CATTOLICI E FASCISMO
CAPITOLO IV
(1922-1943)
Canova, 20 marzo 2009
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1. La breve e tormentata storia del Partito Popolare italiano
Il 1919, come si è potuto cogliere nella precedente conversazione, ha rappresentato per il movimento cattolico italiano un punto di arrivo fondamentale. L’appello ai «liberi e forti» di don Luigi Sturzo, lanciato il 18 gennaio di quell’anno, che coinvolgeva non solo i cattolici, ma «tutti» gli uomini «liberi e forti» appunto, era il risultato di un cammino lungo e a tratti estenuante di mediazioni, di rivendicazioni, di fraintendimenti perfino, che riconosceva al movimento cattolico il diritto di operare in piena libertà e in propria responsabilità, fuori di ogni tutela ecclesiastica e vaticana. Ciò era stato reso possibile, come si è visto, anche dal diverso clima spirituale e politico che si era diffuso con l’elezione al papato di Benedetto XV (1914-1922), certamente più aperto e positivo del suo predecessore Pio X a riconoscere la di-gnità e la responsabilità dei laici nella vita pubblica.
«Libertà» e «democrazia» diventarono ormai le parole chiave del partito di cattolici, alieno dal confessionalismo e aperto al pluralismo, ispirato dalle idealità cristiane, ma attento a non prendere la religione come elemento di differenziazione politica. Per Sturzo la presenza pubblica dei credenti doveva diventare un presidio del bene comune e un ostacolo alla pretesa dello Stato di monopolizzare lo spazio pubblico.
Le prime uscite pubbliche del Partito Popolare italiano (PPI), come si è già ricordato, furono positive: nelle elezioni politiche del 1919, a suffragio universale maschile, essi otten-nero il 20,5% dei voti validi e 100 deputati, e in quelle del 1921 essi ottennero 107 deputati, diventando così una forza politica seconda per rappresentanza solo ai socialisti di Turati.
Tuttavia, nel 1922, dopo aver posto il veto per un ritorno al potere del vecchio Giolitti, proprio il Partito Popolare, che aveva avuto dalla Corona (Vittorio Emanuele III) l’incarico di formare il nuovo governo con Filippo Meda, si rifiutò, consegnando di fatto il potere al luo-gotenente del Giolitti, Luigi Facta, un uomo «incolore di modesta levatura politica» che, anche per questa grave mancanza di responsabilità politica dei popolari, avrebbe di fatto con-segnato il governo a Mussolini nell’ottobre del 1922.
Ma un altro fatto importante interessò il PPI e tutto il mondo cattolico all’inizio del 1922: la morte di Benedetto XV (il 22 gennaio) e l’elezione del nuovo Papa, Achille Ratti, arcivescovo di Milano, che assunse il nome di Pio XI (1922-1939). Quale sarebbe stato l’indirizzo del nuovo Pontefice? E, soprattutto, per la nostra storia del movimento cattolico in Italia, quale atteggiamento avrebbe assunto nei confronto del PPI e degli altri organismi catto-lici (sindacato, leghe, cooperazione, casse rurali, ecc. ecc.)?
Ufficialmente – ha scritto Stefano Jacini nella sua «Storia del Partito Popolare ita-liano» – nulla mutò, né poteva mutare con il nuovo pontificato. Pio XI rimase, non meno del suo predecessore, estraneo alle questioni interne della politica italiana e continuò a considerare i popolari come un partito aconfessionale, pur mantenendo con alcuni di essi amichevoli rela-zioni.
«Tuttavia, la formazione del nuovo Pontefice era, non dimentichiamolo, tipicamente lombarda e conservatrice. Come lombardo egli aveva nella sua giovinezza assistito al doloroso conflitto fra intransigenti e cattolici liberali milanesi, e doveva perciò desiderare sopra ogni cosa una conciliazione, sul terreno politico giuridico, con lo Stato italiano; un riannodarsi diretto di rapporti, al quale l’esistenza di un partito autonomo, composto di cattolici, poteva sì, in certe circostanze, giovare, ma per avventura anche nuocere. Come conservatore, non riusciva a nascondere una certa diffidenza verso la Democrazia Cristiana, della quale il Partito Popolare era in certo qual modo la concretizzazione politica. A tali predisposizioni, si aggiunga un orrore, quasi diremmo fisico, verso il bolscevismo, di cui il Nunzio Ratti aveva vissuto personalmente la minaccia incombente su Varsavia, e quindi la istintiva simpatia verso quelle forze, quali si fossero, che al bolscevismo più energicamente ed efficacemente sembrassero contrapporsi. Tutto ciò, certo più oscuramente sentito di quanto non siamo venuti esponendo, basta a spiegare, nel primo periodo del pontificato di Pio XI, come egli abbia prestato l’orecchio a quelle correnti, che nel sorgente astro fascista scorgevano soprattutto la sconfitta del liberalismo tradizionale; come abbia appoggiato, in seno alla Chiesa, gli elementi non ostili al regime dittatoriale che si andava elaborando e, in seno ai popolari, la piccola frazione ad esso meno avversa. Di qui un mutamento non già nelle relazioni, ma nella tonalità delle relazioni fra il partito e la suprema autorità ecclesiastica; mutamento che, agli inizi quasi im-percettibile, doveva rivelarsi all’ora del crollo; quando, se alcuni membri perseguitati poterono sperimentare individualmente il beneficio di una augusta protezione, il partito come tale fu lasciato lottare da solo in una condizione di quasi umiliante abbandono» (P. Scoppola, Dal Neoguelfismo alla Democrazia cristiana, Studium, p. 162-163).
Come si può pensare, questo nuovo clima dei rapporti tra Santa Sede e il PPI (e il mo-vimento cattolico nel suo complesso) fu abilmente sfruttato da Benito Mussolini, che all’inizio accettò la collaborazione al suo governo di alcuni popolari (al momento della «fiducia», il 16 novembre 1922, votarono a favore anche De Gasperi e Gronchi) e, poi, puntò decisamente alla liquidazione del partito stesso, tentando di mostrare all’opinione pubblica e alla Santa Sede l’inutilità di un partito di cattolici, attraverso una politica (quella che avrebbe condotto ai Patti Lateranensi del 1929) di favori alla Chiesa, nettamente in contrasto con le origini antireligiose e anticlericali del fascismo. Nel 1923 Mussolini passò dalle dichiarazioni in parlamento, in cui manifestava stima e favore nei confronti della Chiesa cattolica, al proposito di rendere obbligatoria l’istruzione religiosa nella scuola pubblica (è il tempo della Riforma Gentile del sistema scolastico italiano, 27 aprile 1923), al salvataggio del Banco di Roma, notoriamente legato agli ambienti cattolici, in un crescendo di iniziative chiaramente volto ad ottenere migliori rapporti con il Vaticano e il mondo cattolico in generale. L’abile politica di Mussolini contribuì non poco alla crisi del PPI. (Dietro pressioni del Vaticano, nel luglio del 1923 Luigi Sturzo lasciò la segreteria del PPI, come voleva il duce). Più vive si fecero in molti ambienti cattolici le simpatie al fascismo, inteso come forza capace di restaurare i valori religiosi, messi in crisi dai socialisti, dai radicali, dai comunisti, dagli stessi liberali alla Giolitti… Un ex popolare, l’on. Corneggia, creò addirittura un movimento, l’Unione Nazionale, che si proponeva di raccogliere i cattolici filofascisti.
I popolari, con Luigi Sturzo, reagirono al Congresso di Torino (giugno 1923), propo-nendo una tenace difesa delle libertà democratiche, accompagnata da un disegno di ampie riforme sociali, soprattutto nel mondo contadino (contro il latifondo…). In quell’occasione alcuni deputati, rappresentanti dell’ala sinistra del partito (Piccioni, Gronchi, Ferrari, Miglio-li…) si pronunciarono decisamente contro ogni forma di collaborazione con la destra e con il centro moderato liberale, prospettando l’opportunità di una collaborazione con i socialisti, pur nella consapevolezza dei limiti che ad essa occorreva porre. Del resto, già l’anno prima, 1922, Sturzo aveva avuto diversi colloqui con Turati, Treves, Modigliani, Matteotti, nel tentativo di arrivare a un possibile dialogo politico, che si arenò, in realtà, su questioni di interesse religioso e sul problema della «libertà» della scuola. I socialisti, a loro volta, stavano uscendo da una grave crisi politica, che aveva comportato la scissione del partito con la nascita a Livorno del Partito Comunista d’Italia nel 1921 e la fondazione del Partito Socialista Unitario al posto del PSI.
Come si è già accennato, dopo il Congresso di Torino, Mussolini organizzò una dura campagna contro don Sturzo, «nemico» dichiarato del fascismo, ottenendo le sue dimissioni da segretario del PPI, che fu retto da un triumvirato formato da Gronchi, Spataro e Rodinò.
Gravi scissioni verso destra si verificarono nel Partito Popolare in occasione della fami-gerata Legge Acerbo (la nuova legge elettorale del 13 novembre 1923), che stabiliva che la lista di maggioranza anche relativa che avesse raggiunto almeno il 25% dei voti avrebbe otte-nuto i due terzi dei seggi alla Camera. Alcuni deputati popolari, favorevoli alla legge Acerbo, furono espulsi dal partito, cui seguirono altre defezioni, tra cui quelle di Grosoli, Crispoldi, Cantucci. Alle elezioni dell’aprile del 1924, svoltesi in un clima di violenze e intimidazioni contro tutti gli oppositori, ma soprattutto contro popolari, socialisti e comunisti, i fascisti e i loro alleati ottennero il 64,9% dei voti e 374 seggi su 508; ai popolari andò il 9%, con 40 deputati, ai socialisti unitari (Turati ecc.) il 5,9%, ai socialisti massimalisti il 5%, e ai comunisti il 3,7% (con Antonio Gramsci).
Il Parlamento era ormai un docile strumento nelle mani del partito di governo, il quale era nelle migliori condizioni per usare della maggioranza dell’aula per vanificare le stesse istituzioni pubbliche e imporre la propria visione totalitaria dello Stato. Inutile fu la coraggiosa denuncia delle violenze di quei giorni da parte di Giacomo Matteotti, segretario politico del Partito Socialista Unitario. Il 10 giugno 1924 egli venne rapito e quindi assassinato da sicari fascisti, convinti di interpretare la volontà di Mussolini.
Per un attimo, dopo il giugno 1924, PPI e PSU parvero poter formare un fronte compat-to sia morale che politico, per offrire alla Corona, fortemente impressionata dal delitto Mat-teotti, la base per un’alternativa al governo fascista.
Ma a sconfessare una possibile alleanza con i socialisti si erano mossi l’Osservatore Romano e la Civiltà Cattolica, oltre che lo stesso papa Pio XI che, in un discorso alla FUCI (9 settembre 1924) aveva avanzato molte riserve sull’opportunità che essa venisse conclusa. (Si parlò di «proposta ignominiosa»!).
Poi il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 alla Camera (il «discorso del bivacco»), nel quale egli si addossò tutta la responsabilità delle violenze fasciste, fece cadere ogni residua speranza di un rovesciamento del governo e rappresentò, come è noto, l’avvio del vero e proprio «regime fascista». Vi fu ancora, nel giugno 1925, il congresso di Roma nel quale fu-rono riaffermate da Alcide De Gasperi, nuovo segretario del partito, le ragioni ideali del po-polarismo. Ma poi, sotto la crescente pressione delle persecuzioni governative, le file del par-tito furono scompaginate e disperse, finché i deputati popolari insieme con quelli degli altri partiti furono dichiarati decaduti dal mandato parlamentare e tutti i partiti antifascisti disciolti con decreto del novembre 1926. (Sono le famigerate leggi «fascistissime» che trasformano lo Stato in “regime”!).
2. I Cattolici e il fascismo
Si è potuto finora accennare solo con piccole note al progressivo imporsi nel nostro Paese del regime fascista. Nato come movimento (I fasci di combattimento, a Milano) nel 1919, diventato partito (il Partito Nazionale Fascista) nel 1921, esso diventa regime, cioè occupa tutti i gangli vitali dello Stato tra il 1924 e il 1926, con l’introduzione delle leggi «fascistissi-me», che comprendevano la modifica dello Statuto del 1848, che rafforzava il potere del «capo del governo» e lo rendeva responsabile solo davanti al re, mettendo nelle sue mani anche tutta l’attività parlamentare, sancivano l’abolizione dei sindacati, dei partiti, delle cari-che amministrative elettive (Province e Comuni), e istituivano la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN, nel 1923) e l’Organizzazione per la Vigilanza e la Repres-sione dell’Antifascismo (OVRA, 1926).
Se poi si vuole almeno accennare alle ragioni profonde dell’ascesa al potere del fascismo, si deve tenere presente, come scrive Federico Chabod (in L’Italia contemporanea, 1918-1948, PBE, p. 66), che per essa giocò un insieme assai complesso d’interessi e di passioni: «Interessi di classe molto precisi, da parte dei grandi proprietari terrieri che vogliono spezzare la resistenza dei braccianti, e da parte degli industriali. Interessi che si mescolano a passioni e sentimenti: il patriottismo ferito, la paura di una rivoluzione dopo il settembre 1920 (l’occu-pazione delle fabbriche), il timore del disordine e dell’anarchia: motivi questi sentiti anche da coloro che non avrebbero molto da perdere da un cambiamento della struttura sociale».
A ciò si può aggiungere, sempre secondo Federico Chabod, che «ben pochi fra gli uo-mini di governo – l’esempio di Giolitti è tipico – si rendono conto di essere alla vigilia di un’avventura estremamente pericolosa, nella quale l’Italia sarà trascinata per vent’anni fino alla catastrofe» (ivi, p. 67). D’altra parte «il fascismo non era una forza politica vecchio stile. I suoi princìpi – ammesso che ne avesse – non avevano nulla in comune con quelli che finora avevano regolato il giuoco politico. La legalità degli atti non lo preoccupava: la libertà, la salvaguardia del Parlamento, tutti i vecchi princìpi dello Stato liberale gli erano estranei. Po-teva parlarne per semplici motivi di opportunità, di tattica, in realtà se ne beffava». Ci furono anche compiacenze militari e di corte (la regina Margherita).
Per quel che riguarda, poi, la nostra ricerca, lo Stato fascista tende a porsi confusamente come stato ideologico, che riconosce un ruolo importante alla religione tradizionale (e di con-seguenza alla Chiesa cattolica) per potenziare, per così dire, tutti i «valori nazionali». Certo, è una posizione che non risponde alle esigenze più profonde della coscienza religiosa, ma che consente un «occasionale» incontro fra lo Stato e la Chiesa sul terreno di uno scambio reci-proco di vantaggi. Lo Stato fascista chiede alla Chiesa l’avallo del suo prestigio morale e, come contropartita, assicurerà alla Chiesa protezione e favori.
Scrive Scoppola: «Il rapporto fra lo Stato e la Chiesa torna ad essere, assai più che nei primi decenni del secolo, un rapporto di vertici; non passa più, cioè, attraverso la coscienza dei cattolici, non è più condizionato dalla loro capacità di interpretare sul piano politico e civile esigenze di carattere religioso: non è più necessaria ormai alcuna mediazione. I cattolici sono risospinti in qualche modo, come tutti i cittadini del resto, in quella posizione di minore età dalla quale erano faticosamente usciti attraverso decenni di esperienze e di lotte. È chiaro che in questa situazione, venuto meno ogni spazio per un partito di cattolici, la loro azione tornerà a muoversi ancora una volta nel campo strettamente religioso. E qui, su questo terreno, essa tenderà al compito sempre essenziale, in ogni regime politico, di formazione e di espansione religiosa» (P. Scoppola, op. cit., p. 172).
I cattolici, in effetti, ripiegheranno sistematicamente, negli anni successivi, dalle posi-zioni politiche e sociali su posizioni esclusivamente religiose.
Alla fine del Partito Popolare (1926) seguì la crisi dell’organizzazione sindacale dei cat-tolici (CIL), che cessa di esistere il 3 aprile 1926, dopo la legge sull’ordinamento corporativo (il «Patto di Palazzo Vidoni» del 1925, che riconosceva solo ai sindacati fascisti la rappresen-tanza dei lavoratori). A guidare e a indirizzare i cattolici provvederà l’Istituto cattolico di attività sociali (l’ICAS), creato nel 1925 nel quadro di una vasta riforma dell’Azione cattolica. Sorte analoga toccò al movimento delle Casse rurali e delle Banche popolari, che tanta parte, come si è visto, avevano avuto nella seconda sezione dell’Opera dei Congressi, insieme con le Cooperative.
L’azione dei cattolici restava dunque confinata nel campo strettamente religioso e pur lì guardata con sospetto dal regime invadente. È in questo momento che Pio XI avvertì la neces-sità di dare all’Azione cattolica (sciolta l’Unione popolare) una organizzazione più salda e accentrata, come unica rimasta delle attività dei cattolici italiani. Essa fu allora divisa in quat-tro distinte associazioni: Federazione italiana uomini cattolici, Società della gioventù cattolica italiana, Federazione universitaria cattolica italiana e l’Unione femminile cattolica italiana. Al centro lavorava la Giunta centrale d’Azione cattolica e, in periferia, le varie Giunte diocesane e parrocchiali.
«È su questa nuova base organizzativa che i cattolici svolgeranno negli anni del fascismo la loro azione; in queste associazioni si formeranno le nuove generazioni. Ogni timido accenno di sconfinamento sul piano politico e sociale, che non sia pura e semplice lode dei meriti del regine, sarà l’occasione di contrasti e di incidenti talvolta clamorosi. Questa è appunto la condizione alla quale l’Azione cattolica, unica delle tante associazioni esistenti prima del fascismo, è tollerata dal regime totalitario: che essa sul piano politico non intralci in alcun modo l’azione del fascismo, che anzi lo fiancheggi e sostenga con la sua opera di formazione morale. Nel 1931, come vedremo, a scatenare una violenta campagna contro l’Azione cattolica sarà sufficiente l’accusa che alcuni, nelle associazioni cattoliche, “dinanzi al fascismo assumono arie e aspetti di censori e sembrano voler muovere vento di fronda”, come scriverà il 19 marzo il “Lavoro fascista”.
I cattolici che, fuori delle associazioni, assumevano precise posizioni politiche contro il regime erano obbligati alla clandestinità o all’esilio. Si tratta per lo più di ex popolari: tra i più noti Sturzo, De Gasperi, Donati e Ferrari. Nei loro scritti la denuncia del contrasto insanabile di principio tra la Chiesa cattolica e il fascismo è esplicita e precisa, e altrettanto chiara la denuncia dell’equivoco su cui si fonda la collaborazione pratica che si è tuttavia stabilita tra la Chiesa ed il regime» (P. Scoppola, op. cit., p. 174).
È in questo clima che avviene la Conciliazione tra lo Stato italiano e la Santa Sede. Come si sa, i Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929 sono composti di tre documenti: il Trattato, il Concordato e la Convenzione finanziaria.
Il Trattato, proclamando la piena sovranità della Santa Sede nello Stato della Città del Vaticano, garantiva la completa indipendenza del Pontefice nell’esercizio delle sue funzioni e scioglieva la questione romana, riconoscendo con esso la Santa Sede il Regno d’Italia con Roma capitale. Questa sovranità era in realtà ristretta nei confini del piccolo territorio non occupato dalle truppe italiane nel 1870, avendo la Santa Sede rinunciato da prima alla Villa Pamphili e alla zona di collegamento con essa inclusa nei primi progetti e poi, alla vigilia dell’accordo, all’oratorio di San Pietro, e anche perché Mussolini aveva ricevuto ripetuti inviti a non cedere neppure un metro dello Stato italiano che non fosse stato già praticamente occu-pato dal Papa.
Dove invece la Santa Sede si mostrò meno arrendevole e dove cercò anzi di ottenere il massimo fu nel Concordato. Le discussioni si erano svolte soprattutto intorno a quattro punti: il riconoscimento del cattolicesimo come religione dello Stato (anche se l’affermazione espli-cita fu poi inserita nel Trattato per rendere più evidente lo spirito con cui quest’ultimo era stato stipulato e ci si accontentò soltanto di un richiamo nel Concordato: ma numerose furono in esso le applicazioni di quel principio), l’estensione dell’appoggio che lo Stato si impegnava a dare alla Chiesa, le garanzie per l’educazione della gioventù, la nuova disciplina del matri-monio. E anche se le proposte massime avanzate dalla Santa Sede soprattutto in questi due ultimi settori (e che comprendevano tra l’altro l’adempimento collettivo del precetto festivo da parte degli alunni delle scuole statali e gli esercizi spirituali durante la settimana santa per quattro giorni per lo spazio di almeno un’ora e l’impegno a non permettere mai il matrimonio civile dei sacerdoti) furono accantonate, tuttavia il Concordato risultò, come ebbe ad osservare personalmente il Papa, «se non il migliore di quanti se ne possono fare, certo fra i migliori [naturalmente dal punto di vista della Santa Sede] di quelli che si son sin qui fatti».
Proprio Pio XI così commentava: «[…] ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto di-sordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi tanto più brutti e deformi».
A sua volta la Convenzione finanziaria fissava un contributo che il governo italiano avrebbe dato alla Santa Sede in sostituzione di quello che a quest’ultima sarebbe spettato secondo la Legge delle Guarentigie del 1871 e che il Papa aveva sempre rifiutato, manife-stando anche in quel modo la sua protesta contro la legge. Alla fine delle trattative si giunse a fissare la cifra in 750 milioni in contanti e un miliardo in titoli di Stato: meno della metà, a conti fatti, di quello che la Santa Sede avrebbe dovuto riscuotere, anche se rappresentava pur sempre una bella cifra.
La pace religiosa era quindi giuridicamente realizzata l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia e con piena soddisfazione dei due contraenti: la Santa Sede era riuscita ad otte-nere il riconoscimento della piena sovranità del Papa attraverso una pattuizione bilaterale e una cospicua dotazione economica, perché come aveva osservato il Pacelli «una sovranità costretta a tendere la mano non è una sovranità dignitosa», e soprattutto una regolamentazione dei rapporti Stato-Chiesa tra le più favorevoli possibili; lo Stato italiano, o per meglio dire il fascismo, che dai Patti Lateranensi aveva certamente ottenuto un solido consolidamento inter-no, in modo particolare nei confronti di quei cattolici che da una parte consideravano assolutamente necessaria anche la sistemazione giuridica della questione romana e dall’altra erano stati finora piuttosto tiepidi nei riguardi del regime, e un notevole aumento di prestigio all’estero. Lo stesso Alcide De Gasperi, ultimo segretario politico del Partito Popolare, nasco-sto per sfuggire alle persecuzioni fasciste e mendicante un posto di lavoro e un pezzo di pane, aveva con realismo scritto ad un amico: ‘La conclusione è, vista oggi in Italia, un successo del regime; ma vista nella storia del mondo è una liberazione per la Chiesa e una fortuna per la Nazione Italiana. Non si poteva esitare e credo che avrebbe firmato, se fosse stato Papa, anche don Sturzo. Come figli della Chiesa dobbiamo gioire’.
C’era però in tutto questo qualcosa di paradossale. La Chiesa aveva infatti ottenuto il ri-conoscimento della propria autonoma sovranità proprio nel momento in cui si faceva più esa-sperata l’affermazione dell’eticità dello Stato, di derivazione hegeliana, che il fascismo aveva fatto propria. C’era quindi dietro l’accordo del 1929 una contraddizione ideologica che il reciproco interesse dei due contraenti poteva appena velare, ma non cancellare. E le polemiche seguite alla Conciliazione la renderanno evidente.
Non erano mancate però neppure al momento della stipulazione degli accordi le riserve da parte di alcuni ambienti cattolici. E non sembra storicamente esatta la valutazione fatta a trent’anni di distanza da padre Bevilacqua sul «grande gelo che invase gli spiriti» e sul fatto che «la grande maggioranza dei cattolici non riusciva a rendersi ragione come la Chiesa avesse potuto venire a patti con una forza dimostratasi anticristiana in sé, nei fini come nei mezzi», c’erano pur stati dei gruppi e delle personalità cattoliche e anche uomini oscuri (noi stessi abbiamo pubblicato le note di un povero parroco di campagna in proposito) che avevano ele-vato le loro proteste o avanzato le loro riserve. Queste ultime erano state particolarmente vive tra gli uomini del disciolto Partito Popolare. Sturzo, Donati, Ferrari dall’esilio, cui erano stati costretti dal fascismo, avevano fatto sentire le loro voci; ma dobbiamo osservare che le loro riflessioni più mature in proposito sono successive di qualche anno, quando la valutazione risultava più facile. Le più notevoli sono le pagine di Sturzo nell’opera Chiesa e Stato, edita nel 1937. In essa vengono messi in risalto gli equivoci dei contrapposti e inconciliabili obiettivi dei due contraenti: da parte fascista l’inserimento strumentale della Chiesa in una concezione etico-sociale dello Stato; da parte della Chiesa la confessionalizzazione dello Stato per garantire la sua presenza nella vita italiana.
Lo stesso De Gasperi, del resto, se aveva visto l’aspetto positivo della Conciliazione e realisticamente riconosciuto «il valore oggettivo della politica mussoliniana», aveva scritto pure ad un suo amico sacerdote trentino che «il pericolo era piuttosto nella politica concorda-taria» per «la compromissione» che ne sarebbe potuto derivare alla Chiesa da un’alleanza reale o anche soltanto apparente con un regime totalitario.
Della reazione di gruppi fu particolarmente significativa quella dei cattolici milanesi che, esprimendo al loro arcivescovo il dissenso sulla Conciliazione, avevano scritto: ‘No, né il Papa né l’Italia, possono benedire il fascismo perché tra i metodi del sistema fascista e la legge d’amore del Vangelo l’abisso è incolmabile’.
Resta però il fatto – e i «prospetti sistematici sulla pubblica sicurezza dal lato politico nelle province del Regno» lo confermano – che vi fu dal 1929 in poi un progressivo orientarsi del clero e degli ambienti cattolici – anche di quelli precedentemente ostili o indifferenti – verso il regime.
In effetti, i motivi del conflitto, nonostante i Patti Lateranensi, non vennero meno fra Stato fascista e mondo cattolico. Già precedentemente l’Azione cattolica era stata presa di mira dalle squadre fasciste: nel 1923 durante la discussione della legge Acerbo; nel 1924, dopo il delitto Matteotti; nel 1925, dopo l’attentato di Zaniboni a Mussolini. Ma dopo il 1929 il clima si surriscaldò violentemente, quando la presidenza della Gioventù cattolica emanò una circolare in cui si parlava di costituire delle Sezioni professionali e la presidenza centrale, a sua volta, ne produsse un’altra per costituire un Segretariato operaio.
I fascisti reagirono subito. In un articolo del 19 marzo del 1931, apparso sul Lavoro fa-scista, si dichiarava che con queste iniziative «si straripava oltre gli argini per inondare il campo dell’ordinamento sociale del fascismo».
«Ponendo successivamente in relazione tutto ciò “con il grande scalpore che si sta fa-cendo intorno al quarantesimo anniversario della Rerum Novarum”, si riconosceva innegabile “il tentativo di un grande schieramento di forze cattoliche contro il regime”. E perfino la sua concomitanza con l’annuncio che il tema della Settimana sociale di quell’anno sarebbe stato La dottrina cristiana nell’esercizio della professione contribuì a deteriorare la situazione. “I falsi ingenui – ebbe a scrivere il citato giornale fascista – i collitorti, gli organizzatori di sacrestia, le pinzocchere antifasciste ricordino che il fascismo ha ripulito una volta l’Italia a suon di legnate. Se un supplemento di cura è necessario sulle pieghevoli schiene, non saremo certamente noi a farci pregare e ad attendere troppo per venire indotti in tentazione”. Al La-voro fascista tennero dietro Gioventù fascista e La Tribuna e il 19 aprile lo stesso segretario nazionale del partito, Giovanni Giuriati, ebbe a parlare di “grossa manovra” delle forze catto-liche contro il fascismo, invitandole a rientrare nei ranghi nello spirito del Concordato. La polemica non finì lì. I giornali riportarono “false relazioni” – come ebbe a dichiarare l’arcivescovo di Taranto che vi aveva presenziato – sull’assemblea generale dell’Azione cat-tolica del 16-17 maggio, fomentando l’odio dei fascisti, furono sospesi i programmati incontri della FUCI, e un’ondata di violenza si scatenò contro le associazioni cattoliche. Gli ultimi giorni di maggio Venezia, Torino, Milano, Pavia, Ravenna, Trento, Verona, Vicenza, Padova, Bologna, Imola, Asti, Savona, Bari, Barletta e molte altre grandi e piccole città e sperduti paesini videro sopraffazioni, spesso sanguinose, devastazioni, che giunsero fino a sacrileghe profanazioni, fra le grida di abbasso e di morte, canzoni blasfeme e oscene» (S. Tramontin, Sinistra cattolica…, op. cit., pp. 92-93).
La Santa Sede sospese, in segno di protesta, il Congresso Eucaristico nazionale di Roma e altre manifestazioni religiose pubbliche. Ma il regime, negli ultimi giorni del maggio 1931, chiuse più di 10.000 associazioni giovanili di Azione cattolica, con quasi un milione di iscritti, distruggendo le sedi e malmenando gli aderenti. Un mese dopo, il 5 luglio, Pio XI reagì con l’enciclica Non abbiamo bisogno, in cui vigorosamente respingeva ogni accusa di intrigo da parte dell’Azione cattolica e dichiarava di dubitare fortemente «che gli atteggiamenti prima benevoli e benefici» del regime verso la Chiesa fossero veramente sinceri. Solo, più avanti, il 2 settembre dello stesso anno, si arrivò ad un compromesso attraverso il quale veniva esclusa ogni finalità politica o sindacale delle organizzazioni cattoliche.
Poi, scrive P. Scoppola, «all’accordo e alla pacificazione raggiunta seguirono lunghi anni di rapporti amichevoli: gli anni delle benedizioni alle bandiere dei reparti in partenza per la guerra di Etiopia – un intervento il cui principio ispiratore di guerra di conquista motivata dall’esigenza dello “spazio vitale” era stato tuttavia respinto dall’“Osservatore romano” – dei discorsi di cattolici responsabili, di esponenti del clero e talvolta di vescovi, in cui si inneg-giava alle aquile romane che avrebbero aperto la via alla Croce di Cristo. Ancor più intimo l’accordo in occasione della guerra di Spagna, intesa e propagandata da molta parte del clero come una vera crociata delle forze del bene contro l’anticristo nel quadro di quel dilemma, che tanto giovò al fascismo, fra Roma o Mosca. Sono gli anni il cui ricordo, ha osservato con
amarezza Arturo Carlo Jemolo, è più sconsolato per i cattolici antifascisti, gli anni in cui, nell’incoscienza dei più, si andava preparando materialmente e moralmente la tragica avven-tura della partecipazione italiana alla guerra hitleriana.
Ma proprio alla vigilia della guerra, l’accordo tuttavia fu nuovamente e più gravemente scosso dall’applicazione in Italia, sull’esempio della Germania, dell’assurda e anticristiana legislazione razziale: qui ogni coscienza sensibile e permeata dai valori del Cristianesimo non poteva avere dubbi, non vi erano distinzioni possibili; e in effetti, rispondendo ad un senti-mento già diffuso nel mondo cattolico, i princìpi del razzismo furono chiaramente condannati dal Pontefice.
Il contrasto fra il nazismo e la Chiesa in Germania aveva dato occasione alla nota enci-clica del 14 marzo 1937 sulle condizioni della Chiesa cattolica in Germania, Mit brennender Sorge: con l’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista e con l’introduzione in Italia della legislazione razziale anche l’intesa della Chiesa con il fascismo entrò definitivamente in crisi» (P. Scoppola, op. cit., p. 186-187).
Se poi, alla fine, si potesse fare un bilancio su antifascismo e filofascismo cattolico in Italia, si dovrebbe distinguere:
– Riguardo al primo, si sviluppò un tipo di antifascismo filosofico e teologico, che nasceva dalla considerazione che il regime si ispirava a una concezione di vita estranea al Cattolicesimo ed era solo opportunisticamente favorevole alla religione. A sostenerlo fu la «Civiltà cattolica» e la Rivista di filosofia neoscolastica, di padre Gemelli, che in altri tempi aveva incondizionatamente appoggiato il regime. Accanto ad esso ci fu anche un’opposizione, nata soprattutto tra le file dell’Azione cattolica, fondata su un’intuizione, anche se confusa, del valore religioso della libertà, del primato della persona umana nei confronti dello Stato, derivante in gran parte da letture di filosofi e pensatori cattolici francesi. Fu soprattutto nell’am-biente della FUCI, guidata da Igino Righetti e da mons. Giovanni Battista Montini, e dei Laureati cattolici, movimento organizzato proprio in quegli anni, che tali tendenze si manifestarono: velatamente in pubblicazioni e congressi, più palesemente in riunioni ristrette e incontri personali.
Assommò in un certo modo le due componenti il periodico «Principii», che il professore di diritto romano all’Università di Firenze, Giorgio La Pira, aveva fondato nel 1939, come supplemento della rivista di spiritualità «Vita cristiana» dei Domenicani di quella città e che, riportando brani dei Padri e Dottori della Chiesa, intendeva con facili riferimenti renderli protesta contro quanto fascismo e nazionalsocialismo avevano creato di opprimente ed inu-mano in Italia ed in Europa.
– Accanto a queste tendenze, piuttosto minoritarie però, continuarono anche in que-gli anni le manifestazioni filofasciste di cattolici, laici ed ecclesiastici, occasionate da eventi di politica economica quali la battaglia del grano, che vide più volte riuniti vescovi e sacerdoti attorno al duce a Roma e altrove, o la guerra italo-abissina del 1935 che, se diede occasione a qualche riserva da parte cattolica riguardo al principio della guerra di conquista, fu pure giustificata da altri con la teoria degli spazi vitali (che riecheggiava quella mussoliniana del posto al sole) e contribuì al nascere di una certa retorica cattolico-imperiale che vedeva le armi italiane spezzare le catene della barbarie e aprire la strada alla croce di Cristo (anche se l’Etiopia era l’unico paese cristiano del continente africano), unendo così (ed era pur questo un tema caro alla propaganda fascista) fede cattolica e civiltà romana.
Ancor più larghi furono poi i consensi a favore dell’intervento italiano in Spagna in ap-poggio del franchismo. Molti vi videro una crociata in difesa della civiltà cristiana contro la barbarie bolscevica, anche se talvolta si distinse la causa spagnola da quella fascista o nazio-nalsocialista, che sembravano ivi ugualmente impegnate. E ciò nonostante il riserbo ufficiale della Santa Sede che solo verso la fine del 1938 aveva riconosciuto il governo franchista.
I rapporti tra lo Stato fascista e la Chiesa si incrinarono invece molto più profondamente a partire dalla primavera del 1938. L’occupazione dell’Austria da parte nazista, che aveva fatto cadere la prospettiva di un’alleanza tra Stati cattolici (Italia, Spagna, Austria, Ungheria), non solo in funzione anticomunista, ma pure antinazista, l’alleanza sempre più stretta con la Germania che ne era seguita, anche per il prevalere in seno al fascismo di tendenze estremiste, avevano già contribuito a rompere quel clima quasi cordiale prima esistente. Ma fu soprattutto l’adozione della dottrina e della politica razziale, in parte imitata e in parte subìta dal nazionalsocialismo, con la seguente legislazione antisemita che il 17 novembre di quell’anno portò a dichiarare non trascrivibili, e perciò privi di effetto civile, i matrimoni fra ariani ed ebrei, a portare la Chiesa e i cattolici italiani a distaccarsi progressivamente dal regime.
I cattolici trentini e il fascismo (1922-1943)
1. Nell’Italia dell’Azione cattolica
L’aggregazione del Trentino all’Italia, dopo la prima guerra mondiale, portò con sé, nell’immediato, la necessità di adattare leggi e organizzazioni alla nuova realtà sia politica e civile che religiosa. Come fu introdotta la legislazione italiana in tutti i campi dell’am-ministrazione, così si trattò di confrontarsi con la vita e l’organizzazione della Chiesa italiana per la diocesi e per il movimento cattolico trentino. In questo senso finiva davvero un’epoca: quella di un mondo cattolico autonomo e a suo modo originale nel suo sviluppo e nella sua operatività in territorio austriaco, lontano da quella ostilità e da quella contrapposizione che erano state le caratteristiche del movimento cattolico italiano durante tutto l’Ottocento e nei primi due decenni del Novecento.
Come scrive Severino Vareschi, «in tutti i settori si poneva ora in Trentino il compito di raccordarsi con le omologhe o analoghe realtà italiane» (S. Vareschi, op. cit., vol. 6°, p. 287).
Il fatto è che nel frattempo proprio il movimento cattolico italiano aveva subìto una pro-fonda trasformazione, nel senso che già con Benedetto XV (1914-22) esso venne collegato all’Azione cattolica, che diventava così il punto di riferimento non solo per gli aspetti dottri-nali e formativi dei cattolici, ma anche per l’organizzazione ecclesiale e associativa di essi. In pratica, con la costituzione, già nel 1915, della Giunta direttiva di Azione cattolica, si creava il nuovo organismo di coordinamento (dall’alto) di tutte le iniziative cattoliche, escluso, per il momento, il sindacato (la CIL) e la Federazione delle cooperative.
Il nuovo papa, Achille Ratti – Pio XI (1922-39), perfezionò questi sviluppi e diede all’Azione cattolica compiti ancora più chiari, «per la riconquista religiosa della società, per la difesa dei princìpi religiosi e morali, per lo sviluppo di una sana e benefica azione sociale, sotto la guida della gerarchia ecclesiastica, al di fuori e al di sopra dei partiti (è l’abbandono del PPI al suo destino! – n.d.r.), nell’intento di restaurare la vita cattolica nella famiglia e nella società» (ivi, p. 288).
Questo fu in tutto e per tutto anche il programma di Endrici e del movimento cattolico trentino. La strada era già tracciata, come si è visto; si trattava ora di adattarla alla nuova si-tuazione italiana.
Tra il 1919 e il 1925 ci fu in Trentino un’intensissima attività per sviluppare le varie branche dell’Azione cattolica. Furono soprattutto l’Unione donne e la Gioventù femminile di Azione cattolica a promuovere varie realizzazioni come l’Opera per la protezione della gio-vane, la Casa famiglia, oltre che impegnarsi per la diffusione della stampa cattolica, per l’appoggio alla neocostituita Università Cattolica del Sacro Cuore (1922), o per opporsi alla proposta di legge del divorzio, con la raccolta in Trentino di più di 70.000 firme contro di essa (1919).
Più laboriosa fu la fondazione dell’Unione uomini cattolici, anche se va tenuto presente che in Trentino esisteva a partire dal 1919 la Federazione delle associazioni dei Padri di famiglia, con circa 40.000 iscritti nel 1920. Nel 1925 si contavano in Trentino un centinaio di sezioni dell’Unione uomini di A.C. (Azione cattolica).
Proprio un anno prima, nel 1924, era nata la «Giunta diocesana di Azione cattolica», che prendeva il posto di quel Comitato diocesano di Azione cattolica, che aveva diretto l’attività dei cattolici trentini a partire dal 1898. Don Guido de Gentili fu chiamato ancora una volta a presiedere il nuovo organismo.
2. Cattolici e fascismo
Il primo fascismo trentino fu quello, movimentista e battagliero, di Alfredo Degasperi, breve come una meteora, cui fece seguito, nel 1921, la fondazione a Trento di una sezione dei Fasci di combattimento, ad opera di Achille Starace nel 1921 e poi, l’anno dopo, della Fede-razione provinciale fascista della Venezia Tridentina.
A dir il vero l’impatto con il mondo trentino in generale non fu entusiasmante, e non lo sarebbe stato anche nei due decenni successivi. I fascisti rimproverarono all’inizio ai trentini uno spirito di chiusura localistica, legata alla difesa delle loro istituzioni autonomistiche seco-lari, oltre che lo scarso impegno nell’opera di italianizzazione dell’Alto Adige (anche Endrici fu accusato in proposito su vari fronti). In seguito il rapporto, tranne rari momenti di esalta-zione (il Concordato, la guerra d’Etiopia), si sarebbe sviluppato sui binari di una convivenza senza eccessi, più dettata dalla necessità della sopravvivenza che non dalla acquiescenza ideologica. Lo testimonia anche il fatto che il movimento fascista trentino sarà sempre in qualche modo «commissariato», cioè guidato da elementi provenienti da altre regioni italiane.
Quanto al mondo cattolico si può ben dire che in generale i suoi primi “umori” nei con-fronti del fascismo furono guardinghi, ma non immediatamente negativi. Lo stesso vescovo Endrici, reduce dall’«esilio» ad Heiligenkreuz (dal 1916 al 1918), cui l’aveva confinato l’amministrazione militare austriaca, aveva accolto con sollievo il mutamento politico e l’ingresso del Trentino nella compagine italiana (che portava con sé anche la fine della tutela «gioseffina» asburgica), senza preclusioni anche nei confronti della progressiva presa del potere dei fascisti. (Occorre tener conto, fra il resto, che il Partito popolare italiano, con lo stesso Alcide De Gasperi era parte integrante del primo governo Mussolini tra il 1922-23!).
I primi «screzi» gravi iniziarono nel 1924, quando il neonato giornale fascista Il Bren-nero cominciò ad attaccare De Gasperi e il giornale da lui diretto Il Nuovo Trentino, inter-prete del mondo cattolico. (Nel 1926, in seguito alla costante opera di denigrazione nei suoi confronti, De Gasperi si sarebbe dimesso da direttore, lasciando il posto a don Giulio Delugan, ed era l’inizio, questo, della sua definitiva uscita di scena dalla vita della comunità trentina, fino a guerra inoltrata).
Poi ci furono le elezioni del 6 aprile 1924, che, caso unico in Italia, videro la lista fascista solo terza con 22.244 voti, dopo il Deutscher Verband con 33.115 e i Popolari con 25.788 voti. La rabbia fascista per quella “sconfitta” cominciò a manifestarsi più pesantemente (dopo il delitto Matteotti), tanto che la Giunta diocesana di Azione cattolica, da poco istituita, decise di iscrivere la Federazione dei consorzi cooperativi all’ICAS (Istituto cattolico di attività sociali), istituito dall’Azione cattolica centrale. Lo stesso vescovo Endrici, anche in seguito alla fondazione dell’Opera Nazionale Balilla (1926), intervenne ripetutamente a raccomandare al clero la cura e la diffusione dell’Azione cattolica, soprattutto per rivendicare alla Chiesa il diritto-dovere di occuparsi dell’educazione della gioventù.
Ma la tempesta si scatenò subito dopo. «In seguito all’attentato a Mussolini a Bologna il 31 ottobre, nella notte dall’1 al 2 novembre 1926, squadristi assalirono anche a Trento la sede della Giunta diocesana di Azione cattolica, devastarono la tipografia del Comitato diocesano e una serie di circoli, oratori e reparti di Esploratori, occuparono il SAIT e la Federazione dei consorzi cooperativi e altre società economiche. Il presidente del Comitato diocesano, de Gentili, venne deportato per qualche settimana nel convento benedettino di Gries, presso Bol-zano, e al suo rientro si vide costretto a dare le dimissioni dalla sua carica e ritirarsi in semi-nario, di cui successivamente fu rettore. In quel modo uscì totalmente dalla scena pubblica colui che era stato il personaggio più significativo del movimento cattolico trentino degli ultimi tre decenni. Al vertice della Giunta diocesana di Azione cattolica salì don Oreste Rauzi. Endrici si attivò prontamente a denunciare presso il prefetto della Provincia – e il 23 novembre presso lo stesso capo del governo Mussolini – le violenze subìte, stigmatizzando in particolare il fatto che le autorità locali, col pretesto di sottrarre agli squadristi le opere cattoliche, le avessero poste sotto sequestro e commissariate. Tra febbraio e marzo dell’anno seguente, con manovre varie vennero imposte alle stesse nuove direzioni che ne sancivano l’espropriazione. In febbraio la Banca Cattolica venne fusa forzosamente con la Banca Cooperativa, a formare la Banca del Trentino e dell’Alto Adige (fallita nel 1933). In dicembre e nella primavera successiva le aggressioni riguardarono De Gasperi che venne messo a sua volta definitivamente fuori gioco» (S. Vareschi, op. cit., vol. 6°, pp. 292-293).
Di colpo tutta l’organizzazione cattolica era andata in frantumi. Si decise di ricominciare con il giornale Vita Trentina, nata il 23 dicembre 1926, dopo la chiusura de Il Nuovo Trentino. Con la guida (dal 1927) di don Giulio Delugan, l’organo di stampa diocesano sarebbe diventato la vera voce critica del regime negli anni successivi. Ma si può dire che quella fu anche l’occasione in cui il regime fascista stesso si rese conto del peso e della pericolosità di un’opposizione, quella cattolica, che, senza gesti clamorosi, agiva attraverso l’Azione cattolica, le parrocchie, gli oratori, tanto da far dire al prefetto di Trento, Marcello Vaccari, che «il vescovo è persona di dubbia fede politica» e che «sarebbe opportuna una decisa Vostra azio-ne, o Duce…», riferendosi direttamente a Mussolini, «onde la Santa Sede comprenda final-mente e provveda alla situazione ecclesiastica del Trentino».
Piena e cordiale fu invece l’adesione del vescovo Endrici alla «Conciliazione» dell’11 febbraio 1929. Egli addirittura invitò tutti i cattolici a festeggiare l’evento come un guadagno obiettivo. Le uniche voci discordanti, perplesse, del mondo cattolico furono quelle di De Ga-speri e di Delugan. E alle elezioni successive, del 24 marzo 1929, Endrici sollecitò la parteci-pazione al voto allo scopo di garantire, con un ampio appoggio cattolico, la formazione di un’assemblea legislativa che ratificasse i Patti Lateranensi del febbraio.
Certo, dopo la devastazione del 1926, c’era stata una ripresa: l’Azione cattolica era cre-sciuta di numero (circa 40.000 iscritti ai quattro «rami» nel 1930: uomini, donne, gioventù maschile e femminile); erano cresciuti anche gli abbonati a Vita Trentina (circa 5.300) e ad altri giornali cattolici.
«Ma nel 1931 il regime si lasciò andare a una nuova prova di forza. Per ordine di Mus-solini, il 30 maggio 1931, a un mese di distanza da una serie di manifestazioni diocesane per il quarantesimo dell’enciclica Rerum Novarum, vennero dichiarati sciolti anche in Trentino 139 circoli maschili e 221 femminili, oltre all’associazione degli studenti medi Juventus, l’AUCT (Associazione Universitaria Cattolica Trentina) maschile e la FUCI femminile. Vennero inoltre chiusi 86 oratori con 27 teatri. Nei primi giorni di giugno avvennero sporadiche aggressioni e soprusi nei confronti di circoli e singole persone. In una lettera al Papa del 2 giugno Endrici riaffermava il “diritto inviolabile [della Chiesa] di educare cristianamente la gioventù e di avviarla all’apostolato ausiliario del clero”. Gli stessi princìpi espresse in una lettera pastorale che fece leggere in tutte le messe il 14 giugno. “Vita Trentina” e “L’Avvenire d’Italia”, che la pubblicarono, vennero sequestrati. Non altrettanto naturalmente il regime poté fare con il numero di “Vita Trentina” del 9 luglio che riportava l’enciclica di Pio XI Non abbiamo bisogno e che venne stampata e diffusa in 40.000 copie» (S. Vareschi, op. cit., vol. 6°, p. 296).
Solo nel settembre successivo si arrivò a un accordo tra la Santa Sede e il Governo ita-liano che restituì al mondo cattolico le sue strutture e i suoi spazi, obbligandoli però a mante-nersi ancora più rigorosamente su un terreno soltanto morale e religioso, esclusa ogni proie-zione sull’economico e sul politico, come pure sul terreno sindacale e sportivo.
3. Gli anni Trenta e la guerra
«Mentre all’epoca della sua instaurazione violenta il regime fascista aveva costituito una minaccia per il cattolicesimo italiano nelle sue istituzioni e nei suoi valori e aveva con ciò attivato vigilanza e reazione, lungo gli anni Trenta, grazie soprattutto alla Conciliazione del 1929, affiorarono anche aspetti di convergenza tra i due mondi, complice anche il generale contesto di crisi della democrazia parlamentare del periodo. In questi anni di generale calo di sensibilità nei confronti del valore delle libertà politiche il regime intercettò ampiamente filoni tradizionali di antiliberalismo e di antisocialismo cattolico, come pure singole correnti di con-cezione autoritaria dello Stato. Oltre a ciò i cattolici condividevano con i fascisti, in base a una loro specifica tradizione, un’enfasi posta sui valori di ordine e di concordia sociale, sul ruolo della famiglia, un favore per la natalità; infine salutarono favorevolmente il recupero fascista (in Italia come in Austria) della concezione corporativa del lavoro e della società.
La “diversità” cattolica era destinata a ricuperare smalto nel momento in cui il regime avesse spinto il concetto di nazione fino alla negazione di qualsiasi altro valore, oppure la sua inveterata propensione al monopolio culturale e sociale a punti chiaramente lesivi della dignità della persona umana come le leggi razziali o la soppressione delle libertà personali o la guerra, come sarebbe accaduto alla fine degli anni Trenta anche in Trentino.
In ogni caso quegli anni furono un’epoca di pressoché incontrastato predominio della cultura e delle organizzazioni fasciste nella vita pubblica. Verso la metà degli anni Trenta si registrò anche in Trentino il massimo avvicinamento tra Chiesa e regime. Ogni anno l’anni-versario della marcia su Roma veniva celebrato con una messa in Duomo officiata dal prepo-sito del capitolo.
Nell’autunno del 1935 ebbe luogo la raccolta dell’oro, dell’argento e del ferro “per la patria” e l’arciprete di Santa Maria Maggiore, don Luigi Degasperi, consegnò al federale il suo orologio d’oro con due tabacchiere d’argento. Anche l’arcivescovo Endrici fece la sua offerta e il 18 del mese benedisse al castello del Buonconsiglio le fedi di acciaio che sostituivano quelle d’oro donate alla patria, le quali erano collocate in elmetti deposti sull’altare. Il 5 maggio 1936 si celebrò anche nel duomo di Trento un solenne Te Deum di ringraziamento per la vittoria delle armi italiane in Etiopia e per la proclamazione dell’impero d’Africa. La messa venne officiata da monsignor Raffaele Cazzanelli, frate francescano trentino, missionario di recente consacrato vescovo. Il prelato non si astenne da toni smaccatamente militaristi e parlò del “lungimirante genio del nostro Duce, l’uomo ammirato, invidiato e temuto dal mondo intero”» (S. Vareschi, op. cit., vol. 6°, p. 297).
Sono questi anni in cui cresce ancora l’Azione cattolica e si moltiplicano le attività re-ligiose in diocesi, anche se, come ricorderà più avanti Alcide De Gasperi, la formazione sociale e ancor più quella politica erano cadute in totale abbandono in quel periodo.
Un lampo di luce fu la nomina a vescovo coadiutore con diritto di successione di Enrico Montalbetti, prelato lombardo (1935-1938), che, però, restò a Trento solo tre anni, per con-cludere poi la sua vita di vescovo a Reggio Calabria, ucciso da un bombardamento nel 1943.
Nel primo anno di guerra, nell’ottobre del 1940, moriva Celestino Endrici, dopo 36 anni di episcopato. Nell’aprile del 1941 veniva nominato vescovo di Trento Carlo de Ferrari, allora vescovo di Carpi, presentato come «prelato di sentimenti fascisti e patriottici». E i primi atti del nuovo vescovo lo dimostrarono, suscitando una penosa impressione in persone e ambienti che erano state vicine ad Endrici.
Per il resto de Ferrari aveva un tratto amabile, il suo pensiero era concreto, le osserva-zioni argute e l’eloquio ricco di spirito. Puntava tutto sulla parrocchia e sull’Azione cattolica per un rinnovamento della pastorale diocesana.
Ma la guerra portava con sé lutti, privazioni materiali, bombardamenti e per il Trentino, dopo l’8 settembre 1943, anche l’occupazione nazista, che costrinsero il vescovo e la Chiesa trentina a occuparsi della pura sopravvivenza e di un minimo di funzionalità dell’orga-nizzazione ecclesiastica, nonché a cercare di alleviare le sofferenze della popolazione. Il «commissario supremo» dell’Alpenvorland (così si chiamava il territorio occupato dai nazisti: Bolzano, Trento e Belluno) Franz Hofer si trovò di fronte un mondo cattolico attento a non provocare ritorsioni e impegnato per la sicurezza delle popolazioni e per la pace sociale. Alcuni religiosi (don Narciso Sordo, padre Costantino Amort e altri due confratelli francescani del convento di Cavalese) pagarono con la vita l’aiuto prestato a gruppi di partigiani. Anche la stampa (Vita Trentina) fu imbavagliata, prima nel 1941 e poi nel 1944 e solo nel luglio del 1945 il settimanale cattolico poté riprendere le pubblicazioni sotto la direzione di un ritrovato don Giulio Delugan. E con «il ritorno in vita» del settimanale diocesano, anche le altre attività del movimento cattolico trentino avrebbero ripreso a fiorire, in un nuovo contesto, contrassegnato da una straordinaria volontà di «ricostruire» persone e strutture pubbliche.