Canova, 21 gennaio 2011
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1. Introduzione

La seconda tappa del nostro itinerario di ricerca sul perché il cristianesimo è divenuto estraneo alle donne e agli uomini del nostro tempo riprende e sviluppa uno dei temi chiave, cui avevamo accennato nel primo incontro: cioè il fatto che «la mentalità postmoderna ha fatto saltare il connubio esistente tra le istanze del cristianesimo e quelle della sensibilità media diffusa (cioè su che cosa “pensa la gente” nella vita quotidiana), orientando quest’ultima verso una configurazione originale, innovativa, trasgressiva, plurale, dinamica della propria esperienza, rendendo opaco, non immediatamente percepibile, il valore del messaggio cristiano per la conduzione di una vita buona e riuscita» (A. Matteo, Come forestieri, p. 19).
Si tratta di mettere a confronto il paradigma postmoderno con l’eredità culturale dell’Occidente per quel che riguarda la trasmissione di alcuni «capisaldi» della tradizione cristiana e valutare ciò che di essi può ancora essere significativo per il futuro di essa. L’itinerario è interessante; esso risponde alla domanda: quali pensatori, quali pensieri, che hanno contribuito alla diffusione del messaggio cristiano, sono ormai diventati «obsoleti», «muti», un ingombro per un dialogo sincero con la post-modernità?

2. No Platone? No fede!

«L’Occidente non sarebbe ciò che è senza alcuni pensatori fondamentali, i quali hanno disegnato le coordinate principali della sua identità. Nell’alternarsi della sua storia, ha sempre mantenuto la propria specificità vivendo delle loro idee o contro le loro idee, mai in ogni caso senza» (A. Matteo, op. cit., p. 21).
Tra questi Platone (428-348 a.C.) ha un posto di rilievo straordinario. Il suo insegnamento, infatti, ha invitato l’uomo a non arrestare lo sguardo a ciò che vede con il suo occhio fisico, ma ad usare l’occhio della mente, per librarsi al mondo delle idee, che rappresenta il «luogo» metafisico, cioè un aldilà eterno ed immutabile.
«Questo spazio oltre-il-sensibile, e in particolare l’idea del Bene che l’accompagna, è anche l’autentica patria dell’uomo, la cui anima, a differenza del corpo, ha caratteristiche di eternità e immutabilità ed è così chiamata a percorrere un cammino di liberazione dalle maglie troppo strette della finitezza e corruttibilità delle cose terrene» (Ivi, pp. 21-22).
Di questo «prodigioso» schema di pensiero la religione cristiana si è appropriata con destrezza e fermezza fin dai suoi primi passi: la visione cristiana della vita si installava sullo schema platonico di una discesa nel mondo, grazie alla nascita, di un’uscita da esso grazie alla morte, mentre nell’intervallo tra i due eventi all’uomo era consegnata la terra come luogo di fatica e di prova in vista del giudizio finale. In questo modo la religione cristiana offriva una spiegazione razionalmente convincente dell’esistente: appunto la spiegazione platonica.
Ma al momento come stanno le cose?
La mentalità post-moderna, lo abbiamo già accennato, è fortemente antiplatonica, e non concede più fiducia alla tesi che ciò che esiste non si riduce a ciò che è visibile e meno che mai al corollario che ciò che dell’esistente non-è-visibile dia ragione e significato a ciò che dell’esistente è visibile. «Ciò che ci è dato è il cosmo finito, con tutto il suo carico di limiti e di potenzialità: non esiste un cielo oltre il cielo, né una verità oltre le mille e più verità grazie alle quali ci si destreggia nel vivere quotidiano» (Ivi, p. 23).
La teoria darwiniana (l’uomo è frutto di un’evoluzione, non di una creazione diretta di Dio), la psicanalisi di stampo freudiano (l’anima dell’uomo non è solo spirituale, ma «biologica») e la rivoluzione industriale (con i conseguenti benefici sulle condizione di vita) hanno reso meno appetibile l’ultimo viaggio verso il paradiso celeste. Si potrebbe dire: la terra, per un verso, è sempre meno «valle di lacrime», ma anche un luogo in cui ci si può sistemare con un certo vantaggio.
Il primo che inizia a sospettare (da buon «maestro del sospetto») una siffatta rivoluzione dell’animo umano è un altro filosofo, e precisamente Federico Nietzsche (1844-1900), che esprime il suo convincimento con il famoso aforisma «Dio è morto»! che dice la fine della visione del mondo platonica, segnata, come abbiamo visto, regolata, dalla preminenza dell’«aldilà» sull’«aldiquà», del mondo ideale sul mondo reale. Del resto il Novecento, il «secolo breve», come lo chiama qualcuno, sembra confermare ampiamente con le sue tragedie immani (la Shoah fra tutte) la fine di ogni possibile discorso su Dio nei termini della filosofia e della teologia precedenti.
È pur vero che, dopo la seconda guerra mondiale, la società intera cercò e trovò nei valori della solidarietà e della giustizia alcuni punti fermi per riprendere il cammino fiaccato dagli orrori del Nazismo e del Fascismo. (La Chiesa cattolica, ad es., celebrò il Concilio Vaticano II – 1962-65 – per instaurare un nuovo dialogo tra cristianesimo e mondo moderno!). Ma su quel clima «irenico» e carico di buone speranze, se si può dire così, si abbatté la rivoluzione del 1968 (il «Sessantotto»!), vero inizio pubblico del mondo che viviamo, della cultura che respiriamo, dello stile di vita che professiamo, del modo di sognare, di sperare e di amare che ci fa sentire altri rispetto ai nostri avi.
È molto importante coglierne gli elementi di mutamento e di novità. Come scrive A. Matteo: «Tale rivoluzione travolse in pochi mesi la ritrovata fiducia nelle istituzioni della tradizione, in particolare nel campo della morale e dei costumi, che apparivano oltre misura marchiati da una tendenza regressiva e repressiva. Fu come il semplice sollevamento di un coperchio e dalla pentola emersero con insospettata e dirompente forza le istanze della corporeità, della singolarità, della libertà, della sensibilità, dell’istantaneità, della volontà, della temporalità. Un nuovo approccio, che possiamo definire “estetico”, si produsse nei confronti della vita umana.
Per questo la sentenza di Nietzsche della morte di Dio oggi non indica più solo la distrazione delle energie dalla contemplazione metafisica dell’origine e del destino umani, bensì più direttamente il primato attualmente concesso al corporeo rispetto allo spirituale, alla singolarità rispetto all’universalità, alla libertà rispetto alla necessità, alla sensibilità rispetto alla razionalità, all’istantaneità rispetto alla durata, alla volontà rispetto all’intelligenza. Alla temporalità rispetto all’eternità. Platone viene definitivamente rimosso» (Ivi, pp. 24-25).
Così la fede cristiana deve ora fare i conti con un mondo che non vive, né pensa più «platonicamente» e il rischio che l’accompagna è quello di diventare sempre più «estranea» alla mentalità postmoderna.
Ed è qui che nasce la grande, difficile domanda: il cristianesimo è pensabile solo a partire da Platone? Si deve, per forza, contrapporre l’aldiquà all’aldilà, il mondo a Dio, il corpo all’anima? Le donne e gli uomini di oggi respingono con forza questo «dualismo», che per loro è sterile e falso. Il desiderio di corrispondere all’esaltante scoperta della propria singolarità, dell’irripetibilità del gesto libero, della presenza corporea, spinge, però, donne e uomini a sottovalutare il senso della finitezza, della contingenza della loro ricerca materiale e spirituale, così che talvolta essa si trasforma in depressione e ossessione diffuse. Accompagnare la propria umanità in una dimensione che sappia coniugare limiti e aspirazioni ideali, voglia di pienezza e rischio di fallimento, è del tutto estraneo a una fede «altra» da quella che era diventata una religione dell’Infinito e dell’Assoluto, una religione astratta e distratta, nella difesa di Dio senza il mondo da «generare» come terra abitabile per tutti?

3. Non ci sono più storie

«Insieme a Platone, è Agostino di Ippona (354-430 d.C.) colui che fa le spese dell’avvento della mentalità postmoderna, nel senso ovviamente di un rapido pensionamento dal ruolo di ispiratore della cultura occidentale» (Ivi, p. 27).
Egli ha predicato, come strada per la felicità, quella del contenimento dei desideri, del disprezzo del mondo, della rinuncia a sé per far posto all’amore di Dio. Detto con altre parole: per Agostino la vita e il paradiso si conquistano con il sacrificio.
Non solo. Ma egli è anche colui che costruisce una vera e propria «teoria generale» della religione cristiana, che porta il nome di «storia della salvezza». Secondo quest’ultima c’è un lungo e faticoso cammino di purificazione che l’umanità è chiamata a compiere a causa del peccato del primo uomo Adamo e che durerà sino alla risoluzione finale della lotta tra il bene (la città di Dio, la civiltà cristiana) e il male (la città degli uomini, la civiltà pagana).
Anche questa visione è stata messa profondamente in crisi dalla «condizione postmoderna», la cui prima connotazione è stata proprio quella di riconoscere finito il tempo delle grandi narrazioni. Non ci sono più immagini e discorsi capaci di spiegare l’intero (Hegel, Marx, ecc. ecc.); ci sono solo «piccole narrazioni», come si constata tutti i giorni ascoltando le tante «confessioni» alla radio e alla televisione.
E la sfiducia nelle grandi narrazioni ne sottende una ancora maggiore: quella che investe la potenzialità della ragione umana, nella sua pretesa, classico-moderna (dai Greci a Cartesio e Galileo), di offrire una visione e una versione complessiva del reale, così da poter assegnare un posto preciso ad ogni cosa e fornire infallibili istruzioni circa l’esercizio della libertà.
«Sin dalla prima decade del secolo scorso, negli ambiti della letteratura, della psicologia, dell’arte, della musica, della filosofia, della stessa politica, inizia ad emergere la gestualità tipica del pensare attuale. È allora che si impone, difatti, una rivoluzione della ragione, che assume una forma più aperta dell’alterità, maggiormente disposta all’interpretazione, alla presa in considerazione di altre e meno immediate dimensioni, di differenti punti di vista; nasce una razionalità che trova la sua piena esecuzione nella scrittura del “romanzo” e nelle forme dirompenti dell’arte post-ottocentesca, le quali respingono come impossibile l’esistenza di un oggettivo che non sia correlato al mondo soggettivo e non intrattenga legami stabili con la sfera emozionale e vitale. È una forma di ragione che insomma rinuncia alla definizione di sé tramite la scomunica dell’altro, ritrascrivendo la nozione giudicata astratta del falso in quella del diverso» (Ivi, p. 29).
In tal modo muta anche l’orizzonte classico del sapere. Il metodo della scienza diventa tutto ad un tratto mobile e duttile, meno gerarchico e più relazionale (si pensi al principio di falsificazione di Karl Popper). Tutto ciò che esiste assume significato dalle relazioni che riesce a instaurare con gli altri elementi del mondo: non si danno «cose», «sostanze», che abbiano in sé il loro significato indipendentemente dal sistema di cui fanno parte, cioè delle loro relazioni.
E se questo è l’apporto della scienza, ancora più significativa è l’azione della tecnica, che sta diventando addirittura il luogo di un radicale mutamento antropologico; la tecnica, infatti, non è più semplicemente il mezzo per rispondere ai nostri bisogni, ma l’ambiente di riferimento nel quale il soggetto umano ha iniziato a ridefinire i propri bisogni.
Così il miglioramento qualitativo della vita media produce ovviamente un nuovo «sapere» della vita, ne altera il senso.
La vita – oggi – non è più fatta di sacrifici; piuttosto essa è fatta di occasioni. Bisogna dunque espandere gli orizzonti del proprio desiderio, progettarsi in nome delle mille opportunità che ci sono concesse: nulla ci è precluso e nulla ci assegna ad una scelta una volta per sempre. Dilatare gli spazi dell’io: ecco il nuovo comandamento. Z. Bauman lo descrive così: le donne e gli uomini del passato concepivano la loro vita da pellegrini; le donne e gli uomini di oggi concepiscono la vita da vagabondi, turisti, giocatori.
Ciò che si può fare si deve fare; bandiamo dunque il sacrificio, l’attesa, il rilancio, il differimento, la resistenza… La svolta antisacrificale mette definitivamente in crisi l’influenza esercitata da Agostino per interi secoli di civiltà occidentale.
In riferimento al nostro tema ciò significa che «l’intero apparato morale della Chiesa risulta di difficile comprensione oltre che di scarsa condivisione: in un tempo che ha trasformato il falso nel diverso, che ha rinunciato ai metadiscorsi, il riferimento a leggi naturali, “oggettive”, “vere”, si rivela poco convincente; in un tempo che tecnicamente avalla senz’altra domanda il desiderio, le leggi morali cristiane, che comandano la rinuncia o quanto meno il restringimento di esso, vengono guardate con sospetto e addirittura giudicate antiumane. Che cosa dire poi di tutte le forme che la tradizione, a dire il vero non solo cristiana, ci ha consegnato per ordinare la vita, quali il fidanzamento, il matrimonio, la famiglia e la consacrazione al culto? Le quali si reggono proprio sulla capacità dell’io di fare spazio all’altro e quindi sulla capacità di resistenza alla tentazione di attrarlo dispoticamente nel proprio spazio vitale e viceversa sulla capacità di permanere nell’identità di se stessi? Le forme dell’essere insieme umano subiscono dunque ridimensionamenti eclatanti: a molti appaiono simboli di un tempo antico ormai destinato a finire» (Ivi, p. 33).
E il cristianesimo, allora? Come potrà reagire o più semplicemente reggere tale situazione? Insistendo sull’oggettività, sulla «naturalità» delle sue indicazioni morali? Cercando di imporre con leggi statali (testamento biologico, aborto, eutanasia) la propria posizione sulla famiglia, sulla generazione, sulla vita e sulla morte?
Oppure si può, con discrezione, tener vivo almeno il dubbio (insinuato da Agostino) che «la vita, su questa terra, non è fatta per essere equa e giusta verso ognuno: vi è un prezzo da pagare, uno scotto da accertare e da incassare. Il mondo non può adeguare l’orizzonte cui sono disponibili il cuore e la libertà umani. Dimenticarlo, significa dannarsi, chiedendo al mondo di essere ciò che esso non è. C’è quindi anche da soffrire, un portare sotto, un portare dentro un’attesa: attesa di un paradiso che non è questo mondo, dove la piccola storia di ognuno potrà trovare la sua incastonatura. La vita ha bisogno di essere inserita in un più grande respiro, in una più ampia narrazione» (Ivi, p. 34).

4. Berlino 1989: la crisi istituzionale

Non c’è chi non pensi che la caduta del muro di Berlino del 9 novembre 1989 non sia stata senz’altro un gesto di liberazione, l’avverarsi di una giusta emancipazione. Ma il crollo di quel muro si presta a significare molte altre cose insieme. In quella «caduta» c’è qualcosa di simbolico che va interpretato e che si inserisce a pieno titolo nel mutamento dell’identità dell’Occidente.
Per esempio: essa (la caduta del muro) segnala apertamente la perdita della forza incondizionata di una struttura politica (il regime comunista), delle norme, delle leggi, degli istituti da essa previsti e garantiti. È il simbolo della vincita della democrazia come sistema socio-culturale della convivenza dei diversi, che non si appoggia sulla forza dell’istituzione ma sul consenso dei cittadini. In tale maniera indica pure la fine di dualismi politici usati per descrivere uno status quo: l’antagonismo tra amico-nemico, tra simile e diverso, tra cittadino e straniero.
Essa (la caduta del muro) segnala, però, anche che nessuno oggi si sente totalmente rappresentato da un partito o da una coalizione politica, tutt’al più da questo o da quell’altro leader (è la cosiddetta «personalizzazione» della politica). E cosa non dire dei continui – e a volte stravaganti – mutamenti del nome dei partiti, se non che è il segno di una identità politica che deve essere sempre di nuovo «contrattata» con i cittadini?
A rendere più complicata la situazione c’è anche il fatto che negli ultimi tempi si coglie la necessità di strutturare il rapporto con altri soggetti che provengono da contesti culturali diversi da quello occidentale, che manifesta la incompletezza degli ordinamenti legislativi di quasi tutte le nazioni europee. E lo scenario globale si tinge ulteriormente di grave insicurezza a causa delle guerre scatenate dal e per il terrorismo internazionale. Ma anche il mondo economico e finanziario mette in seria crisi la stabilità civile e politica di intere nazioni.
Il risultato complessivo, in termini culturali, dell’intreccio di tutte queste spinte è dato dal fatto che il «modello romano» (giuridico-imperiale) della gestione della res pubblica viene semplicemente liquidato: le istituzioni sono ricondotte a una sfera di naturalità, cioè di creazione umana, e quindi stimate passibili di fallibilità e di corruzione. Non si riconoscono idee o teorie cadute dal cielo che possano guidare la convivenza civile e lo sviluppo, ma ciò che ora conta è la proposta elettorale e la capacità di convinzione.
Lo spazio pubblico non è più spazio etico. Esso si ritrova sotto l’assedio e la tortura del principio del «politicamente corretto» e delle sue aberranti applicazioni. Si ritrova aggredito dalla comunicazione di massa, che tira giù costantemente il livello della discussione per mantenere alto l’indice di interesse su elementi marginali, personali, scandalistici, libidinosi.
Naturalmente anche la Chiesa risente della svolta antiistituzionale della post-modernità, che respinge di petto quello che abbiamo chiamato il «modello romano» della reggenza della civitas (della comunità), su cui ella aveva fatto grande affidamento. Anche la Chiesa viene sempre più allineata alle altre istituzioni umane e viene decifrata quale corpus di strutture, di leggi, di funzioni e funzionari, che non si può sottrarre alle regole del convincimento e del confronto democratico e alla fallibilità propria di tutto ciò che è umano. La sua voce non gode di una particolare accoglienza nel cuore dell’uomo post-moderno: è una delle molte altre, con le quali deve condividere quel piccolo «parlamento» che è diventata la coscienza di quest’ultimo.
La scoperta e la denuncia di molti scandali a sfondo sessuale, alcuni dei quali davvero riprovevoli, che hanno coinvolto numerosi preti, rendono la situazione ancora più delicata: non si dovrebbe sottovalutare la carica di risentimento e quindi di allontanamento che tali eventi possono provocare.
Il fatto è che molti non cercano più la Chiesa «come spazio vitale di una fede vissuta». In questo modo assume contorni meglio definiti l’estraneità del cristianesimo all’anima post-moderna.
Come interagire con tale estraneità? Due proposte sono state avanzate: che il cristianesimo diventi una «religione civile», cioè diventi «l’anima» della cittadinanza, nel vuoto di senso delle istituzioni pubbliche o che il cristianesimo (i cristiani) si ritiri totalmente dallo spazio pubblico, sino a configurare per la religione cristiana il ritorno a una qualche forma di settarismo.
Non sarebbe, invece, una grave perdita la rinuncia allo «spazio pubblico» delle Chiese, lì dove esse manifestano interesse per tutti gli uomini e le donne di buona volontà e non solo di coloro che frequentano la Chiesa?
«La difesa dello spazio pubblico come luogo della crescita umana dei più piccoli, come spazio di discussione della difesa degli interessi dei più deboli, come ambito dello sviluppo della consapevolezza che il mondo non può reggersi sulla collusione di alcuni contro altri e questi contro i primi, impone il riconoscimento che i benefici possibili derivanti dalla somma degli interessi dei singoli saranno sempre minori rispetto a quelli derivanti dal perseguimento della realizzazione del bene comune della pace, della giustizia, dell’equa distribuzione delle risorse, della salvaguardia del creato.
Ricordare e rafforzare la possibilità di essere altrimenti umani è l’autentica carica del progetto “politico” di Gesù: l’uomo non è destinato a seguire le parti più bieche del suo cuore, le parti della violenza cieca o dell’egoismo vuoto, può amare l’altro, può umanizzare il mondo. È proprio questa la forza e la promessa della redenzione» (Ivi, p. 40).

5. Transito

«La svolta verso la mentalità postmoderna, con la netta presa di distanza dal sapere tradizionale sull’umano, ha certamente il sapore di una liberazione da tanto attesa e finalmente realizzata: la rinuncia a norme e a condotte morali valide per tutti e in pratica per nessuno, offrendo esse poco riguardo per le mille sfaccettature delle condizioni singolari di ciascuno, la sovversione di un progetto di vita che fondamentalmente puntava all’accettazione dell’esistenza in vista di ciò che le sta oltre, e infine lo scioglimento della libera espressività del soggetto dall’inquadramento in strutture di sapere, di ordinamento politico e sociale decise dall’alto e da altri, hanno senz’altro allargato l’orizzonte di libertà degli uomini e delle donne di oggi più che in qualsiasi altro momento della civiltà umana. Nello stesso tempo, la postmodernità ha attivato il desiderio di una prassi sensibile, puntuale, attenta, la speranza di una riconciliazione intramondana con l’esistenza, e ancora il progetto di una convivenza civile e sociale che non faccia ricorso alla sola forza della legge, la quale troppo sovente si trasforma in legge della forza. Tutto ciò in vista di una vita buona e degna di essere vissuta. Ma il mutamento rapidamente descritto e le corrispondenti attese impegnano il soggetto umano molto più che nel passato» (Ivi, p. 41).
Anche per la comunità cristiana le difficoltà della comunicazione con questa cultura sono diventate più grandi: l’estraneità pesa, preoccupa, infastidisce, ma non va respinta, rinviata sdegnosamente al mittente, anzi accolta come occasione che invita tutto il mondo cristiano a diventare un’istanza di verifica e di controcampo profetico nei confronti dell’uomo contemporaneo, perché non perda le sue conquiste, non soccomba alle sue invenzioni e, soprattutto, non trasformi le energie positive che ha riscoperto in energie negative che pure ha risvegliato e che in ogni caso evoca ogni cambiamento radicale come è quello che da almeno quarant’anni sta vivendo l’Occidente.