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1. Dialogare con il mondo

La Gaudium et Spes, lo abbiamo ormai riconosciuto attraverso le riflessioni precedenti, resterà certamente come uno dei documenti più importanti e significativi del Concilio Vati-cano II (1962-65). Ciò che la caratterizza è la disponibilità, coltivata e condivisa, a un dialogo sincero tra Chiesa e mondo, tra Cristianesimo e storia (la storia concreta dell’umanità, singola e comunitaria, personale e collettiva, istituzionale).
Sentendosi «responsabili» della salvezza delle donne e degli uomini del nostro tempo, i padri conciliari hanno raccolto la preoccupazione, espressa da alcuni di loro, di cercare di comprendere «questa umanità» e i suoi problemi, la sua mentalità, le sue difficoltà, le gioie e le speranze della gente nelle loro radici più profonde e, insieme, di ripensare il messaggio cristiano, per trarre da esso le parole illuminatrici e apportatrici di «salvezza» adatte ai tempi.
Lo aveva affermato Giovanni XXIII all’inizio del Concilio: «Il mondo ha bisogno di Cri-sto: ed è la Chiesa che deve portare Cristo al mondo… Questi problemi di acutissima gravità stanno sempre nel cuore della Chiesa. Perciò essa li ha fatti oggetto di studio attento, e il Con-cilio Ecumenico potrà offrire, con linguaggio chiaro, soluzioni che sono postulate dalla dignità dell’uomo e dalla sua vocazione cristiana».
E Paolo VI nel discorso di chiusura del Concilio (7 dicembre 1965) osservava, quasi per «narrare» l’itinerario della Gaudium et Spes: «Ma non possiamo trascurare un’osservazione capitale del significato religioso di questo Concilio: esso è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi inseguirla nel suo rapido e continuo mutamento. Questo atteggiamento, determinato dalle distanze e dalle fratture verificatesi negli ultimi secoli, nel secolo scorso ed in questo specialmente, tra la Chiesa e la società profana, e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa, è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone e atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio mede-simo».
E guardando in profondità, commentava: «La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un’anatéma? Poteva essere, ma non è avvenuto! L’antica storia del samari-tano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo».
E alle testimonianze dei due papi del Concilio (Giovanni XXIII e Paolo VI) si potrebbe aggiungere quella di Giovanni Paolo II, giovane vescovo di Cracovia al tempo del grande Sinodo ecumenico: «Con questo documento (la Gaudium et Spes evidentemente) – scrive il Papa – i vescovi del mondo intero… intesero manifestare l’amorevole solidarietà della Chiesa verso gli uomini e le donne di questo secolo, segnato da due immani conflitti e attraversato da una profonda crisi di valori spirituali e morali ereditati dalla tradizione. Non era mai accaduto, nella bimillenaria storia della Chiesa, che un Concilio ecumenico rivolgesse con così profondo coinvolgimento la sua preoccupazione pastorale alle vicende dell’umanità. Proprio da qui scaturisce l’interesse particolare che questa Costituzione ha suscitato fin dal suo primo appari-re» (8 novembre 1995).
Si può riconoscere, anche da queste tre importanti testimonianze, che la Gaudium et Spes mette in luce una sorta di principio di reciprocità, che lega insieme Chiesa e mondo:

– c’è «qualcosa» che la Chiesa offre al mondo: «La Chiesa diffonde anche la sua luce per ripercussione, in qualche modo, su tutto il mondo… e crede di contribuire molto a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia» (GS 40);

– e c’è «qualcosa» che il mondo offre alla Chiesa: «La Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano. L’esperienza dei secoli passati, il progresso delle scienze, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa. Essa, infatti, fin dagli inizi della sua storia, imparò ad espri-mere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; e inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: allo scopo, cioè, di adattare, quando conveniva, il vangelo, sia alla capacità di tutti sia alle esigenze dei sapienti. E tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione. (…) Allo scopo di accrescere tale scambio, oggi, soprattutto, che i cambiamenti sono così rapidi e tanto vari i modi di pensare, la Chiesa ha bisogno particolare dell’aiuto di coloro che, vivendo nel mondo, sono esperti nelle varie istituzioni e discipline, e ne capiscono la mentalità, si tratti di credenti o di non credenti» (GS 44).
Tale reciprocità può essere anche interpretata attraverso tre parole significative: tra Chiesa e mondo si riconosce l’urgenza della solidarietà, della condivisione, della compagnia.

2. Alcuni problemi più urgenti

«Dopo aver esposto di quale dignità è insignita la persona dell’uomo e quale compito, individuale e sociale, egli è chiamato ad adempiere sulla terra, il Concilio… attira ora l’attenzione di tutti su alcuni problemi temporanei particolarmente urgenti che toccano in modo specialissimo il genere umano» (GS 46). E «tra le numerose questioni che oggi destano la sollecitudine di tutti, queste meritano particolare menzione: il matrimonio e la famiglia, la cultura umana, la vita economico-sociale, la vita politica, la solidarietà tra le nazioni, e la pace» (Ivi).
È questa la «parte seconda» della Gaudium et Spes (nn. 46-93), che va letta, interpretata, vissuta a partire da alcuni atteggiamenti significativi:

– anzitutto il dovere dell’attenzione, dell’essere-dentro, del condividere la condizione umana, dell’essere solidali con la storia dell’umanità;

– poi la consapevolezza dell’ambivalenza della situazione, che presenta di continuo il rischio di scambiare (o identificare) il Regno di Dio con le parziali realizzazioni rappresentate dal benessere, dal successo, da ciò che è «positivo» della storia umana (occorre una «riserva escatologica»!);

– infine il ruolo preminente della Parola di Dio per ogni giudizio sulla realtà, che sappia ricondurre anche la storia umana al disegno dell’alleanza tra Dio e l’umanità.

Ciò che emerge con forza, comunque, da questa «parte seconda» della Gaudium et Spes è il fatto che il Concilio ha fatto uscire la Chiesa da quattro secoli di visione privatistica della salvezza (la salvezza eterna di ogni singola anima) e di collegare, quindi, il traguardo escato-logico a tutta «la famiglia umana», come a dire che ci si salva o ci si perde insieme, «in solido» come ci si esprimeva nel diritto. Non ci sono, per il Concilio, due storie: quella della salvezza e quella dell’umanità. «La storia è storia di salvezza», è il lento e doloroso cammino della famiglia umana verso la pienezza del Regno, verso la sua trasformazione in «famiglia di Dio» (GS 40). E il traguardo è la Pace, la città di Dio in cui «tutti si servono vicendevolmente nella carità» (Agostino, De civitate Dei, XIV, 28). Si tratta dunque di un cammino verso una logica globale di convivenza della famiglia umana intera, una logica che rispecchi il mistero della vita trinitaria. Come il Figlio dell’uomo è venuto per servire e non per essere servito, così nessun essere umano «non può realizzarsi pienamente, se non attraverso un dono sincero di sé» (GS 24).
È per questo che il «sociale», cioè la rete complessa di strutture in cui si deve conside-rare la vita di relazione di ogni singolo, diviene campo di impegno e di primaria responsabilità morale per ogni cristiano (e donna/uomo di buona volontà). La lotta per fare del mondo un «luogo di autentica fraternità» (GS 37), durerà quanto dura la storia e in essa ciascuno è inevi-tabilmente inserito.
Dei «problemi urgenti» citati sopra non possiamo ora che mettere in evidenza alcuni punti di vista significativi che la Gaudium et Spes ha saputo intravedere per il mondo e la cultura del suo tempo.

a) La dignità del matrimonio e della famiglia e la sua valorizzazione (nn. 47-52)

In un contesto di sostanziale continuità con la tradizione culturale della Chiesa sul tema della famiglia, il Concilio ribadisce che «il bene della persona e della società umana e cristiana è strettamente connesso con una felice situazione della comunità coniugale e familiare», di cui coglie le caratteristiche nell’amore, nella stima e nel rispetto per la vita che legano insieme le persone. Anzi in questo ambito si può cogliere anche un tratto di novità nella Gaudium et Spes nell’identificare nell’amore tra gli sposi il fine primario del matrimonio, anche se non disgiunto dalla disponibilità loro alla procreazione.
Scrive il Concilio al n. 52 della Gaudium et Spes: «La famiglia è una scuola di umanità più completa e più ricca. Perché però possa attingere la pienezza della sua vita e del suo com-pito, è necessaria una amorevole apertura vicendevole di animo tra i coniugi, e la consultazione reciproca ed una continua collaborazione tra i genitori nella educazione dei figli. La presenza attiva del padre giova moltissimo alla loro formazione; ma deve pure essere salvaguardata la presenza e la cura della madre nella casa, di cui abbisognano specialmente, i figli più piccoli.
I figli poi, mediante la educazione, devono venire formati in modo che, giunti alla loro maturità, possano seguire con pieno senso di responsabilità la vocazione loro, compresa quella sacra; e se sceglieranno lo stato di vita coniugale, possano formare una propria famiglia nelle condizioni morali, sociali ed economiche per loro veramente favorevoli. È compito poi dei genitori o dei tutori guidare i più giovani nella formazione di una nuova famiglia con il consiglio prudente, presentato in modo che questi lo ascoltino volentieri; dovranno soprattutto evitare di obbligarli, con forme di pressione diretta o indiretta, ad un determinato stato di vita o alla scelta di una determinata persona come coniuge.
In questo modo la famiglia, nella quale le diverse generazioni si incontrano e si aiutano vicendevolmente a raggiungere una saggezza umana più completa ed a comporre convenien-temente i diritti della persona con le altre esigenze della vita sociale, è veramente il fonda-mento della società».
b) La promozione del progresso della cultura (nn. 53-62)

Scrive il Concilio: «Con il termine generico di “cultura” si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano» (GS 53).
L’attenzione viene rivolta ai nuovi stili di vita delle donne e degli uomini del nostro tempo; ai «nuovi» modi di pensare, di agire, di impiegare il tempo libero; allo sviluppo dei rapporti tra le varie stirpi e le classi sociali, così da far intravedere una forma più universale di cultura umana, che tanto più promuove l’unità del genere umano, quanto meglio rispetta le particolarità delle diverse culture.
Il Concilio si rende conto della straordinaria forza di cambiamento che la cultura porta con sé e nello stesso tempo non se ne nasconde le difficoltà e i compiti: «In qual modo pro-muovere il dinamismo e l’espansione della nuova cultura senza che si perda la viva fedeltà verso il patrimonio della tradizione? Ciò è di particolare urgenza là dove la cultura che nasce dal grande sviluppo scientifico e tecnico si deve armonizzare con la cultura che, secondo le varie tradizioni, viene alimentata dagli studi classici.
In qual maniera armonizzare una così rapida e crescente dispersione delle scienze parti-colari, con la necessità di farne la sintesi, e di mantenere nell’uomo le facoltà della contem-plazione e dell’ammirazione che conducono alla sapienza?
Che cosa fare affinché gli uomini di tutto il mondo siano resi partecipi dei beni della cultura, proprio quando la cultura degli specialisti diviene sempre più profonda e complessa?
Come infine si deve fare per riconoscere come legittima l’autonomia che la cultura ri-vendica a se stessa senza cadere in un umanesimo puramente terrestre, anzi avverso alla reli-gione?
Nonostante queste antinomie, la cultura umana oggi si deve sviluppare in modo da per-fezionare, con giusto ordine, la persona umana nella sua integrità e da aiutare gli uomini nell’esplicazione di quei compiti, al cui adempimento tutti, ma specialmente i cristiani, fra-ternamente uniti in una sola famiglia umana, sono chiamati» (GS 56).

c) La vita economico-sociale (nn. 63-72)

Scrive il Concilio: «Anche nella vita economico-sociale sono da tenere in massimo rilievo e da promuovere la dignità ed integrale vocazione della persona umana come pure il bene dell’intera società. L’uomo, infatti, è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale» (GS 63).
Ciò che è interessante sottolineare è il fatto che l’attività economica diventa oggetto di riflessione teologica ed etica: il cristiano è chiamato urgentemente a capire che cosa sia oggi «economia» su un doppio versante: quello delle strutture essenziali entro cui ogni attività economica si svolge (produzione, distribuzione, finanza) e quello delle condizioni di vita della famiglia umana, generate e mantenute dalle dette strutture. Ci si rende conto, infatti, che nessuna forma di vita economica può pensarsi senza un supporto strutturale, sia a livello di villaggio che di Stato sovrano e, nello stesso tempo, che oggi vi è un unico sistema di strutture che governa la vita economica dell’intera famiglia umana, la globalizzazione, che per il suo aspetto positivo, porta con sé l’idea che la famiglia umana va considerata come un unico corpo sociale. La stessa idea tradizionale di «bene comune» deve intendersi come «bene comune del genere umano».
Nel contesto dell’economia una grande attenzione viene riservata al lavoro, alle condi-zioni in cui esso si svolge (n. 67), ai conflitti di lavoro (n. 68) e alla partecipazione dell’individuo alla vita dell’impresa (ivi). Un paragrafo importante ricorda, poi, la destinazione dei beni della terra a tutti gli uomini: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa con-tiene, all’uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, essendo guida la giustizia e assecondando la carità. Pertanto, quali che siano le forme concrete della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli, in vista delle diverse e mutevoli circostanze, si deve sempre ottemperare a questa destinazione universale dei beni. Perciò l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo ritenevano giusto i Padri e Dottori della Chiesa quando hanno insegnato che gli uomini hanno l’obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo. Colui che si trova in estrema necessità, ha diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui. Considerando il fatto del numero assai elevato di coloro che sono oppressi dalla fame, il Sacro Concilio richiama urgentemente tutti, sia singoli che autorità pubbliche, affinché – memori della sentenza dei Padri: “Nutri colui che è moribondo per fame, perché se non lo avrai nutrito, lo avrai ucciso” –, realmente mettano a disposizione ed impieghino utilmente i propri beni, ciascuno secondo le proprie risorse, specialmente fornendo ai singoli e ai popoli i mezzi con cui essi possano provvedere a se stessi e svilupparsi» (GS 69).

d) La vita della comunità politica (nn. 72-76)

Scrive il Concilio che «da una coscienza più viva della dignità umana sorge, in diverse regioni del mondo, lo sforzo di instaurare un ordine politico-giuridico, nel quale siano meglio tutelati nella vita pubblica i diritti della persona, quali il diritto di liberamente riunirsi, asso-ciarsi, esprimere le proprie opinioni e professare la religione privatamente e pubblicamente» (n. 73). «La comunità politica esiste in funzione del bene comune nel quale essa trova significato e piena giustificazione e dal quale ricava il suo ordinamento giuridico, originario e proprio» (n. 74). Tutti i cittadini sono perciò chiamati a collaborare alla costruzione della comunità politica.
Scrive il Concilio: «La Chiesa stima degna di lode e di considerazione l’opera di coloro che per servire gli uomini si dedicano al bene della cosa pubblica e assumono il peso delle relative responsabilità.
Affinché la responsabile collaborazione dei cittadini, congiunta con la coscienza del dovere, possa ottenere felici risultati nella vita politica quotidiana, si richiede un ordinamento giuridico positivo, che si organizzi una opportuna ripartizione delle funzioni e degli organi del potere, insieme ad una protezione efficace e indipendente dei diritti.
I diritti delle persone, delle famiglie e dei gruppi e il loro esercizio devono essere rico-nosciuti, rispettati e promossi, non meno dei doveri ai quali ogni cittadino è tenuto. Tra questi ultimi non sarà inutile ricordare il dovere di apportare alla cosa pubblica le prestazioni, mate-riali e personali, richieste dal bene comune.
Si guardino i governanti dall’ostacolare i gruppi familiari, sociali o culturali, i corpi o
istituti intermedi, né li privino della loro legittima ed efficace azione, che al contrario devono volentieri e ordinatamente favorire.
Si guardino i cittadini dall’attribuire troppo potere all’autorità pubblica, né chiedano inopportunamente ad essa eccessivi vantaggi, col rischio di diminuire così la responsabilità delle persone, delle famiglie e dei gruppi sociali» (GS 75).

e) La promozione della pace e della comunità dei popoli (nn. 77-93)

È l’ultimo capitolo della Gaudium et Spes ed è quello che dà l’intonazione, se così si può dire, anche ai precedenti argomenti già considerati. La costruzione del Regno di Dio (non solo della Chiesa) si può realizzare pienamente soltanto attraverso una pace vera e duratura. Non ci sono più guerre giuste, per il Concilio Vaticano II: «Ogni atto di guerra che indiscrimi-natamente mira alla distruzione di intere città e di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condan-nato» (n. 80).
Pur in mezzo a titubanze, malumori, sottili sarcasmi il Concilio scrive una delle pagine più significative (insieme a quelle di donne e uomini straordinari come Gandhi, La Pira, ecc. ecc.) sul «dovere» della pace: «La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi al solo rendere stabile l’equilibrio delle forze contrastanti, né è effetto di una dispotica domi-nazione, ma essa viene con tutta esattezza definita opera della giustizia. È il frutto dell’ordine impresso nell’umana società dal suo Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini che aspirano ardentemente ad una giustizia sempre più perfetta. Poiché infatti il bene comune del genere umano è regolato, sì, nella sua sostanza, dalla legge eterna, ma è soggetto, con il pro-gresso del tempo, per quanto concerne le sue concrete esigenze, a continue variazioni, la pace non è stata mai qualcosa di stabilmente raggiunto, ma è un edificio da costruirsi continuamen-te. Poiché inoltre la volontà umana è labile e ferita per di più dal peccato, l’acquisto della pace esige il costante dominio delle passioni di ognuno e la vigilanza della legittima autorità.
Tuttavia questo non basta. Tale pace non si può ottenere sulla terra se non è tutelato il bene delle persone e se gli uomini non possono scambiarsi con fiducia e liberamente le ric-chezze del loro animo e del loro ingegno. La ferma volontà di rispettare gli altri uomini e gli altri popoli e la loro dignità, e l’assidua pratica della fratellanza umana sono assolutamente necessarie per la costruzione della pace. In tal modo la pace è frutto anche dell’amore, il quale va oltre quanto può assicurare la semplice giustizia.
La pace terrena tuttavia, che nasce dall’amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace di Cristo, che promana dal Padre. Il Figlio incarnato infatti, principe della pace, per mez-zo della sua Croce ha riconciliato tutti gli uomini con Dio e, ristabilendo l’unità di tutti in un solo popolo e in un solo corpo, ha ucciso nella sua carne l’odio e, nella gloria della sua Risur-rezione, ha diffuso lo Spirito di amore nel cuore degli uomini» (n. 78).
Resta comunque vero che anche oggi la pace, anche nella Chiesa stessa (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica) è sempre di difficile, lenta, sofferta digestione.

3. Alcuni pensieri conclusivi

Abbiamo percorso insieme un itinerario denso di spunti e di provocazioni salutari, come è senz’altro quello della Gaudium et Spes, attraverso la quale il Concilio Vaticano II si è fatto speranza per il mondo, sia attraverso lo scrutare «i segni dei tempi», sia ponendo davanti al mondo i grandi temi della «dignità umana» e della «costruzione della pace» come compito di credenti e donne e uomini di «buona volontà».
Non tutto è stato detto e non tutto è stato detto con «parresìa» (franchezza) e «verità». Il post-Concilio, per esempio, ha visto emergere nuovi problemi e nuove questioni, che non hanno trovato adeguata attenzione nemmeno nella Gaudium et Spes: la questione femminile, i problemi dell’ecologia, la relazione Nord-Sud del mondo, il significato della sofferenza umana e del dolore nel mondo…
Ma il Concilio ci invita a continuare a cercare, come scrive la Gaudium et Spes al n. 91: «Ma volutamente, dinanzi alla immensa varietà delle situazioni e delle forme di civiltà, questa presentazione non ha che un carattere del tutto generale; anzi, quantunque venga presentata una dottrina già comune nella Chiesa, siccome non raramente si tratta di realtà soggette a continua evoluzione, la esposizione della dottrina dovrà essere continuata e ampliata» (n. 91).
Ci sono d’altra parte alcuni «passaggi», che non possono essere cancellati o andare per-duti.
Ad esempio Raniero La Valle in un bel capitolo del libro Chiesa del Concilio dove sei? (AA.VV., Ed. Cittadella, 2009), dal lungo titolo Chiesa del Concilio dove sei? Dove vai? Quanto ancora da realizzare? E quanto oltre da cercare?, scrive che il Concilio non ha più ripetuto vecchie dottrine:
«1) Il Concilio non ha più detto che extra Ecclesiam nulla salus, che la Chiesa visibile, la Chiesa romana, è l’unica e obbligata via di salvezza. Non aver detto questo ha legittimato l’ecumenismo, ha portato al riconoscimento delle altre Chiese, ha aperto le vie della comunione con l’Islam, con gli ebrei, con gli indù, i buddisti, gli animisti, i confuciani, i non credenti e tutte le culture del mondo.
Come abbiamo visto, il Concilio non ha ribadito, come era stato richiesto di fare, che i morti senza battesimo non si possono salvare: i bambini, ma anche gli adulti.
2) Il Concilio non ha ripetuto, per negare la libertà religiosa, la formula che era molto in voga fino al Concilio secondo cui l’errore non ha diritti, ma solo la verità li ha, perciò si possono tranquillamente togliere agli uomini i diritti di libertà di coscienza, di parola, di reli-gione perché non hanno la verità. Anche la verità è debole, ed essa non si impone che in virtù della stessa verità (Dignitatis humanae, n. 1).
3) Non ha ribadito la pura e semplice identificazione tra la Chiesa visibile e il Cristo, secondo la dottrina giunta fino alla Mystici Corporis, ma sia pure a fatica, timidamente, il Concilio si è astenuto dal dire che la Chiesa di Cristo è la Chiesa cattolica, e ha detto invece che essa sussiste nella Chiesa cattolica, senza perciò esaurirsi in essa. Ciò introduce uno snodo tra Chiesa e Cristo, che evita alla Chiesa il delirio del potere che ha avuto per tutto il secondo millennio e apre lo spazio della laicità.
4) Non ha ripetuto la condanna del mondo, né ha fatto tutto l’elenco degli errori mo-derni, dal nudismo alla psicanalisi, all’amore non procreativo, tacciato dal cardinale Ruffini come “fetido onanismo coniugale”. Un elenco degli errori che era stato richiesto di fare dai vescovi che avevano espresso i loro desideri nei vota, cioè nelle lettere, mandate a Roma prima del Concilio.
5) Non ha spiccato la condanna contro il comunismo che dopo pochi decenni si sareb-be rivelata superflua e avrebbe messo la Chiesa in mezzo a un conflitto politico tutto umano, riducendola senza residui a Chiesa d’Occidente.
Tutto questo, e molte altre cose, non ha detto e non ha fatto il Concilio e questo è forse altrettanto importante di quello che ha fatto e detto, perché ha lasciato cadere una rappresen-tazione della fede incomportabile per l’uomo, un’immagine di Dio foriera di angoscia, di paura e non di forza e di consolazione, e una concezione della Chiesa arcigna, esclusivista, teocratica e clerocentrica» (Ivi, pp. 85-86).
Vale allora la pena di raccogliere l’invito di un grande personaggio della teologia morale italiana, Enrico Chiavacci, attento indagatore del nostro tempo. Egli scrive: «Vorrei conclude-re con un invito al coraggio. Il coraggio di sapere sempre andare oltre, di non prendere mai per stabile e intoccabile il sistema di convivenza della famiglia umana. Il coraggio di sapere rimettere continuamente in questione i nostri modelli culturali, filosofici e anche teologici, i nostri modelli di “vita buona”. Dio Creatore e Salvatore opera nel continuo evolversi del-l’universo, e opera nella storia della famiglia umana anche attraverso le nostre scelte. Il tra-guardo è l’ultimo giorno, e sarà il dono finale di Dio: la perfezione della convivenza nella carità. La storia è un cammino verso tale traguardo, “nell’attesa della beata speranza”: e perciò non possiamo mai fermarci sull’oggi, con il pretesto della stabilità delle istituzioni. Tutto ciò che è istituzione, fosse pure ecclesiastica, è morte se è presa come fine a se stessa. Il cristiano sa che la compiutezza del Regno – il vero bene comune dell’umanità – è sempre al di là dell’esistente. La critica dell’esistente è essenziale per ogni cristiano e per la Chiesa. È la possibilità di leggere la storia come cammino: come realizzazione, sempre insufficiente ma non per questo meno doverosa, del progetto di Dio per la famiglia umana» (in Rivista di teologia morale, n. 137, p. 35).