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Canova, 17 febbraio 2006 3° incontro

Quale dialogo tra cristiani e con le altre religioni?

1. Una situazione di «chiusura»

Per chi tra di noi ha potuto vivere l’atmosfera, che si era creata intorno al Concilio Vaticano II, intorno al tema del dialogo tra le chiese (ecumenismo) e del rapporto tra le religioni non-cristiane (dialogo inter-religioso), è triste e carico di rammarico il fatto di dover costatare che essa, quell’atmosfera,è profondamente mutata e che proprio il dialogo coltivato allora segna oggi il passo e addirittura «boccheggia» rispetto alle speranze nate con il Concilio.
I due documenti del Vaticano II, la Unitatis redintegratio sull’ecumenismo e la Nostra aetate avevano lanciato un ponte verso nuovi orizzonti, in un contesto positivo di ricerca della pace, cui anche le religioni avrebbero potuto dare il loro grande contributo. In questi ultimi anni, invece, il ripiegarsi identitario delle singole religioni (e comunità) e il neofondamentalismo ricorrente si sono rafforzate sia nelle diverse confessioni cristiane, sia nelle altre grandi religioni del pianeta. Le divergenze e addirittura le fratture sono grandi all’interno del Consiglio ecumenico delle chiese (il KEK), che raccoglie ben 342 denominazioni cristiane; e, sul fronte delle religioni non-cristiane, si è radicalizzata in questi ultimi anni la distanza e la freddezza, piuttosto che la vicinanza e il bisogno di comprensione. Il pericolo, mai sopito, di nuove guerre di religione, scambiate come scontro tra civiltà, è sempre in agguato.
Sul «fronte» poi, della Chiesa cattolica, i due documenti pubblicati dalla Congregazione romana per la dottrina della fede, la Dichiarazione Dominus Jesus e il testo ufficioso Nota sull’espressione: “Chiese sorelle”, hanno provocato, alla fine del 2000, un autentico choc, in particolare il secondo, perché rifiuta di dare alle Chiese protestanti e ortodosse lo statuto di «Chiese sorelle». Un grande ecumenista, il padre Jean-Marie Roger Tillard, morto di recente, parlò allora di «ritorno al punto di partenza» e il settimanale cattolico «La Croix» scrisse, con la firma di Michel Kubler, che «il testo di Roma (la “Nota”) suggerisce un’identità tra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica e fa derivare da quest’ultima ogni verità che le altre possono occultare. Questa rilettura avrà delle conseguenze rovinose sul piano ecumenico… L’assolutismo che si chiude in se stesso può fare più male di una giusta relativizzazione che permette di aprirsi all’altro» (6 settembre 2000).

2. Resistenze e «progressi» dell’ecumenismo

Essi provengono da molte parti contemporaneamente. Ma, essendo il cattolicesimo la stella maggiore della costellazione cristiana, spetta soprattutto ad esso il compito di prendere le iniziative più importanti.
Il che porta con sé un primo, grande problema: per entrare in una «concertazione virtuosa» con le altre Chiese cristiane è necessario che la Chiesa di Roma abbia stabilito prima al proprio interno degli spazi di dialogo e abbia modificato le proprie strutture in modo da creare dei veri scambi con i propri fedeli. Detto in altre parole: che essa accetti e istituisca prima una pluralità cattolica, per realizzare, poi, una pluralità cristiana, pluralità che passa, ad esempio, attraverso una maggiore collegialità al livello superiore della gerarchia e una più larga autonomia delle Chiese locali, con la corrispondente riduzione dei poteri della curia romana. Il dialogo ecumenico inciampa prima di tutto e soprattutto sul centralismo romano e l’enorme potere del Papa, il “parroco del mondo”, come si dice talvolta, che non è rie-quilibrato da nessun contrappeso.
Scrive Jean Delumeau, lo storico che ci guida nella nostra ricerca di quest’anno: «Non è un caso se, da diverse parti e a diversi livelli, si manifesta nella stessa Chiesa cattolica la richiesta che si prenda coscienza della diversità locale e del sentimento della base. Un parroco scrive nella rubrica di opinioni del quotidiano cattolico francese: “La Chiesa cattolica sempre più ‘imbustata’ nelle sue cerchie gerarchiche, spoglia il semplice credente o il sacerdote di base delle sue iniziative, proprio nel momento in cui, nella città profana, il cittadino di base è sommerso da iniziative e interventi diversi”. Nello stesso giornale Gaston Piétri, sacerdote di Ajaccio, afferma che ciò che manca alla chiesa romana sono i “gradini intermedi”. E precisa: “Bisognerebbe essere insensati per immaginare, per esempio, che delle commissioni episcopali lavorino in materia di morale familiare e politica, senza il concorso di esperti qualificati. Questi ultimi d’altra parte sono soprattutto dei laici. Ma il loro statuto è, come si dice nella società ci-vile, quello di ‘consulenti’. Per questo del resto la loro firma non compare. Non si può ignorare che dei credenti autentici, che devono confrontarsi essi stessi con tali problemi nella loro vita concreta, potrebbero disporre in questi ambiti precisi di quel ‘senso soprannaturale della fede’ (Lumen Gentium, n. 12) che permetterebbe loro di dire una parola sensata e illuminante per quanti cercano delle vere tracce del Vangelo nei nostri dibattiti di società» (in Scrutando l’aurora, pp. 121-122).
Dal canto suo il gruppo di ricerca spirituale «Paroles» ha pubblicato nel 2000 un documento intitolato «Cinque proposte per la Chiesa catto-lica», dove si legge:
«La Chiesa cattolica è percepita più come un’istituzione piramidale che come una comunità di fratelli e di sorelle corresponsabili dell’annuncio del Vangelo. La tendenza a moltiplicare le dichiarazioni di “verità intangibili” riduce la responsabilità della coscienza personale e impedisce il proseguimento di ricerche necessarie per la traduzione e l’inculturazione del messaggio cristiano. L’eccessivo fissarsi sull’autorità pontificia e il centralismo romano in ogni campo rendono difficile il dialogo con la diversità delle culture e ostacolano dei reali progressi ecumenici. Chiediamo ai responsabili di modificare la pratica attuale dell’autorità nella Chiesa. Che la concertazione abbia la meglio, in particolare prendendo in considerazione le raccomandazioni fatte dai Sinodi e riconoscendo una maggiore responsabilità alle Conferenze episcopali. Che venga incoraggiata la creazione di comunità diverse, collegate tra loro, simili a quelle descritte dagli Atti degli apostoli, che condividono i beni, le ricchezze, il mutuo aiuto e la preghiera» (in La Croix, 9 maggio 2000).
Nell’ottobre del 1999, durante la celebrazione del Sinodo per l’Europa, in Vaticano, il cardinal Martini ha gettato un sasso nello stagno, lanciando l’idea (accolta con freddezza) di un nuovo Concilio ecumenico, «per permettere – così egli si esprimeva – di sciogliere taluni nodi disciplinari e dottrinali,…che periodicamente riappaiono come punti caldi sul cammino delle Chiese». E citava: la carenza drammatica di ministri ordinati; il posto della donna nella società e nella Chiesa; la partecipazione dei laici ad alcune “responsabilità ministeriali”; la sessualità, la disciplina del matrimonio, la pratica penitenziale, la speranza ecumenica, ecc. ecc.
Gli faceva eco, nello stesso Sinodo, l’ex superiore generale dei Domenicani, il padre Timothy Racliffe, che affermò: «Nella nostra società ogni esigenza di assoluto può apparire come totalitaria. Non possiamo rispondere a questa paura affermando con forza ancora maggiore l’autorità della Chiesa. La Chiesa avrà autorità solo se noi condividiamo il cammino delle persone» .
Xavier de Chalendar, che si firma “sacerdote di Parigi”, e che ha un grande seguito in tutta la Francia, afferma da parte sua, a proposito delle prese di posizione del card. Martini: «L’autorità clericale è ancora troppo forte. Qua e là dei laici si scoraggiano, senza un riconoscimento e uno statuto abbastanza chiaro. Alcune donne hanno la sensazione di essere escluse a un certo livello di responsabilità. Come non auspicare delle innovazioni radicali, dei rinnovamenti importanti?» (in La Croix, 9 maggio 2000).
Se fosse da riassumere in poche parole le rivendicazioni che donne e uomini attenti alle esigenze di rinnovamento della Chiesa di Roma propongono, esse potrebbero essere le seguenti: l’autolimitazione del potere papale, la diminuzione di quello della Curia romana, la valorizzazione della collegialità e, più generalmente, dell’autonomia delle Chiese regionali e locali, oltre, naturalmente, la valorizzazione della dignità battesimale dei credenti, tutti “sacerdoti, re e profeti” nella comunità cristiana .
La Chiesa cattolica non può “rilanciare” il movimento ecumenico se non continuando la rivoluzione interna cominciata con il Vaticano II. Scrive Enzo Bianchi, della comunità di Bose: «Il futuro non è l’unità dei cristiani nell’uniformità. L’unità si farà tra “Chiese sorelle”. Roma non è la chiesa-madre, giacché il Cristianesimo è nato a Gerusalemme. C’è una grammatica della diversità che è necessario imparare nella Chiesa cattolica, cominciando dalle comunità locali» (in Scrutando l’aurora, pp. 127).
Non è pensabile, perciò, che l’ecumenismo si realizzi con il ritorno alla Chiesa romana. Esso può passare soltanto attraverso la relativizzazione delle istituzioni ecclesiali che sono fatte per i fedeli e non viceversa. Una cosa è il futuro delle Chiese e un’altra cosa è il futuro del Cristianesimo.
Si tratta di utopie? Forse. Ma ci vogliono delle utopie per avanzare. In ogni caso è assurdo che persone che hanno lo stesso credo religioso e lo stesso battesimo continuino a dare spettacolo di divisione e non prendano sul serio il comandamento del loro fondatore: «Che siano una cosa sola» (Giovanni 17, 11).

3. «Resistenze» e «progressi» del dialogo interreligioso

Dall’ecumenismo al dialogo interreligioso il passaggio è naturale. Essi, infatti, passano entrambi attraverso una “regionalizzazione” della Chiesa, come afferma il padre Bruno Chenu, e il riconoscimento della diversità.
Postulano uno stesso atteggiamento di apertura all’altro e il rispetto di culture a lungo ritenute ostili, estranee e inferiori. Le Chiese non sono tutto, per le forme che l’istanza religiosa dell’umanità riesce a coltivare.
La semplice obiettività ci porta a riconoscere che il Vaticano II e, poi, molti gesti simbolici di Giovanni XXIII, di Paolo VI, e di Giovanni Paolo II hanno fortemente contribuito sia a favorire il riavvicinamento tra i cristiani, sia a introdurre stima e rispetto tra il Cristianesimo e le altre religioni del mondo, a cominciare dall’Ebraismo e dall’Islamismo (come ad Assisi 2002). Si è avviato così un movimento che bisogna salutare positivamente sperando che si amplifichi .
D’altra parte è qui che nasce la domanda cruciale: fino a che punto può arrivare quello che con Sédar Senghor, il grande presidente del Senegal di qualche decennio fa, si potrebbe chiamare il «meticciato religioso»? I cristiani possono rinunciare a credere nell’incarnazione di Dio fatto uomo e a vedere Gesù non un profeta come Mosè e Maometto, o un saggio come Buddha o come Confucio, ma come la seconda persona della Trinità e il Salvatore, venuto a condividere la nostra condizione umana per donarle la divinizzazione finale, cioè «la salvezza»? Non si vede, del resto, come fondere in un unico sincretismo l’affermazione dell’immortalità personale propria delle “religioni del Libro” (e anche del Taoismo) e la credenza alla fusione, al termine delle reincarnazioni, delle identità individuali nella pace indistinta del nirvana, immenso oceano che raccoglie tutte le gocce d’acqua umane. Allo stato attuale delle cose non c’è incompatibilità tra queste concezioni dell’uomo e della divinità?
«In questo dialogo – scrive Delumeau – innanzitutto è opportuno eliminare i falsi problemi che creano inutili incomprensioni. Ho già insistito sulla nozione, inaccettabile oggi, della colpa ereditaria a lungo legata alla dottrina del peccato originale. Non solo l’islam e il giudaismo rifiutano questa concezione, ma anche l’insieme delle religioni dell’Asia. Ecco un pomo di discordia che bisogna eliminare per il sollievo di tutti. Lo stesso dicasi per le affermazioni riguardanti l’inferno, con le quali i missionari occidentali hanno a lungo messo paura ai “pagani” che volevano evangelizzare. Chi può credere oggi, anche tra i cristiani, che Dio ha creato un “Auschwitz eterno”? Faccio mie le seguenti espressioni di J. Moingt: “Perché pensare a una morte che si prolungherebbe con supplizi e fiamme, e immaginare inoltre che Dio avrebbe piacere perché i suoi nemici bru-ciano? Essi entrano nella morte definitiva, nel nulla. Sono ‘cancellati dal libro della Vita’, come afferma la Scrittura” e come già pensava sant’Ireneo» (Scrutando l’aurora, p. 143).
Così bisognerebbe non usare più in forma peggiorativa la parola «pa-gano», come se fosse sinonimo di «non-credente». Si deve curare anche il linguaggio, perché anch’esso diventi rispettoso, non più erede di un certo esclusivismo e orgoglio.
La prima evidenza, in questo dialogo è che bisogna guardare con occhi positivi le credenze degli altri. La costituzione conciliare Nostra aetate, citata precedentemente, contiene questa affermazione ormai famosa: «La Chiesa cattolica non rigetta nulla di quanto è vero e sincero nelle altre religioni. Essa considera con rispetto sincero quelle maniere di agire e di vivere, quelle regole e quelle dottrine che, per quanto siano molto diverse in molti punti da quanto essa stessa professa e propone, tuttavia apportano spesso un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini».
«Un documento pubblicato nel 1984 dal Segretariato romano per i non cristiani commentava il testo precedente in questo modo:
Secondo i Padri conciliari nelle tradizioni non cristiane c’è del “vero e del buono”, “elementi preziosi, religiosi e umani”, “tradizioni contemplative”, “semi di verità e di grazia”, “un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini. Secondo le affermazioni conciliari più esplicite tutti questi valori sono riuniti nelle grandi tradizioni religiose dell’umanità. Esse meritano dunque attenzione e stima da parte dei cristiani. Il loro patrimonio spirituale è un invito efficace al dialogo, non solo sui punti di convergenza, ma anche su quelli di divergenza.
Siamo dunque lontani, grazie a Dio, dalla formula perentoria presente per lungi secoli in numerosi catechismi: “fuori della Chiesa non c’è salvezza”, che destinava all’inferno tutti i non cristiani e che era stata certo temperata con il “battesimo di desiderio” attribuito (senza chiedere il loro parere) a tutti i “pagani” di buona volontà.
Ma si può fare un passo avanti nella valutazione positiva delle altre religioni? E può esserci dialogo, si chiede a ragione Claude Geffré, se non c’è “uguaglianza tra gli interlocutori”?
I cristiani devono pensare che le religioni diverse dalla loro costituiscano soltanto delle “pietre d’attesa” della verità totale che solo il Cristianesimo possederebbe? Devono vedere in quest’ultimo il “compimento” indispensabile della ricerca religiosa dell’umanità? Oppure, al contrario, ogni religione non costituisce una strada di salvezza? Lo Spirito non soffia in ciascuna di esse?» (Ivi, p. 146) 4.
In un documento pubblicato nel 1989 dalla Conferenza episcopale cattolica dell’India si leggeva che «la pluralità delle religioni è una conseguenza della creazione stessa e della grazia infinita di Dio… Di questo pluralismo non si deve, dunque, in alcun modo dispiacersi, ma riconoscere che esso è un dono divino».
In questa prospettiva la storia della salvezza e della rivelazione non si riassume nella sola tradizione giudeo-cristiana, essa coincide con quella del mondo. Bisogna supporre una universalità della rivelazione divina attraverso tutte le tradizioni religiose, una parola di Dio presente altrove rispetto ai nostri libri sacri, una complementarietà delle scritture. I cristiani dell’Europa e dell’America devono, ad esempio, imparare a familiarizzarsi con il «Cristo antenato» dell’Africa e il «Cristo via» dell’Asia. Lo Spirito di Dio si offre a tutti in un modo che solo egli conosce. Dio soltanto salva, ma attraverso i diversi canali che sono le religioni: «Dio è assoluto; nessuna religione lo è».
«Ma una domanda importante si pone allora ai cristiani: possono rinunciare a dare un significato privilegiato a Gesù? Possono non vedere più in lui il Salvatore universale di tutta l’umanità? Certamente no. Il dialogo tra le religioni non deve portare a un abbandono dell’identità. Altrimenti, perché dirsi e rimanere cristiani? La domanda tuttavia è legittima, e si potrebbe rispondervi così: soltanto il Figlio di Dio si è fatto uomo, ma la sua incarnazione è redentrice per tutti. Lo spirito di Cristo è attivo in tutte le religioni, anche se la paternità di Dio ha acquistato nella vita e attraverso il messaggio di Gesù la sua profondità totale. Gesù è stato ed è l’unico Salvatore e l’opera di salvezza è stata pienamente compiuta da lui. Le altre religioni sono nondimeno delle realizzazioni particolari di un disegno divino globale. La storia religiosa ha visto apparire diverse figure salvatrici. Tuttavia in Gesù Dio “è diventato Dio degli uomini in maniera perfettamente umana». La Chiesa di Cristo è dunque il segno visibile – il “sacramento” – della presenza del Regno di Dio tra gli uomini, ma si può essere membri di questo regno senza far parte della Chiesa» (Ivi, p. 150).
È in questo contesto che assume nuova luce il rapporto tra «dialogo» e «annuncio», tra rispetto e comunicazione reciproche e sforzo per espandere la fede dei singoli popoli.
Il documento cattolico Dialogo e annuncio così si esprime: «In un approccio di dialogo i cristiani come non dovrebbero provare la speranza e il desiderio di condividere con altri la loro gioia di conoscere e di seguire Gesù Cristo, Signore e Salvatore? Qui siamo nel cuore del mistero dell’amore. Nella misura in cui la Chiesa e i cristiani hanno un amore profondo per il Signore Gesù, il desiderio di condividerlo con altri è allora motivato non solamente dalla loro obbedienza al comandamento del Signore, ma anche da questo stesso amore. Che i credenti delle altre religioni abbiano anch’essi un desiderio sincero di far condividere la loro fede, è naturale e non può sorprendere. Ogni dialogo implica la reciprocità e mira a bandire la paura e l’aggressività» (Ivi, p. 151).
Certo è, d’altra parte, che a favorire tale rapporto è sempre importante ricordare che è indispensabile l’aiuto concreto, reciproco nell’amore e nella misericordia nei confronti dei bisognosi, dei poveri, degli affamati. La grandiosa scena del giudizio finale raccontata da Matteo 25 non menziona differenze tra dottrine religiose, tra catechismi, ma chiede «solamente» amore per gli altri, il dono di sé per un’umanità piena.
Tutto questo per i cristiani è una sfida quotidiana, tenendo conto che questo tempo, all’inizio del terzo millennio, porta con sé due enormi fenomeni tra di loro perfino contraddittori: la proliferazione del religioso da una parte e la radicalizzazione della secolarizzazione dall’altra. Mantenere «lucidità», come chiede Jean Delumeau nel cap. 10 del suo bel libro che ci accompagna nella nostra ricerca, è un compito difficile, ma autenticamente necessario.