciò cambiare qualsiasi ministero, ufficio, struttura, contenuto. Basti pensare a quante realtà sono state cambiate nella Chiesa. O ancora l’eucarestia: chi celebra non è l’io del prete, ma il noi della comunità; così è stato per i primi 400 e ce lo ha ricordato il Vaticano II: in mezzo ci sono 1500 anni di chiaro-scuro.

La celebrazione dell’eucarestia nei primi 300 anni avveniva nei modi più disparati, ma a partire dal V secolo essa cambia struttura: passa ai sacerdoti che hanno il sacramento dell’ordine. Ormai non ci si trova più nelle case, in quanto vengono costruite le prime forme basilicali: non ci sono più a presiedere il padrone di casa e le donne, ma solo colui che ha ricevuto l’ordinazione.

Le riunioni cristiane diventano degli incontri istituzionali. Lo spartiacque è in questo passaggio tra il IV e il V secolo.

Prima di Costantino (274-337), non si parlava di altare ma di mensa, di tavola in legno, all’interno di una casa o di un locale più grande. Non c’era alcun ornamento, perché non si celebrava un sacrificio ma una cena. Il luogo degli incontri non era fisso, ma spostabile in base alle esigenze. Nei primi decenni, la fractio panis avveniva dopo l’agape, la cena comune.

Con la Chiesa dei martiri, il tavolo di mensa diventa a tutti gli effetti altare; viene fatto in pietra e diventa stabile. Si fa strada l’uso di celebrare la fractio panis sulle tombe dei martiri. In una seconda fase, finita l’epoca delle persecuzioni, si cominciano a costruire le basiliche sopra le tombe dei martiri: l’altare è posizionato sopra le tombe dei martiri. Se ciò non è possibile, si prendono alcune reliquie dei martiri per metterle sotto l’altare. Questo si fa ancor oggi, per il motivo che loro hanno versato il sangue come ha fatto Gesù (“nel mio sangue, che viene versato per voi”).

Fino al VI secolo nelle chiese vi era un solo altare; in seguito, in quelle latine (e non in quelle orientali) vengono costruiti più altari, per poter incassare più offerte, visto che c’erano tanti sacerdoti (ormai funzionari a tutti gli effetti) e che potevano dire più messe al giorno; chi richiedeva la messa pagava una data offerta. Sarà con il Concilio di Trento (XVI secolo) che si porrà un limite a tutto ciò.

Queste esagerazioni sono state il frutto di un certo processo, decisamente clericale, per cui le messe alla fine erano un fatto che riguardavano soltanto il prete, e non più la comunità; la stessa eucarestia era diventata totalmente impossibile alla gente (per i troppi divieti e ostacoli), per cui durante la messa faceva altro: nasce così la necessità di sollevare l’ostia, per far almeno vedere il momento centrale della messa, e di suonare la campanella (attimo in cui la gente doveva prestare attenzione). Nasce così, attorno al XII secolo, l’elevazione. Più tardi avverrà anche per il calice.

Nel 1215 a Roma ha luogo il Concilio lateranense IV. Tra le altre cose, stabilisce che il cattolico deve confessarsi e comunicarsi almeno una volta all’anno, cioè a Pasqua: quasi nessuno ormai si confessava e si comunicava.

Gli unici contenitori liturgici erano il calice (per il vino) e la patena (per l’ostia). Il calice era inizialmente in legno, poi in argilla, quindi in vetro, e a partire dal medioevo in metallo.

Fino al IV secolo, gli indumenti liturgici consistevano nel vestito della festa: una tunica con le maniche strette, una dalmatica (ampia tunica variamente ornata) e una specie di mantello.

Dalla fine del IV secolo, con il cristianesimo ormai religione di Stato, il clero viene inserito nella scala della gerarchia statale, per cui non può più usare i soliti vestiti della festa: occorrono gli abiti liturgici fissi. Nel IV sinodo di Toledo del 633 vengono anche stabilite le vesti, l’anello e il pastorale per i vescovi. Il colore delle vesti inizialmente era bianco, ma dalla fine del secolo VIII comincia l’uso dei colori diversi.

 

Il processo storico per cui Roma diventa caput ecclesiae
Che ruolo aveva la Chiesa di Roma nel IV secolo? Non era una istanza decisionale giuridicamente vincolante. Dalla comunità romana ci si attendeva un sostegno spirituale e morale (vedi l’episodio di Agostino) nelle situazioni di emergenza, ci si aspettavano esortazioni o scritti indirizzati ai vescovi e alle comunità oppure iniziative e convocazioni per sinodi e concili. Non era quindi la Chiesa di Roma che si imponeva sulle altre, ma queste ultime che richiedevano una sua risposta/intervento.

Accanto a Roma si fa strada Costantinopoli. Una leggenda vuole che la Chiesa di Costantinopoli sia stata fondata da Andrea, fratello di Pietro. La capitale d’Oriente viene considerata la nuova Roma.

Teodosio I imperatore, che nel febbraio 380 aveva promulgato l’Editto di Tessalonica, grazie al quale il cristianesimo (secondo i canoni del credo niceno) era diventata religione unica e obbligatoria dell’impero, convoca e apre il concilio di Costantinopoli (381) che al canone 3 afferma: “Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma”.

Questo canone verrà fatto proprio anche dal concilio di Calcedonia (451) convocato dall’imperatore Marciano all’interno del canone 28.

Ricordiamo però che questo canone non sarà mai accettato dalla Chiesa di Roma.

 

A partire dal VI secolo, si sviluppa la teoria della pentarchia: cinque importanti sedi vescovili si considerano i più importanti centri di unità della communio ecclesiale.  Questa teologia della communio ecclesiale si perderà nel tempo e verrà recuperata a partire dal concilio Vaticano II. Le cinque sedi erano Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. Tutte le Chiese, se volevano essere considerate ortodosse, dovevano rimanere in comunione con queste cinque Chiese, sia nella fede che nella celebrazione eucaristica, altrimenti venivano considerate scismatiche ed eretiche.

Dalla fine del secolo VIII un concilio è considerato ecumenico solo se vi avevano preso parte i rappresentanti di tutti e cinque i patriarcati. La motivazione teologica è questa: le cinque sedi patriarcali sono considerate le colonne su cui è fondata la Chiesa e su di loro si fonda la sua infallibilità/imdefettibilità; esse non possono sbagliare tutte assieme; anche se quattro di esse si allontanassero dalla vera fede, la quinta rimarrebbe ortodossa e quindi in grado di riportare le altre alla vera fede; sono questi cinque patriarcati ad essere considerati successori degli apostoli.

In realtà il vescovo di Gerusalemme a partire dal II secolo non aveva più alcun valore e dal VII secolo, con l’invasione dell’Islam, anche Alessandria e Antiochia persero importanza. Rimangono solo Roma e Costantinopoli.

In Occidente, nel V secolo la Chiesa acquista una nuova comprensione di sé. Un cambiamento radicale nella teoria e nella prassi della Chiesa avviene con Leone Magno (vescovo di Roma dal 440 al 461), che fa terminare la communio Ecclesiarum della Chiesa antica.

Comincia a farsi strada l’aspetto giuridico e si sviluppa l’idea del vescovo di Roma come successore di Pietro, riservando solo a lui il titolo di papa. Essendo ora vicario di Pietro, con il suo stesso potere delle chiavi, si considera l’unico legittimo erede di Pietro: nel papa parla ed agisce lo stesso Pietro. Sul piano ecclesiologico è decisamente un fatto importante.

Se prima la successione apostolica era legata alla fondazione delle comunità, ora è legata alla persona: il papa come successore di Pietro, i vescovi come successori degli apostoli.

Si fa strada l’idea che il vescovo di Roma abbia la potestà di governo sull’intera Chiesa, aspetto finora inimmaginabile.

Nascono espressioni del tipo: “al vescovo di Roma viene conferita la sollecitudine per tutte le Chiese” oppure “la pienezza della potestà”.

Tutto questo a partire da Leone Magno, in un periodo storico in cui l’impero romano d’occidente stava declinando.

Questo modo di pensare porta ad una reinterpretazione del brano di Matteo “tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa” (Mt. 16,18). Il vescovo di Roma, partendo da questo passo, comincia a sostenere che non solo il concilio o il sinodo possono stabilire delle norme, ma anche il papa (attribuendosi così anche un potere legislativo).

Nasce anche il confronto tra Mosè, legislatore dell’antica alleanza, e Pietro, visto come un secondo Mosè, che però continua a vivere nel papa (legislatore della nuova alleanza): il vescovo di Roma comincia ad emanare norme che regolano la vita di tutta la Chiesa. Impensabile tutto questo nei secoli precedenti. Naturalmente ciò riguarda l’Occidente: Roma non si spinge a richiedere il consenso dell’Oriente.

Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, nasce un legame fortissimo tra la Chiesa romana e l’impero romano, o per essere più precisi, tra l’impero romano e la nobiltà cristianizzata della città di Roma. E’ un passaggio fondamentale. Ne abbiamo testimonianza artistica nel mosaico dell’abside della basilica di santa Prudenziana (380) a Roma: Cristo è seduto sul trono, un trono imperiale, come un novello imperatore; a destra e sinistra ci sono Pietro e Paolo rivestiti con la toga dei senatori, per dire che Roma è stata battezzata.

Viene inaugurata l’alleanza fra trono e altare.

La Roma capitale dell’impero, la Roma caput mundi, diventa la Roma caput ecclesiae. Tutto il resto avviene di conseguenza: come la Roma capitale dell’Impero emanava leggi per tutto l’impero, così la Roma caput ecclesiae avanza la pretesa di una posizione dominante sulle altre Chiese.

Più diminuisce il potere imperiale in Occidente e più la Chiesa di Roma e il suo vescovo ereditano la concezione romana del diritto e dell’ordine. E’ per questo che la normativa di fine IV secolo a un certo punto vieta di fatto il paganesimo: la Chiesa da perseguitata diventa persecutrice. Sono vietati il sacerdozio pagano e la ristrutturazione dei templi pagani (che spesso diventano cristiani).

La Chiesa della tradizione, nella quale era forte il legame con la sua origine (cioè fondata dagli apostoli o dai suoi successori), diviene la Chiesa della capitale che comunica al mondo le sue leggi. La Roma della testimonianza della fede di Pietro e Paolo diventa la Roma della legislazione che comanda. Questi continui passaggi includono anche una dimensione ecclesiologica, teologica e politica.

Qualche aspetto positivo, in questa evoluzione, c’è:

1. Con la migrazione dei popoli finisce l’Impero romano e la Chiesa di Roma diventa l’unica realtà affidabile in grado anche di gestire nel disordine complessivo un po’ di ordine sociale.

2. La figura del vescovo di Roma, come centro visibile di unità, evita un’ulteriore frammentazione della Chiesa.

3. Roma riesce a conservare la propria figura di origine apostolica secondo la tradizione, perché lì sono morti Pietro e Paolo, per cui la Chiesa romana viene vista a livello universale come garante di questa unità.

4. La posizione del vescovo di Roma, che si attribuisce anche un ruolo giuridico, ha protetto la Chiesa dalle mire dei potenti di turno.

D’altra parte questa situazione ha portato la Chiesa a fare anche scelte negative di tipo politico, mettendo sempre più in secondo piano la differenza che intercorre tra le strutture giuridiche ecclesiali e quelle statali, adattandosi ai modelli giuridici imperiali dell’antica Roma. In realtà Pietro e Augusto non possono assolutamente conciliarsi.

 

Giustiniano e il cesaropapismo bizantino
In Oriente, Giustiniano (imperatore dal 527 al 565) impone una stretta compenetrazione tra Stato e Chiesa, il tutto sotto il “volere di Dio”. A dominare la Chiesa era lui, Giustiniano, che non si sentiva inferiore al papa. Questo imperatore riconosceva teoricamente al papa il primato sulla Chiesa universale, ma chi decideva nella Chiesa era Giustiniano. “Regis voluntas suprema lex”: sia suprema legge la volontà del re, sia nello Stato che nella Chiesa. E’ il cesaropapismo bizantino. Giustiniano è un sovrano teocratico: lo si nota sia nell’arte che nel linguaggio. Il concistoro, la riunione dei consiglieri dell’imperatore, entra nella terminologia religiosa; e così il pallio (striscia di stoffa usata come paramento liturgico). Il vescovo di Costantinopoli diventa un funzionario statale a tutti gli effetti e la Chiesa un dicastero dello Stato, al servizio del potere politico.

La liturgia di Costantinopoli era per Giustiniano copia della liturgia celeste: ciò che accade nella Chiesa costantinopolitana è ciò che accade in cielo, il terreno copia il celeste con la stessa solennità e la stessa gerarchia; l’imperatore diventa così un novello Cristo, ben visibile nei mosaici di S. Vitale a Ravenna, e l’imperatrice vestita con gli stessi abiti con cui tradizionalmente era vestita la Madonna.

Il ruolo del sacerdozio risulta, in questa situazione, cambiato notevolmente: non è più quello che è stato fino a questo momento.

 

 

 

 

Appendice 1. Una rilettura storico – critica della «Extra ecclesiam nulla salus»
Ecco un commento interessante all’espressione di Cipriano, di Amilcare Giudici sulla «Extra ecclesiam nulla salus», una rilettura storico – critica, dalla rivista Servitium (Via Monterosa 81, Milano), n. 30 del 1978.

 

Voglio subito precisare lo spirito che mi muove in questa ricerca storica: non la preoccupazione di salvare ad ogni costo una formula e, dietro di essa e con essa, salvare la credibilità della chiesa mi sta a cuore.

Non mi fa difficoltà il pensare che le formulazioni dottrinali siano talmente storiche da poter essere completamente ribaltate. Non intendo quindi adeguarmi a quegli sforzi machiavellistici tesi a salvare la lettera delle formule anche quando il loro contenuto risulta completamente cambiato (1).

D’altra parte non mi sembra possibile liquidare completamente un passato dicendo che si è sbagliato e che ora la si pensa diversamente. La storia, anche quella della chiesa, non è né completamente giusta né completamente sbagliata, ma è appunto storia, ossia sforzo di cercare la verità dentro ai condizionamenti del proprio tempo e della propria società, sforzo fatto di tante luci e di tante ombre. Spesso allora nelle formulazioni sbagliate c’è una verità nascosta e una testimonianza profonda di fede, come del resto spesso nelle formulazioni giuste c’è uno spirito che non cerca la verità ma la vuole piuttosto coprire e nascondere.

L’onestà intellettuale vuole che riconosciamo le cose come stanno senza mezzi

termini; la coscienza storica vuole però che ascoltiamo un soggetto determinato

collocandolo nel suo ambiente e dandogli credito e la fede vuole che pensiamo i

nostri predecessori dentro un piano di salvezza che li portava a Dio, unica e

comune verità. Intendo allora pormi su una linea ugualmente distante dai due

estremi accennati, una linea che rende ragione della storicità dei ‘dogmi’ e rende

ragione, soprattutto, della mia storicità che diventa coscienza di debolezza,

bisogno di dialogo, repulsione per il dogmatismo di ieri e anche per quello di

oggi.

 

La riflessione giudaico-cristiana

La formula Extra ecclesiam nulla salus affonda le sue ultime radici nel pensiero

tardo-giudaico. La teologia che si sviluppa in questi ambienti vede nella salvezza

del solo Noè con la sua arca, in mezzo alla catastrofe di tutto il resto dell’umanità, un simbolo della salvezza del santo resto di Israele. Il libro della Sapienza, rifacendo tutta la storia di Israele, dice:

 

“La sapienza di nuovo la (terra) salvò pilotando il giusto e per mezzo di un semplice legno” (10, 4).

E poco più oltre in un inno di lode aggiunge:

“Anche in principio, mentre perivano giganti superbi, la speranza del mondo,rifugiatasi in una barca e guidata per mano da te, conservò al mondo la semenza di nuove generazioni” (14, 6).

 

Lo sguardo sembra muoversi in un ampio giro universale, ma la tesi fondamentale del libro sta nell’affermare con forza che solo aderendo alla sapienza ci si può salvare. Ora questa sapienza si è fatta presente nel popolo di Israele. Un poema sapienziale presente nel libro di Baruch, più o meno dello stesso tempo rispetto al libro della Sapienza, dopo essersi ripetutamente chiesto a chi è stata data la sapienza conclude:

 

“Egli (Dio) ha scrutato tutta la via della sapienza e ne ha fatto dono a Giacobbe suo servo, a Israele suo diletto. Per questo è apparsa sulla terra e ha vissuto fra gli uomini (…) Ritorna Giacobbe, e accoglila, cammina allo splendore della sua luce. Non dare ad altri la tua gloria, né i tuoi privilegi a gente straniera. Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato” (3, 37-4, 4).

 

L’universalismo ebraico è inteso unicamente nel senso che gli altri popoli si

uniscono a Israele, e questo anche presso i grandi profeti (si veda Is. 60, 1 ss.).

La prima epistola di Pietro riprende l’immagine dell’arca di Noè e l’applica alla

comunità cristiana:

 

“E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione; essi avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua. Figura questa del battesimo, che ora salva voi” (3, 19-21).

 

Il ragionamento contenuto in questa lettera sembra essere: l’acqua del diluvio, che permise solo a qualcuno di salvarsi, simboleggia l’economia dell’antica legge, le cui prescrizioni rituali ottenevano molto spesso solo una purificazione esteriore (deposizione di sporcizia del corpo, come dice il seguito del testo riferito).

Al contrario non vi sono limiti alla efficacia del battesimo che opera la rigenerazione dell’anima (invocazione di salvezza rivolta a Dio). I Padri della Chiesa riprenderanno ampiamente questo passaggio della prima lettera di Pietro, e l’arca di Noè diventerà subito l’immagine della Chiesa che attraversa un mare burrascoso. Bisogna però notare che l’autore della lettera citata gioca sulla simbologia dell’acqua più che sulla immagine dell’arca e sembra sviluppare una contrapposizione sia qualitativa (mentre l’acqua antica puliva il corpo, l’acqua del battesimo è pegno di salvezza), sia quantitativa (al tempo di Noè l’acqua salvò solo otto persone, ora l’acqua del battesimo può salvare tutti), anche se quest’ultima contrapposizione non è completamente sviluppata e non è accettata da tutti. Tuttavia essa sembra imporsi, poiché il contesto generale che la regge è la potenza salvifica di Cristo risorto e glorificato (1 Pt. 3, 22) che raggiunge perfino gli spiriti dei trapassati. Il passo citato, contrariamente a come verrà poi ripreso, testimonia l’universalità della salvezza portata da Cristo (2).

Non mi è possibile entrare anche solo minimamente in un’analisi del nuovo testamento sulla universalità della salvezza. Voglio solo citare due passi, che saranno molto spesso ripresi lungo la storia della chiesa a sostegno dell’extra ecclesiam nulla salus.

Il primo è quello che si trova nella seconda conclusione del vangelo di Marco:

 

“Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (16, 16).

 

Il binomio salvezza/condanna indica la radicalità escatologica in cui ogni uomo è messo: la sorte dell’uomo dipende in definitiva dal suo modo di collocarsi di

fronte a Gesù Cristo. L’annuncio della buona novella porterà o la vita o la morte agli uomini, a seconda della loro risposta di fede o di incredulità.

Il binomio fede/battesimo non indica un credere in correlazione con un aderire a una istituzione storica quale la chiesa, ma indica un credere che diventa concreto e che si traduce nella prassi.

«Come in Mt. 28, 16-20, si parla di battesimo; ma ancora più chiaramente che in quel passo, qui esso è inteso come espressione o per lo meno indicazione della fede, e nella forma negativa è menzionata solo l’incredulità, non la mancanza del battesimo, come motivo della condanna » (3).

 

Il secondo passo è quello degli Atti:

 

“In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (4, 12).

 

Qui viene indicata la ragione vera e profonda della pretesa di universalità del

cristianesimo, ma questa pretesa viene anche precisata nel suo vero contenuto: la

fede cristiana ritiene che la sorte di tutti gli uomini dipenda dalla persona di Gesù Cristo; nessun uomo si può salvare a prescindere da Gesù Cristo. E’ però una fatale ambiguità, non senza naturalmente una qualche giustificazione, passare da questa proposizione all’altra extra ecclesiam nulla salus: si tratta di piani diversi che non possono essere confusi.

 

Se vogliamo allora tirare alcune indicazione da questo primo segmento storico

possiamo dire:

 

– la formula Extra ecclesiam nulla salus ha una sua preistoria nella teologia tardo-giudaica e si rifà alla simbologia dell’arca di Noè (Gn. 7-8);

– la verità contenuta in questa formula non passa negli scritti del nuovo testamento, si può anzi dire che la riflessione centrale di questi testi nega la necessità di una istituzione religiosa o la necessità di appartenere a un popolo determinato;

– di contro il nuovo testamento pone la persona di Gesù come il luogo unico ed universale di salvezza, luogo aperto a tutti gli uomini e senza del quale nessuno si può salvare.

 

Mi rendo conto che queste conclusioni non sono state provate, esse vengono qui anticipate come punti da cui intendo partire per la ricostruzione storica della formula che stiamo studiando.

 

I primi tre secoli della chiesa

Sant’Ignazio in viaggio verso Roma, esattamente a Troade, scrisse una lettera alla

comunità di Filadelfia. Questa lettera vuole avvertire i cristiani a tenersi lontani dagli “scismatici” e in questo contesto Ignazio scrive:

 

“Tutti quelli che sono di Dio e di Gesù Cristo sono con il vescovo”.

 

Abbiamo dunque uno stretto collegamento tra l’essere in comunione con Dio e l’essere con il vescovo e quindi dentro la chiesa. Il senso profondo del pensiero di Ignazio si chiarisce subito dopo quando aggiunge:

 

“Non lasciatevi trarre in inganno fratelli miei, se qualcuno segue lo scismatico non ottiene l’eredità del regno divino” (4).

 

Non c’è dunque salvezza per colui che abbandona la comunità, per lo scismatico.

Qualche decina di anni dopo Ireneo nell’Adversus haereses esprime un pensiero

analogo a quello di Ignazio e ugualmente destinato a stimmatizzare coloro che si

separano dalla chiesa. Egli dice:

 

“Dove c’è la chiesa qui c’è lo spirito di Dio, e dove c’è lo spirito di Dio qui c’è la chiesa e tutta la grazia”.

 

Coloro che si separano dalla chiesa abbandonano la fonte della vita per bere un’acqua putrida che li porta alla morte, e non possono partecipare alla salvezza portata da Cristo (5).

Sul finire del secondo secolo Clemente Alessandrino nel primo libro del Pedagogo, in un passo dove esalta le meraviglie della redenzione, vista come seconda grande creazione, scrive:

 

“Come infatti la sua (di Dio) volontà è opera, e questo si chiama mondo, così anche la sua intenzione è la salvezza degli uomini, e questo si chiama chiesa” (6).

 

La salvezza degli uomini si attualizza nella chiesa. Il contesto però non ha minimamente un sapore negativo, ma è invece una lode a Dio che vuole la salvezza degli uomini.

Partendo da questi testi la formula Extra ecclesiam nulla salus compare molto

chiaramente nel terzo secolo quasi contemporaneamente in oriente (Origene) e in occidente (Cipriano).

Nelle sue omelie a commento del libro di Giosuè, Origene di fronte all’episodio della prostituta Rakhab la cui casa viene risparmiata perché aveva ospitato e nascosto gli esploratori ebrei (Gs. 2, 1-21 e 6, 22-26), vede in questa casa l’immagine stessa della chiesa e scrive:

 

“Se qualcuno dunque vuole essere salvato venga in questa casa, nella casa di costei che un tempo fu una prostituta. Se qualcuno di quel popolo (giudaico) vuole essere salvato venga in questa casa per ottenere la salvezza. Al di fuori di questa casa, ossia al di fuori della chiesa, nessuno si salva” (7).

 

L’intento di Origene è chiaro: egli vuole fare una parenesi ai giudei «ai quali dice: non ingannatevi; voi credete di avere l’antico testamento e che questo vi basti. In realtà avete bisogno anche voi del sangue di Cristo. Anche per voi la sede insostituibile della salvezza è la casa della prostituta disprezzata, piena di idoli e di orrori, la chiesa venuta dai pagani, che attraverso il sangue di Cristo è divenuta sposa. Origene non vuole quindi assolutamente sviluppare una teoria sulla salvezza del mondo e sulla condanna dei non cristiani… E non è il caso di sottolineare ancora che Origene stesso, il quale poté invitare gli uomini alla chiesa con tanta drammaticità, era ben lontano da una teoria sulla perdizione della maggior parte dell’umanità» (8).

 

L’immagine dell’arca di Noè ritorna in una lettera di Firmiliano, vescovo di Cesarea di Cappadocia, che verso il 258 scrive a Cipriano prendendo posizione accanto a lui contro la lettera di papa Stefano. Si tratta della famosa questione sulla validità del battesimo conferito dagli eretici: Stefano sostiene che il battesimo conferito dagli eretici è valido e non deve essere ripetuto e minaccia la scomunica per i vescovi che ribattezzano; Cipriano sostiene che il battesimo amministrato dagli eretici non è nulla. Di nuovo quindi siamo in una problematica intra-ecclesiale.

 

Ebbene in questo contesto Firmiliano scrive:

“Poiché l’arca di Noè non fu altro che il sacramento della chiesa di Cristo, che portò in salvo solamente coloro che erano all’interno dell’arca mentre tutti quelli che erano fuori perirono (…) così anche ora tutti coloro che non sono nella chiesa con Cristo, periranno al di fuori, a meno che facendo penitenza si convertano all’unico e salutare lavacro della chiesa” (9).

 

E cita in questa lettera il passo della prima epistola di Pietro visto sopra.

Nello stesso contesto, forse un paio d’anni prima, lo stesso Cipriano

aveva scritto:

 

“Gli eretici non hanno nulla, perfino il loro martirio non serve a nulla e neppure le loro penitenze valgono qualcosa davanti a Dio, poiché salus extra ecclesiam non est” (10).

 

Leggermente diverso è il contesto in cui si muove l’opera De unitate ecclesiae. Qui Cipriano si oppone accanitamente contro i moti di divisione interni alla comunità; il suo pensiero è quello di difendere la struttura episcopale e la necessità dell’unità. La divisione, per Cipriano, è peccato, è via della perdizione non via di salvezza. All’interno di questo ampio discorso egli dice:

 

“Chiunque si separa dalla chiesa e si unisce ad una adultera, si separa dalle promesse che sono date nella chiesa; egli non può raggiungere la corona di vittoria di Cristo, poiché ha abbandonato la chiesa. Egli è uno straniero, un profano, uno che appartiene alla potenza nemica. Non può avere Dio per padre chi non ha la chiesa come madre (Habere jam non potest Deum patrem, qui Ecclesiam non habet matrem). Se ci fu qualcuno che poté scampare anche senza essere nell’arca di Noè, allora c’è anche una scappatoia per chi sta fuori della chiesa” (11).

 

Il problema della salvezza dell’umanità è fuori dalla prospettiva di Cipriano: a lui sta a cuore l’unità della chiesa, scossa al suo interno dalle divisioni e dalle discordie. Se dunque a Origene interessava rivolgersi ai giudei per invitarli a non limitarsi all’antico testamento, a Cipriano interessa l’unità dei cristiani all’interno della struttura episcopale.

Possiamo allora concludere questo primo sguardo alla storia della chiesa con le seguenti osservazioni.

 

— La formula Extra ecclesiam nulla salus si forma nei primi tempi della chiesa e trova la sua struttura definitiva nel terzo secolo, esattamente in Origene e in Cipriano.

— A questo primo stadio storico essa non indica mai il rapporto della chiesa con il mondo ad essa esterno, non comporta cioè un giudizio negativo nei confronti di coloro che stanno al di fuori della chiesa.

— Al contrario essa è una formula intra-ecclesiale, che regola i rapporti teologici di quei membri che si sono separati attraverso uno scisma dalla comunità cristiana. Analogamente essa esprime la coscienza della chiesa nei confronti dei giudei e degli scismatici.

H. De Lubac ha chiarito questa impostazione senza alcun equivoco: « Il celebre assioma ‘Nessuna salvezza fuori della chiesa’ non ebbe in origine presso i padri della chiesa quel senso generale, che molti oggi pretendono; in situazioni ben concrete, esso intendeva quei colpevoli, che avevano sulla coscienza uno scisma, una ribellione, un tradimento nei confronti della chiesa » (12).

Da una parte questa impostazione può sorprendere: nei primi secoli i rapporti della chiesa con il mondo circostante non cristiano erano tutt’altro che facili, basti pensare alle continue persecuzioni; eppure la chiesa non ha elaborato una condanna teologica del mondo anche quando si è compresa come vascello che naviga sul mare del mondo in mezzo a continue difficoltà (13). Da un’altra parte l’impostazione vista deriva da una precisa coscienza che la chiesa ha di se stessa come “piccolo gregge”, come koinonia, e fondamentalmente come “mistero”. E’ assente da questa coscienza quella

pretesa di assolutismo e di universalità che vedremo caratterizzare il periodo successivo.

 

Dal quarto al quindicesimo secolo

Adagio adagio il nostro assioma, in mutate situazioni storiche e dentro nuove e diverse ecclesiologie, si va evolvendo acquistando un senso più incondizionato e più universale. Sintomi di una simile evoluzione sono già presenti in Lattanzio e soprattutto in Gerolamo (14).

Sant’Agostino (354-430) nel Contra Faustum Manichaeum applica alla chiesa il simbolo dell’arca di Noè in una riflessione universale sul piano della salvezza e tendente a considerare tutto il genere umano. La cosa curiosa è che, commentando il ritorno della colomba con un ramoscello di ulivo (Gn. 8, 11), Agostino scriva:

 

“questo significa che al di fuori della chiesa ci sono alcuni battezzati che all’ultimo momento possono ritornare alla chiesa come attraverso un bacio di pace” (15).

 

Tuttavia il ritorno alla chiesa nella attuale economia di salvezza è necessario: il sacramento della speranza, dice Agostino, in questo tempo si identifica con la chiesa (in sacramento spei quo in hoc tempore consociatur Ecclesia).

Il suo pensiero si precisa nel Sermo ad Caesareensis ecclesiae plebem, anche se questo è uno scritto polemico contro i donatisti e quindi rientra nella impostazione patristica precedente. Qui Agostino afferma esplicitamente che al di fuori della chiesa cattolica si può avere tutto, ma non la salvezza (16). Il termine “cattolico” è qui usato per indicare la chiesa universale, nello spazio e nel tempo, contro le chiese particolari o le sette, nel caso contro la setta dei donatisti.

 

Successivamente la chiesa cattolica verrà identificata con la chiesa di Roma, e questo già a cominciare da papa Gelasio I (492-496).17 Il simbolo Quicunque o pseudo-atanasiano, elaborato da un autore ignoto tra il 430 e il 500, presentando in forma schematica la fede cattolica esordisce dicendo:

 

“Chiunque vuole essere salvo deve innanzitutto tenere la fede cattolica, senza alcun dubbio egli perirà per tutta l’eternità se non l’avrà conservata integra e inviolata

Lo stesso simbolo termina così:

Questa è la fede cattolica, fede che se uno non avrà fermamente creduto non potrà essere salvo” (18).

 

E’ questo il tempo in cui si tenta di mettere la fede in formule semplici, incisive, adatte ad essere facilmente imparate a memoria, formule che per la loro schematicità riducono considerevolmente la grandezza della fede. In questo contesto un discepolo di Agostino, Fulgenzio da Ruspe (468-533), scrive una specie di catechismo o De Regula verae fidei. In un punto di quest’opera il nostro autore dice:

 

“Tieni per fermo e non dubitare che non solo tutti i pagani, ma anche tutti i giudei e tutti gli eretici e gli scismatici, che finiscono la presente vita fuori della chiesa cattolica, andranno nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e per i suoi angeli” (19).

 

Questa formula di Fulgenzio da Ruspe avrà molta fortuna, verrà infatti ripresa da alcuni concili universali.

Qui c’è da notare: l’accostamento dei pagani agli eretici e agli scismatici: quanto prima valeva per i cristiani che abbandonavano la chiesa ora vale anche per i pagani, che vengono teologicamente messi sullo stesso piano; il non ottenere la salvezza al di fuori della chiesa viene reso con la condanna al fuoco eterno: si dice qualcosa di più dunque o per lo meno lo si rende in forma plastica, atta a colpire l’immaginazione delle persone.

Pelagio II (579-590), scrivendo una lettera ad alcuni vescovi scismatici dell’Istria, cita molto estesamente il passo di Cipriano riportato sopra, solo che identifica espressamente la chiesa cattolica con la sede di Roma (20).

I processi che vanno avanti sono dunque due: da una parte i pagani vengono assimilati agli eretici e agli scismatici e quindi considerati “colpevoli”; da un’altra parte la chiesa vera e cattolica viene sempre più identificata con la chiesa che fa capo al papato. Il concilio di Toleto XVI, iniziato nel 693, ribadisce che tutti coloro che sono al di fuori della chiesa, se non si convertono, saranno soggetti alla dannazione eterna (21).

Oramai questa visione si impone e diventa “fede comune” di tutta la chiesa!

Papa Innocenzo III — siamo già nel 1208 — nella professione di fede che

impone ai valdesi afferma:

 

“Crediamo con il cuore e professiamo con la bocca che la chiesa è una, santa, romana, cattolica e apostolica, al di fuori della quale crediamo che nessuno si possa salvare” (22).

 

Nel 1302 Bonifacio VIII, nella famosissima bolla Unam sanctam, afferma:

 

“Siamo costretti a credere e a ritenere che la chiesa sia una, santa, cattolica ed apostolica (…) al di fuori della quale non c’è né salvezza né remissione dei peccati”.

 

Riprende l’immagine dell’arca di Noè per ribadire due cose: come al di fuori dell’arca di Noè tutto fu distrutto, così al di fuori della chiesa tutto va perduto; come l’arca di Noè ebbe un unico comandante che era appunto Noè, così la chiesa è retta dal successore di Pietro (23).

Il concilio ecumenico di Firenze, del 1442, riprende quasi alla lettera la

formulazione di Fulgenzio da Ruspe:

 

“La santa chiesa romana (…) crede fermamente, dichiara e notifica che nessuno al di fuori della chiesa cattolica, sia egli pagano, giudeo, eretico o scismatico, o comunque separato dall’unità ecclesiale, potrà divenire partecipe della vita eterna, ma sarà anzi condannato al fuoco eterno, riservato al demonio e ai suoi angeli, a meno che vi aderisca prima della morte” (24).

 

Possiamo ora trarre alcune conclusioni anche da questo secondo periodo della storia della chiesa. Rimane fuori discussione che si assiste a un capovolgimento rispetto al periodo precedente: extra ecclesiam nulla salus suona qui come giudizio teologico sul mondo extra-ecclesiale. Che cosa è avvenuto?

 

— La chiesa da piccolo gregge è diventata la chiesa imperiale, da una piccola componente della società è diventata talmente estesa da coincidere praticamente con il mondo esistente, abbracciando tutta quanta la famiglia umana, o almeno così allora si credeva.

— Da questo cambiamento storico-sociologico è scaturita una nuova coscienza ecclesiale, un nuovo modo di comprendersi della chiesa: la chiesa si identifica con il regno di Dio realizzato su questa terra, essa è domina et imperatrix, in breve essa coincide per tutto e in tutto con l’azione stessa di Dio.

— In questa impostazione colui che è al di fuori della chiesa:

 

1. essendo il vangelo stato annunziato fino ai confini della terra (così si pensava allora naturalmente) se egli è al di fuori lo è per una sua scelta, e quindi per un rifiuto colpevole. Per questo egli è del tutto assimilabile agli eretici, agli scismatici e ai giudei;

2. egli è al di fuori di una qualunque azione di Dio perché questa è circoscritta e contenuta dalla chiesa;

3. data la situazione sociologica della chiesa colui che è al di fuori della chiesa è visto come “nemico”, egli è il diverso, l’avversario; in breve egli è il seguace del diavolo. Da qui lo spirito di condanna che si sviluppa nei suoi confronti.

 

Quello che c’è da aggiungere è che davvero questa era la fede generale e comune di tutta la chiesa, dal primo all’ultimo cristiano, senza eccezioni consistenti. E sotto questa fede ci stava la stessa fede nel valore universale dell’opera redentiva di Cristo: non era concepibile alcuna distinzione tra l’extra ecclesiam nulla salus e il « non v’è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati » (At. 4, 12). Così stavano allora le cose!

 

Il periodo delle controversie: dal XVI al XX secolo

Il periodo che dobbiamo ora analizzare è talmente complesso che sono costretto a premettere alcune considerazioni generali per aiutare il lettore a seguire “il filo della matassa”. Quanto nei due precedenti periodi avevo riservato alle conclusioni, devo qui anticiparlo come introduzione.

Con la scoperta dell’America, presa naturalmente come simbolo per indicare tutte le scoperte geografiche e antropologiche successive, cambia radicalmente la visione del mondo: il mondo non coincide con l’Europa e tanto meno coincide con la chiesa. Sorge il problema teologico di che cosa pensare della situazione salvifica di questo mondo extra-ecclesiale, che si presenta ogni giorno sempre più esteso. Come se non bastasse, nella stessa società occidentale iniziano fenomeni di emancipazione dalla chiesa, esiste cioè un numero sempre più numeroso di uomini che si pongono in qualche maniera fuori dalla chiesa, e anche questi pongono dei problemi teologici.

Di fronte a questa situazione la chiesa, in tutte le sue componenti teologiche e magisteri ali, si trova come stretta da una alternativa impossibile: è impossibile pensare che l’azione di Cristo colga di fatto solo una minima parte dell’umanità (la chiesa) e che la stragrande maggioranza dell’umanità vada perduta; è impossibile rinunciare a una verità di fede ritenuta come vera per interi secoli e condensata appunto nell’extra ecclesiam nulla salus, che ribadiva la necessità di appartenere alla chiesa per raggiungere la salvezza. Alle prese con questo dilemma la chiesa tentò un

compromesso, una via cioè che salvasse ad un tempo i due principi opposti: la necessità della chiesa in ordine alla salvezza e la portata universale dell’opera redentiva di Cristo. Questo compromesso, passi la parola, fu un equilibrio continuamente instabile, continuamente da cercare, continuamente da difendere fra i due opposti estremi, continuamente insoddisfacente.

 

La storia di questo terzo periodo si può ritenere conclusa all’otto agosto del 1949 con il decreto del santo ufficio all’arcivescovo di Boston, o se si preferisce con l’inizio del concilio Vaticano II. La scolastica si era già posto il problema della salvezza di un eventuale pagano che fosse in qualche maniera in buona fede, e l’aveva risolto ricorrendo a mezzi straordinari, paragonabili a un miracolo (Dio avrebbe potuto mandare un angelo, o una ispirazione speciale, o inviare un missionario). Ma qui il problema aveva un’impostazione meramente teorica.

Nel secolo XVI, l’epoca appunto delle grandi scoperte, teologi come Bellarmino (1542-1621) e Suarez (1548-1617) e lo stesso concilio di Trento (DS. 1524) parlarono di un battesimo “in voto”, il che voleva dire che si poteva entrare nella chiesa senza ricevere concretamente il battesimo, ma attraverso particolari disposizioni interiori. Era un modo di allargare i confini della chiesa in modo di giustificare la salvezza di quanti vivevano al di fuori di essa. La professione di fede tridentina, emanata da Pio IV nel 1564, ribadisce la formula Extra quam (catholicam fidem) nemo salvus esse

potest (DS. 1870). Ma ora comincia un duello veramente curioso: nel 1653 Innocenzo X condanna la frase di Giansenio «E’ semipelagiano dire che Cristo sia morto per tutti » (DS. 2005); nel 1713 Clemente XI condanna la frase di Quesnel « Fuori della chiesa non c’è grazia » (DS. 2429); ma nella professione di fede, prescritta da Benedetto XIV nel 1743 agli orientali, viene ribadito che al di fuori della chiesa cattolica nemo salvus esse potest (DS. 2540); e nel 1832 Gregorio XVI condanna l’indifferentismo di Lamennais, il quale affermava che « con una qualsiasi professione di fede si può ottenere la salvezza eterna » (DS. 2730).

Ugualmente strana e conflittuale sembra la posizione di Pio IX (1846-1878): da una parte condanna la proposizione homines in cuiusvis religionis cultu aeternam salutem assequi posse (DS. 2785); e nel Sillabo condanna pure la frase « Si può almeno nutrire buona speranza per la vita eterna di coloro che non appartengono in nessun modo alla chiesa di Cristo » (DS. 2917), e giunge perfino a sostituire la vecchia formula Extra catholicam ecclesiam con una più radicale che suona Extra apostolicam Romanam ecclesiam e sottolinea che il legame della salvezza con la chiesa è ex fide tenendum (25); da un’altra parte ammette la salvezza di coloro che sono al di fuori della chiesa “per ignoranzia invincibile” e sono quindi in buona fede: questi si salvano

dunque senza appartenere alla chiesa (DS. 2866). Qui si ammette che quelli al di fuori della chiesa possano essere uomini onesti.

Ugualmente nella lettera apostolica Iam vos omnes del 1868, indirizzata ai protestanti e agli acattolici, Pio IX afferma che gli acattolici non possono ritenersi sicuri della loro salvezza, ma non nega che si possano salvare (DS. 2999).

Intanto, in mezzo a tutte queste battaglie, sono emersi due principi importanti: un allargamento del concetto di chiesa per mezzo del battesimo in “voto” per cui essa può abbracciare al limite tutti; un riconoscimento di uno stato di buona fede in cui si può trovare la persona al di fuori della chiesa, stato di buona fede che può giustificare la sua salvezza anche senza la chiesa.

A ben vedere sono due principi che avvicinano le due polarità di quella “impossibile alternativa” che abbiamo visto sopra: da un lato si estende la chiesa e dall’altro lato si aumentano le possibilità teologiche del “pagano”. Da parte del magistero ufficiale della chiesa la questione dell’extra ecclesiam nulla salus, se si esclude il concilio Vaticano II, non cambiò molto durante il ventesimo secolo (26).

Particolarmente importante è la posizione sostenuta da Pio XII nell’enciclica Mystici corporis (1943): i punti essenziali, per altro non da tutti interpretati allo stesso modo, sembrano essere i seguenti:

 

1. il corpo mistico di Cristo è identico alla chiesa cattolica romana;

2. struttura visibile e realtà invisibile della chiesa debbono essere tenute unite (si parlava di una appartenenza all’anima distinta di una appartenenza al corpo, che era un altro modo per esprimere la tradizionale appartenenza in voto vel in re);

3. la chiesa visibile è la causa della salvezza di tutti gli uomini;

4. i veri membri della chiesa sono quelli che appartengono anche alla struttura visibile della chiesa, tuttavia tutti coloro che inscio quodam desiderio ac voto ad mysticum Redemptoris Corpus ordinentur possono salvarsi (DS. 3821).

 

Le discussioni teologiche seguite a questa enciclica hanno dimostrato che il pensiero contenuto in essa tentava di correre sul filo del rasoio: da una parte la chiesa visibile è mezzo di salvezza per tutti gli uomini e dall’altra gli uomini si possono salvare anche attraverso un’appartenenza spirituale al Corpo di Cristo.

Qualche anno più tardi la questione dell’Extra ecclesiam nulla salus occupò la cronaca internazionale a causa di un certo Leonard Feeney: costui andava dicendo che tutti i non cattolici, esclusi i catecumeni, non possono salvarsi. Intervenne l’allora santo ufficio con una lettera all’arcivescovo di Boston, dove vengono ancora una volta riassunti i punti della dottrina cattolica:

 

— la chiesa è mezzo di salvezza — divina sola institutione — non per necessità intrinseca;

— il voto o il desiderio implicito sono sufficienti alla salvezza;

— viene respinta l’affermazione Homines in omni religione aequaliter salvari posse (DS. 3866-3872).

 

Anche in quest’ultimo documento vi è un certo oscillamento sulla natura del voto implicito. Da un lato si dice infatti che esso consiste in unadisposizione dell’anima qua homo voluntatem suam Dei voluntati conformem velit. Da un altro lato si dice invece che il voto perfetta caritate informetur; nec votum implicitum effectum habere potest, nisi homo (idem habeat supernaturalem (3872).

 

Ero partito dicendo che con l’inizio dell’età moderna la chiesa si era trovata in una alternativa impossibile, e che aveva tentato di uscirne con un compromesso mai definitivamente trovato: credo che anche questi ultimi documenti del magistero confermino questo giudizio.

Per uscire da questa alternativa impossibile bisogna cambiare l’impostazione del problema, bisogna cambiare i termini stessi del problema: è appunto quanto è avvenuto dopo e sta tutt’ora avvenendo.

 

Il concilio vaticano II: una diversa impostazione?

I limiti che mi sono imposto in questo articolo non mi hanno permesso di esplorare la grande evoluzione teologica che, attorno al problema della salvezza dei non cristiani, è avvenuta a partire dagli anni trenta. Sono convinto che i punti fondamentali del problema sono stati completamente rovesciati: è sorta una diversa concezione dell’atto di fede, una diversa visione della chiesa e della sua missione nel mondo e nella storia, una diversa valutazione del ruolo sacramentale delle religioni. Partendo da queste nuove premesse teologiche il problema dell’extra ecclesiam nulla salus viene oggi comunemente impostato, almeno in campo teologico, in termini completamente opposti a quelli tradizionali (27).

Il filo conduttore di questa rilettura storica sono stati i documenti del magistero: penso dunque di dovermi limitare a presentare brevemente il pensiero del Vaticano II, senza entrare nelle recenti riflessioni teologiche, cosa questa che richiederebbe un servizio a parte.

Il Vaticano II non ha ripreso l’assioma Extra ecclesiam nulla salus, neppure quando tratta espressamente dei non cristiani: si può presumere che ci sia stata un’esplicita volontà di non voler riprendere questa formula. Tuttavia in nessun punto il Vaticano II ha corretto l’assioma stesso.

Il concilio ammette chiaramente la possibilità di salvarsi al di fuori della chiesa, sia attraverso un ‘ordinamento’ (ad Populum Dei diversis rationibus ordinantur) alla chiesa stessa, sia attraverso mezzi di grazia presenti nelle religioni non cristiane (28), e nella vita dell’uomo in generale (29).

Anche per il concilio Vaticano II restò fermo ed indiscusso che solo Cristo è la « via », ma non ne concluse che tutto ciò che è, apparentemente, fuori di Cristo va classificato come non via: ne concluse soltanto che tutto ciò che è via fuori di lui, lo è in forza di lui, e quindi in realtà gli appartiene come via da via (30).

Il ruolo della chiesa nell’impostazione del concilio appare molto complesso e volutamente non fissato: esso è condensato nella poliedrica frase che definisce la chiesa come universale saluti sacramentum (31).

Attorno alla linea dorsale qui descritta ruotano altre affermazioni non sempre e completamente armonizzabili, dovute alla pluralità delle correnti presenti nel concilio.

Si noterà come l’accento tende a spostarsi dalla chiesa al Cristo, e si noterà soprattutto quanto diverso è lo spirito con cui i padri conciliari leggono le realtà religiose extra-ecclesiali.

Per rendersi ulteriormente conto di questa positiva evoluzione nell’atteggiamento della chiesa basti ricordare qui, come ultimo documento magisteriale, l’Evangelii nuntiandi di Paolo VI. Trattando, nella parte quinta, dei destinatari dell’evangelizzazione il Papa scrive:

 

“Esso (primo annuncio) si rivolge anche a immense porzioni di umanità che praticano religioni non cristiane, che la chiesa rispetta e stima perché sono l’espressione viva dell’anima di vasti gruppi umani. Esse portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi. Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare. Sono tutte cosparse di innumerevoli “germi del Verbo” e possono costituire una autentica “preparazione evangelica” (…) Tale situazione suscita, certamente, questioni complesse e delicate, che conviene studiare alla luce della tradizione cristiana e del magistero della chiesa… Anche di fronte alle espressioni religiose naturali più degne di stima, la chiesa si basa dunque sul fatto che la religione di Gesù, che essa annunzia mediante l’evangelizzazione, mette oggettivamente l’uomo in rapporto con il piano di Dio, con la sua presenza vivente, con la sua azione: essa fa così incontrare il mistero della paternità divina che si china sulla umanità; in altri termini, la nostra religione instaura effettivamente con Dio un rapporto autentico e vivente, che le altre religioni non riescono a stabilire, sebbene esse tengano, per così dire, le loro braccia tese verso il cielo” (32).

 

Per dirla in termini più tradizionali: la salvezza è data anche nelle religioni non cristiane, quindi al di fuori della chiesa, ma la chiesa cattolica possiede un rapporto più autentico e più pieno con Dio. Mentre nelle religioni non cristiane l’uomo arriva a Dio a causa della sua buona fede, quindi a causa del suo stato soggettivo, nel cristianesimo c’è un rapporto oggettivo ed effettivo (sono i termini usati da Paolo VI) con Dio (33).

 

Considerazioni conclusive

Ogni religione tende, quasi necessariamente, a porre la propria Divinità al di sopra di tutte le altre: questo fa parte della natura del sentimento religioso. Essendo la religione una forma ultima in cui la coscienza si pone di fronte alla realtà, colta nei suoi aspetti più universali, questa ultimità trapassa in una suprema universalità. Accettare che la propria Divinità sia inferiore o anche solo parallela ad altre, significa svuotare la portata stessa della religione, che rinuncia ad essere l’ultima parola e perciò rinuncia ad esser religione.

Da questo modo di concepire la propria Divinità può derivare per una religione storica, anche proprio in quanto religione, una pretesa di assolutezza con tendenze fanatiche di egemonia e di intolleranza. Si tratta in questo caso di una “confusione” tra la natura universale e ultima dell’oggetto religioso (la Divinità) e l’organizzazione storico-concreta della religione che ne deriva.

Questo errore è avvenuto anche nella storia del cristianesimo: nessuna meraviglia per questo, anche perché esistevano particolari condizioni storiche che lo hanno, se non determinato, almeno favorito.

Il cristianesimo crede, senza alcuna ambiguità, che in Gesù Cristo si è giocato il destino salvifico di tutta l’umanità, sia quella che è esistita prima di Cristo, sia quella che esiste attualmente, sia quella che esisterà in un domani vicino o lontano. Su questo punto il contenuto vero e autentico della fede cristiana può essere espresso dalla frase: “al di fuori di Cristo non c’è salvezza”; anche se l’espressione più corretta è naturalmente quella positiva “in Cristo c’è la salvezza di tutto il mondo”.

Quella verità originaria, presente cioè nei testi del nuovo testamento e nelle riflessioni delle prime comunità, lungo la storia si è stravolta nell’assioma esaminato, ma ora sta ritornando ai suoi contenuti autentici. La fede cristiana, partendo dal ruolo unico e universale svolto da Cristo, tende all’universalismo come promessa escatologica: ossia tende nella speranza alla manifestazione esplicita del fatto che ogni salvezza religiosa, e quindi anche ogni salvezza che avviene nelle religioni non cristiane, avviene in

Cristo e per mezzo di Cristo. Questo universalismo come promessa è stato stravolto in un universalismo come pretesa.

 

Se da questa impostazione vogliamo dire qualcosa della chiesa e sulla chiesa, possiamo dire che sotto l’assioma negativo “Extra ecclesiam nulla salus” pulsa una coscienza autentica della comunità credente, riassumibile in due punti:

 

1. la coscienza della chiesa tiene ferma l’universalità di ciò che è accaduto in Cristo a favore di tutti gli uomini;

2. e la stessa coscienza indica storicamente un luogo dove la salvezza di Cristo si manifesta, come salvezza universale: questo luogo è la chiesa stessa.

 

La formula vera sarebbe allora: dentro l’arca c’è la salvezza!

 

 

Note.

 

1 Proprio riferendosi alla formula Extra ecclesiam nulla salus H. Kung scrive: «…la

teologia non manipola qui in modo non verace la verità, quando, da un lato, proclama un “al di fuori nessuna salvezza”, e, dall’altro lato, permette esplicitamente un ‘al di fuori salvezza’? Quando essa insegna cioè nelle cose il contrario, pur conservando la formula? Ed alcuni poi si domandano: a che scopo? Per affermare una continuità, che non esiste nei fatti? Per non far sfigurare un magistero, che ha trasceso la sua autorità? ». Cf., Veracità per il futuro della Chiesa, Brescia 1968, p. 190.

 

2 Commentando il v. 19 B. Schwank scrive: « Con quest’immagine (il carcere) viene

espressa una duplice verità: l’attività redentrice del Signore fu un tutto che abbracciò

ogni settore del mondo e realizzò la giustizia e la grazia di Dio. E inoltre: Cristo è il

testimone fedele, il martire che fece conoscere la sua opera salvifica a tutte le creature, anche a quelle che si erano schierate contro Dio D. Cf. Prima lettera di Pietro, Roma 1966, p. 92.

 

3 Schweizer, Il vangelo secondo Marco, Brescia 1971, pp. 398-399.

 

4 Quot enim Dei et Jesu Christi sunt, hi sunt cum episcopo… Ne erretis, fratres mei. Si quis schisma facientem sectatur, regni divini haereditatem non consequitur ». Cf. PG 5, p. 700.

 

5 « Ubi enim Ecclesia, ibi et Spiritus Dei, et ubi Spiritus Dei, ille Ecclesia et omnis gratia: Spiritus autem veritas Quapropter qui non partecipant eum, neque a mammillis matris nutriuntur in vitam, neque percipiunt de corpore Christi procedentem nitissimum fontem: sed elfundiunt sibi lacus detritas de fossis terrenis, et de coeno putidam bibunt acquam… ». Cf. PG 7, pp. 966-967; un pensiero analogo di Ireneo si trova nella stessa opera qualche capitolo prima: PG 7, p. 855.

 

6 « Quemadmodum enim eius voluntas est opus, et id mundus nominator; ita etiam eius propositum est hominum salus, et ea votata est Ecclesia ». Cf. PG 8, p. 281.

 

7 «Si quis ergo salvari vult, veniat in hanc domum huius quae quondam meretrix fuit.

Etiamsi de illo populo vult aliquis salvari, ad hanc domum veniat ut salutem consequi

possit. Extra hanc domum, id est extra ecclesiam nemo salvatur ». Cf. PG 12, pp. 841-842.

 

8 J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971, p. 370

 

9 «Cum vero et arca Noe nihil aliud fuerit quam Sacrametum Ecclesiae Christi, quae tunc, omnibus foris pereuntibus, eos solos servavit qui intra arcam fuerunt, manifeste instruimur ad Ecclesiae unitatem perspiciendam, quemadmodum et Apostolus Petrus posuit dicens… (citazione di 1 Pt. 3, 21) sic et nuns quicumque in Ecclesia cum Christo non sunt, foris peribunt, nisi ad unicum et salutare Ecclesiae lavacrum per paenitentiam convertantur ». Cf. PL. 3, p. 1168.

 

10 Epistola ad Jubaianum: PL 3, pp. 1123-1124.   PL. 4, p. 503.

 

12 Il passo è riportato da J. Ratzinger, o.c., p. 371 in nota.

 

13 Fluctuat non mergitur diranno i padri: cf. H. Fries, Mutamenti dell’immagine della

chiesa ed evoluzione storico-dogmatica, in Mysterium salutis, vol. VII.

 

14 Per il primo si veda: Divinae institutiones 4,30,11 s.; per il secondo: Ep. Ad Damasum 2.

 

15 PL. 42, p. 265.

 

16 « Dominus Deus noster… faciet nos gratias agere Deo de salute eius, quam non potest habere nisi in Ecclesia catholica. Extra Ecclesiam catholicam totum potest praeter salutem. Potest habere honorem, potest habere sacramentum, potest cantare Alleluia, potest respondere Amen, potest Evangelium tenere, potest in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti fidem et habere et praedicare: sed nusquam nisi in Ecclesia catholica salutem potest invenire ». PL. 43, p. 695.

 

17 PL. 59, p. 89.

 

18 « Quicunque vult salvus esse, ante omnia opus est, ut teneat catholicam fled em: quam nisi quisque integram inviolatamque servaverit, absque dubio in aeternum peribit (…) Haec est fides catholica: quam nisi quisque fideliter crediderit, salvus esse non potent ». DS. 75-76.

 

19 « Firmissime tene, et nullatenus dubites, non solum omnes pagans, sed etiam omnes

judeos, et omnes haereticos atque schimaticos, qui extra Ecclesiam catholicam

praesentem finiunt vitam, in ignem aeternum ituros, qui paratus est diabolo et angelis

eius ». PL 65, p. 704

 

20. DS. 468-469.

 

21 DS. 575.

 

22DS. 792.

 

23DS. 870-872

 

24 DS. 1351. Anche il concilio lateranense IV (1215) parlando della chiesa aveva detto: Una vero est fidelium universalis Ecclesia, extra quam nullus omnino salvatur…

DS.802

 

25 Questa radicalizzazione è presente nell’allocuzione Singulari quadam del 1854, ora

non più riportata nel DS. Si veda il commento di J. Ratzinger, o.c., pp. 375-376.

 

26 Dico da parte del magistero ufficiale, perché un giudizio completamente diverso

andrebbe dato per la ricerca teologica, sulla quale non mi è possibile soffermarmi ora.

 

27 Credo d’aver dimostrato tutto questo in un mio volume che sta uscendo presso le

edizioni Boria con il titolo « Religioni e salvezza ». Ad esso mi premetto rimandare

il lettore desideroso di accostare il problema della salvezza al di fuori della chiesa

secondo le correnti teologiche attuali.

 

28 Lumen gentium n. 16.

 

29 Gaudium et spes, n. 12-22

 

30 Così J.Ratzinger, o.c., p. 378.

 

31 Lumen gentium n. 48 (ed. Dehoniane n. 416).

 

32 L’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, edizioni Paoline, pp. 48-50

 

33 La formula Extra ecclesiam nulla salus ritorna in molti autori e protagonisti della

riforma protestante: non mi è qui possibile entrare in merito all’impostazione del

problema presso i protestanti. Basti dire che in genere, presso i protestanti il senso

della formula risulta invertito: non è la salvezza che viene definita a partire dalla

chiesa, ma è invece la chiesa che viene definita a partire dalla salvezza. In altri

termini: la chiesa è là dove avviene la salvezza, poiché la chiesa è in tutto e per tutto

una realtà spirituale.

 

Appendice 2. Appunti cronologici: da Gesù alla distruzione di Gerusalemme (anno 70)
Il contesto istituzionale
Dal 63 aC la Palestina è occupata dai Romani. Pompeo, occupata Gerusalemme, nomina Ircano sommo sacerdote. Antipatro, ministro di Ircano, governa di fatto la Giudea. Gli Ebrei avvertono la pressione, politica e culturale, circostante. Rivolte degli ultimi Asmonei.

Ci sono correnti che sentono come imminente l’arrivo del Messia, pronto a restaurare il regno d’Israele.

47 aC  Cesare nomina Ircano etnarca. Erode, figlio di Antipatro, stratega della Galilea, reprime la rivolta di Ezechia.

40 aC  I Parti invadono la Siria e la Palestina. Nominano Antigono re e sommo sacerdote. Ircano è mutilato. Erode fugge a Roma. Il senato romano nomina Erode re. Due anni dopo i Parti vengono cacciati.

37-4 aC  Erode il Grande, re effettivo. Fa costruire la torre Antonia e in seguito il grande palazzo nella città alta e l’Herodium.

30 aC  Erode fa uccidere Ircano. Dal 29 aC Erode è “re alleato” di Roma.

Dal 27 aC con Ottaviano Augusto lo Stato romano diventa un Impero, che concede autonomia amministrativa alle città, mantenendo accentrato il sistema fiscale e militare (per conservare le forti disuguaglianze).

L’unità culturale è favorita dall’ampio uso della lingua greca (la koinè ellenistica).

20-19 aC  Erode inizia la ricostruzione del Tempio.

12-6 aC  Il censimento di Lc 2,1s.? Cf. l’iscrizione di Venezia, non datata, che attesta un censimento in Siria per ordine di Quirinio “legato di Siria” (cf Lc 2,2+). Secondo Tertulliano è Senzio Saturnino, legato di Siria dal 9 al 6 aC che procede al censimento della Giudea.

7 ca.  Erode fa strangolare i suoi due figli Alessandro e Aristobulo, avuti da Mariamne I.

 

 

L’epoca di Gesù (7 aC – 30 dC)
Il potere fino al 30.
4 aC  Fine marzo – inizio aprile:  a Gerico muore Erode il Grande, il cui corpo viene tumulato nell’Herodium. La sua morte indebolisce notevolmente il controllo romano dell’area a causa di una complicata successione al trono tra i suoi tre figli: Archelao (re di Giudea, Samaria e Idumea) deposto nel 6 dC per l’incompetenza dimostrata, Erode Antipa (re fino al 39 di Perea e Galilea), Filippo (re fino al 34 dei territori del nord-est, Iturèa e Traconìtide). Sabino, procuratore dei beni di Augusto in Siria, si reca a Gerusalemme per fare l’inventario delle risorse del regno d’Erode.

6 dC  Augusto depone Archelao e lo esilia a Vienna (Gallia). La Giudea diventa provincia procuratoria (o per procura), con Cesarea per capitale (6-41). Coponio è procuratore (6-8). Anna, figlio di Set, sommo sacerdote (6(?)-15).

Giuda il Galileo (un pretendente al trono di Gerusalemme), assieme al fariseo Saddoq, approfitta della situazione e con un esercito formato da esseno-zeloti (che predicavano il rifiuto del tributo a Roma: origine degli zeloti, cf. Mt 22,17), attacca i romani (cf. At 5,37) e genera una reazione immediata che termina solo dopo ben tre interventi da parte di Quintilio Varo, proconsole in Siria. La repressione, sollecitata da Sabino (nel 7 dC), da parte dei romani, è feroce: la crocifissione di duemila rivoltosi genera l’odio verso i romani da parte degli ebrei.

Dopo Augusto (+ 19 agosto 14), imperatore romano è Tiberio (dal 14 al 37), adottato da Augusto nell’anno 4.

Il procuratore Valerio Grato (15-26) destituisce Anna nel 15. Si succedono tre sommi sacerdoti. Poi Giuseppe detto Caifa (gr. Καῖάφα), genero di Anna (parecchio influente all’interno del sinedrio per molti anni), è sommo sacerdote e capo del sinedrio ebraico dal 18 al 36.

Ponzio Pilato (gr. Πόντιος Πιλᾶτος) è il quinto prefetto (tra il 26 e il 36) della Giudea (con Cesarea come capitale), una prefettura della provincia romana di Siria che si estende sulla Giudea, la Galilea, la Samaria e l’Idumea.

Gerusalemme all’epoca conta secondo Tacito 600 mila abitanti (oltre un milione per Flavio Giuseppe; la maggior parte delle stime si aggira fra i 2 e 3 milioni, ma stime sempre molto esagerate).

Sovrano (tetrarca) dell’area fino al 39 è Erode Antipa. Nel 17 ca.  Erode Antipa fonda Tiberiade. Sotto Tiberio, Lisània diventa tetrarca di Abilène (Lc 3,1)

27 ca.  Erode Antipa già ammogliato con la figlia di Areta IV, re della Nabatena (fino al 39), sposa Erodiade, moglie di Erode suo fratello.

La vita di Gesù (7 aC – 30 dC)
Il nome “Gesù”, in aramaico יֵשׁוּעַ (Yeshu’a, pron. iish(uo)a ), che significa “YHWH salva”; in greco, come si trova nei Vangeli, è Ιησοῦς (pr. Iesus).

Gesù nasce tra il 7 aC e il 5 aC.

Secondo i Vangeli dell’infanzia, il padre adottivo è Giuseppe e Maria la madre (12-14 anni); il luogo di nascita è Betlemme: mancando questa indicazione in Mc e Gv, è possibile anche Nazareth (la nascita teologica nella linea davidica è Betlemme, quella anagrafica forse Nazareth).

Le informazioni su Gesù. Non avendo scritto nulla, ciò che conosciamo di Gesù, della sua vita, dei suoi detti e dei suoi insegnamenti proviene quasi esclusivamente dai vangeli e dalle lettere del Nuovo Testamento.

La lingua parlata da Gesù è l’aramaico; l’ebraico è ormai una lingua elitaria e liturgica.

E’ nell’epoca della rivolta esseno-zelota di Giuda il Galileo (6-7 dC) che il ragazzo Gesù “cresce in sapienza, età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini” (Lc 2,52) e che a soli 12 anni discute con i dottori del Tempio secondo la lettura teologica di Luca. E’ figlio di un “tektòn” (falegname-carpentiere) e “tektòn” egli stesso.

Giovanni il Battista (ebr. Iehôhānān, gr. Ιωάννης), di famiglia sacerdotale ebraica, è coetaneo di Gesù (nasce 6 mesi prima). Decisiva per la sua formazione la madre Elisabetta. E’ fondatore di una comunità battista, che sta all’origine di alcuni movimenti religiosi del I secolo. Luca lo colloca in un quadro storico ben preciso (Lc 3,1-2), riconducibile al periodo corrispondente agli anni 27 e 28 (anno decimoquinto dell’impero di Tiberio). Il Battista muore a causa della sua predicazione, essendosi messo pubblicamente in contrasto con Erode Antipa, che, dopo averlo arrestato a Macheronte (secondo Giuseppe Flavio) e imprigionato, lo fa decapitare (inizio del 29).

Ministero pubblico (cercando una sintesi secondo il racconto dei vangeli senza pretesa di corretto svolgimento storico). A partire dall’autunno del 27 (?), Gesù si manifesta pubblicamente: inizia con il battesimo sulle rive del Giordano e si conclude con l’ultima cena a Gerusalemme; partecipa a banchetti e frequenta anche farisei e pubblicani. Predica in giro per la Galilea e recluta i primi discepoli, che iniziano a viaggiare con lui e vengono poi a costituire il nucleo della prima comunità. La sua predicazione e il suo operato riscuotono nella società ebraica coeva un limitato successo, poiché si presenta come un predicatore itinerante, ma non come il Messia atteso.

28  Pasqua.  Gesù a Gerusalemme (Gv 2,13): scaccia dal tempio i mercanti.

Il ministero di Gesù comincia in Galilea, prosegue in Giudea e in Perea, per concludersi nel capoluogo della Giudea.

29  Poco prima di Pasqua, la moltiplicazione dei pani (Gv 6,1; Mt 14,13). Alla Festa delle capanne (Sukot, inizio autunno) Gesù è ancora a Gerusalemme (Gv 7,10).

Un terzo dei Vangeli è dedicato all’ultima settimana di Gesù a Gerusalemme. La data più probabile della sua morte è il venerdì 7 aprile 30 (altre date ipotizzate vanno dal 31, se si adotta la cronologia dei sinottici, al 33): è la vigilia di Pasqua e quindi il 14 di nisan, (7 aprile), di venerdì  (Gv 19,31).

 

 

I primi passi della comunità cristiana (30-36)
Il potere negli anni 30-36.
Imperatore romano è sempre Tiberio (fino al 37), Ponzio Pilato il prefetto (fino all’autunno del 36), Sovrano dell’area fino al 39 Erode Antipa.

33-34  Filippo muore senza eredi. Tiberio unisce la sua tetrarchia alla provincia di Siria.

Difficoltà di Pilato con i giudei: la questione delle insegne e quella degli scudi (Filone). 35 ca.  Pilato fa massacrare dei Samaritani sul Garizim.

36 Autunno  Ponzio Pilato mandato a Roma da Vitellio per giustificarsi. Viene destituito.

Caifa sommo sacerdote e capo del sinedrio ebraico fino al 36.

Le prime esperienze della comunità cristiana.
9 aprile 30: racconto delle apparizioni di Gesù ai suoi discepoli, a partire dalla mattina della resurrezione e per i “quaranta” giorni successivi (Lc 24,36; Gv 20,19; Mt 28,9; At 1,3).

18 maggio 30: racconto dell’ascensione di Gesù (40 giorni dopo la resurrezione).

Nomina di Mattia come nuovo apostolo, in sostituzione di Giuda Iscariota.

28 maggio 30: con la Pentecoste (gr. πεντηκοστή [ἡμέρα], cioè pentecosté [hēméra], “cinquantesimo [giorno]”), i discepoli di Gesù ricevono l’effusione dello Spirito Santo (At 2,1-4).

Nasce così la prima comunità cristiana di Gerusalemme e inizia la predicazione pubblica di Pietro e degli altri apostoli. 3000 persone si fanno battezzare e si uniscono a loro (At 2,41)

Il gruppo nascente di seguaci continua a sentirsi nell’alveo dell’ebraismo: costoro frequentano ogni giorno e tutti assieme il Tempio (At 2,46).

Anno 31: secondo una tradizione, Maria (madre di Gesù) muore circa un anno dopo la morte del figlio[1].

Anno 33 c.: I dodici apostoli eleggono i sette “per il servizio delle mense” (At 6,3), che saranno in seguito chiamati diaconi: Stefano, Procoro, Filippo, Nicanore, Timone, Parmena, Nicola.

34/36  Prima ondata di persecuzioni. Il diacono ellenista Stefano viene catturato e lapidato, alla presenza di Saulo: è il primo martire cristiano (At 7,58-60). Poco dopo viene la chiamata di Saulo di Tarso (At 9,3-4), mentre è in viaggio diretto a Damasco, per arrestare i cristiani del luogo (At 9,1); l’ex-persecutore dei cristiani, ora discepolo di Gesù (in seguito verrà chiamato Paolo), soggiorna presso gli arabi Nabatei.

34-45  Pietro in Samaria, a Lidda, Giaffa, Cesarea M. e Gerusalemme (At 8-11).

36/38  (a seconda della data della chiamata) Paolo rientra a Damasco, ma poi fugge (2Co 11,32s) e fa visita ai capi della chiesa a Gerusalemme, dove Giacomo (il fratello del Signore), Pietro e Giovanni sono le colonne riconosciute della comunità (Gal 2,9).

 

 

La comunità si espande (37-50)
Il potere negli anni 37-50.
Muore Tiberio (marzo 37), nuovo imperatore romano è Caligola (dal 37 al 41).

Sovrano dell’area fino al 39 è Erode Antipa; Caligola lo manda in esilio ed affida la sua tetrarchia ad Agrippa I (dal 39 al 44).

41-54  Claudio imperatore. Affida ad Agrippa I la Giudea e la Samaria. E così, grazie ai precedenti affidamenti del 37 e del 39 da parte di Caligola, il regno di Erode il Grande viene ricostituito. Agrippa I avvia la costruzione della terza cinta di Gerusalemme, ma Claudio fa interrompere i lavori.

44-66  La Giudea ridiventa provincia procuratoria: con la morte di Agrippa I, l’imperatore Claudio decide di riportare la provincia Iudaea sotto il diretto controllo di Roma attraverso un Procurator Augusti: a Cuspio Fado (44-46), successe nel governo Tiberio Giulio Alessandro (46-48) e quindi Ventidio Cumano (48-52). E’ sotto Tiberio Alessandro che si verifica la grave carestia.

Nel 49 Claudio caccia da Roma i giudei che si agitano “per ordine di Cresto” (Svetonio – cfr. At 18,2)

Tempio e sinedrio. Lucio Vitellio (padre dell’imperatore Vitellio), legato in Siria (35-39), munito di pieni poteri per l’Oriente, sostituisce Caifa con Gionata, figlio di Anna. Ben otto i capi del sinedrio ebraico nel periodo[2].

45  Erode, re di Calcide (41-48), fratello di Agrippa I, nominato ispettore del Tempio, col diritto di designare i sommi sacerdoti, nel 47 designa sommo sacerdote Anania (47-52)(cf At 23,2s).

 

La Chiesa primitiva tra espansione e persecuzioni.
36–38: Prima ondata di persecuzioni. I cristiani ellenisti fuggono da Gerusalemme e iniziano a diffondersi in altre città: “tutti, ad eccezione degli apostoli, furono dispersi nelle regioni della Giudea e della Samarìa” (At 8,1). I dispersi fuggono poi in Fenicia, a Cipro e ad Antiochia, predicando la Parola ai soli Giudei (At 11,19).

37  Cristiani di Cipro e di Cirene arrivano ad Antiochia di Siria e predicano la Parola anche ai Greci, convertendone molti (At 11,20-21). E’ qui che per la prima volta i seguaci di Gesù vengono chiamati “cristiani” (At 11,26).

Tra i missionari, ci sarà anche Giuseppe di Cipro, chiamato Barnaba dopo la conversione all’epoca della Pentecoste: mandato dalla comunità di Gerusalemme nel 43, assieme a Paolo, diventerà uno dei leader della comunità. Paolo e Barnaba rimarranno ad Antiochia un anno intero.

40-50. Composizione dell’ipotetica Fonte Q, o Fonte dei detti sinottici: elenco di detti presenti nello stesso ordine in Mt e Lc, trasmesso prima oralmente e in seguito messo per iscritto.

Anno 44: Seconda ondata di persecuzioni. Giacomo il Maggiore (fratello di Giovanni) viene ucciso per ordine di Erode Agrippa: è il primo degli apostoli a morire. Anche Pietro viene arrestato, ma riesce a fuggire (At 12,1-19). La guida della comunità resta sempre all’altro Giacomo (il Giusto), detto “fratello di Gesù”.

45-48 Primo viaggio missionario di Paolo: Antiochia, Cipro, Perge, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra, Derbe; rientro ad Antiochia. (At 13,4- 14,28). Durata del viaggio: dai 2 ai 5 anni, a seconda delle ricostruzioni.

48 ca.  Carestia in Giudea, aggravata dall’anno sabbatico 47-48. Paolo e Barnaba portano gli aiuti della comunità di Antiochia alla comunità di Gerusalemme.

49  Concilio-sinodo degli apostoli a Gerusalemme: i convertiti dal paganesimo esentati dalla legge mosaica (At 15,5s; Ga 2,1s)

49-52  Seconda missione di Paolo: Listra (Timoteo), Frigia, Galazia, Filippi, Tessalonica, Atene, Corinto. (At 15,40-18,11). Da Corinto le Lettere ai Tessalonicesi. Comparizione in giudizio di Paolo di fronte a Gallione, fratello di Seneca, proconsole di Acaia (At 18,12-17).

50 ca.  Viene messo per iscritto il vangelo orale (Matteo aramaico?).

 

 

Formazione dei testi neotestamentari e strappo dalla tradizione giudaica (50–70)
Avvenimenti storici e potere dal 50 al 70.
52-60  Antonio Felice procuratore della Giudea. Sposa Drusilla (cf At 24,24) (già maritata ad Aziz re di Emesa), sorella di Erode-Agrippa II (re di Calcide dal 48 al 53), figlio di Agrippa I e dal 45 ispettore del Tempio col diritto di designare il sommo sacerdote.

53  In cambio di Calcide, Claudio dà ad Erode, che diventa Agrippa II, le tetrarchie di Filippo e di Lisania (53-95).

54  Nerone imperatore (54-68). Nel 55 Nerone aggiunge al regno di Agrippa II una parte della Galilea e della Perea.

62-64  Anan viene destituito da Agrippa II.
64-66  Gessio Floro procuratore. E’ nominato grazie a Poppea, la sposa giudea di Nerone.

64 Luglio.  Incendio di Roma e persecuzione dei cristiani.

66  Sollevazione e massacro di molte migliaia di giudei di Alessandria d’Egitto.
Estate.  A Gerusalemme crocifissione di alcuni giudei; una sollevazione obbliga il procuratore Gessio Floro (64-66) ad abbandonare la città. Torbidi a Cesarea e in tutto il paese. Settembre. Gestio Gallo, legato in Siria (63-66) tenta invano di riprendere la città. Governo insurrezionale. Esodo dei nobili e forse dei cristiani (cf Lc 21,20s).
Fine 66 – inizio 67.  Nerone designa Vespasiano e suo figlio Tito per ristabilire l’ordine in Palestina.

67  Vespasiano con 60.000 uomini riconquista la Galilea.

67-68  Gli zeloti, in parte fuggiti dalla Galilea, e gli Idumei spadroneggiano a Gerusalemme. Anan e i notabili massacrati.

67-69  Muziano legato in Siria.

68 Aprile.  Galba imperatore. Vespasiano occupa la pianura marittima e la valle del Giordano, Distruzione di Qumran. 9 Giugno: Suicidio di Nerone

69 Gennaio.  Ottone proclamato imperatore dai pretoriani, Vitellio dalle legioni della Germania. Luglio.  Tiberio Alessandro ( vedi sopra, anno 46) si pronuncia per Vespasiano. E’ seguito da tutto l’Oriente.

69-79  Vespasiano imperatore. Fine 69: Vespasiano unico signore dell’impero.

69  Vespasiano sottomette il resto della Giudea. Simone Bargiora e i “sicari” mantengono le posizioni a Gerusalemme, a Herodium, a Masada e Macheronte. Vespasiano affida al figlio Tito l’assedio di Gerusalemme.

70 Pasqua.  Numerosi pellegrini a Gerusalemme. Poco dopo Tito assedia la città con quattro legioni, avviandone l’agonia. Carestia. Presa della fortezza Antonia.

Agosto: cessano i sacrifici nel Tempio. 29 agosto: occupazione e incendio del Tempio, davanti al quale si sacrifica alle insegne romane. Tito salutato imperator.

Settembre. Occupazione della città alta e del palazzo di Erode. Gli abitanti sono uccisi o venduti o condannati ai lavori forzati. La Giudea diventa provincia imperiale. Cesarea colonia romana. Tito in Siria: numerosi giudei uccisi nei giochi gladiatori.

 

Primi passi della Chiesa e prime testimonianze scritte (in greco).
Estate 52:  Paolo passa ad Efeso e si reca a Gerusalemme (?), poi ad Antiochia (At 18,18-22).

53  Inizia la terza missione di Paolo. Apollo ad Efeso, poi a Corinto (At 18,24-19,1).

54-57  Giunto attraverso la Galazia e la Frigia, Paolo soggiorna ad Efeso 2 anni e 3 mesi (At 18,23-20,1).
Del 56 (?)  la lettera ai Filippesi. Verso Pasqua 57: prima lettera ai Corinzi; rapida visita a Corinto (2Co 12,14), poi ritorno a Efeso (lettera ai Galati?).
Fine 57.  Paolo attraversa la Macedonia (At 20,1-2). Seconda lettera ai Corinzi.
Inverno 57-58.  Paolo a Corinto (At 20,3; cf 1Co 16,6). Lettera ai Galati (?).Lettera ai Romani.
Pasqua 58.  Paolo di nuovo in Macedonia, a Filippi (At 20,3-6), poi per mare a Troade, Asso, Mitilene, Mileto, Tiro, Tolemaide e Cesarea (At 20,6-21,14).
Estate 58.  Paolo a Gerusalemme (At 21,15). Capo della comunità è Giacomo (At 21,18), il fratello del Signore, la cui lettera ai giudei della dispersione è da porsi o già prima del 49 o nel 58-62 o dopo il 62 (?).
Pentecoste 58.   Arresto di Paolo nel Tempio e comparizione davanti ad Anania e al Sinedrio. Condotto a Cesarea, compare davanti a Felice (At 21,27-24,22).

58-60  Paolo prigioniero a Cesarea (At 21,23-27).
Nel 60  Paolo compare davanti al nuovo procuratore Porzio Festo (60-62), si appella a Cesare e si difende davanti ad Agrippa II (At 25-26).

60 Autunno.  Viaggio di Paolo a Roma; tempesta; inverno a Malta (At 27-28,10).

61-63  Paolo a Roma sotto custodia militare (At 28,11-31).
Lettera ai Colossesi, agli Efesini, a Filemone.

62  Il sommo sacerdote Anan, figlio di Anna, nominato da Agrippa II, fa lapidare Giacomo, il fratello del Signore; questo dopo la morte di Festo e prima dell’arrivo del nuovo procuratore Lucceio Albino (62-64).

62-64 .  A Giacomo succede Simeone, figlio di Cleofa e di Maria, cognata della Madre di Gesù (Eusebio). La lettera di Giacomo (o nel 58?).

63  Liberazione di Paolo e, forse, viaggio in Spagna (Rm 15,24s).

64 ca.  Prima lettera di Pietro (?), Vangelo di Marco (?).

64 o 67   Martirio di Pietro a Roma.

65 ca.  Paolo ad Efeso (1Tm 1,3): a Creta (Tt 1,5); in Macedonia da dove spedisce la prima lettera a Timoteo (?) (1Tm 1,3) e forse la lettera a Tito.
Vangelo di Matteo, Vangelo di Luca e Atti degli Apostoli: prima del 70? o verso l’80?

67 ca.  Lettera agli Ebrei (?); Paolo, prigioniero a Roma, scrive la seconda lettera a Timoteo (?). Poco dopo è decapitato.

 

[1] Un’altra tradizione sostiene invece che Maria sia vissuta ancora per molti anni dopo la morte di Gesù, e che la “dormizione” sia avvenuta ad Efeso, dove ella si era trasferita seguendo l’apostolo Giovanni (al quale Gesù morente l’aveva affidata).
[2] Jonathan ben Anano 36-37 Theofilo ben Anano 37-41, Simone Cantatera ben Beto 41-43, Mattia ben Anano 43, Alioneo 43-44, Jonathan ben Anano 44, Giuseppe ben Camido 44-46, Anania ben Nebedeo 46-52.