Canova, 18 marzo 2011
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1. Alla ricerca dell’«altro»

C’è un bel testo ne I Racconti dei Chassidim di Martin Buber, che vorrei mettere a capo di questa riflessione. Esso narra di un’esperienza capitata a Moshe Löb, un ebreo polacco, attento indagatore della Scrittura antica. «Come bisogna amare gli uomini, l’ho imparato da un contadino – egli ci ricorda –. Questi sedeva in una mescita con altri contadini e beveva. Tacque a lungo come tutti gli altri, ma quando il cuore fu mosso dal vino, si rivolse al suo vicino dicendo: “Dimmi tu, mi ami o non mi ami?” Quello rispose: “Io ti amo molto”. Ma egli disse ancora: “Tu dici: io ti amo e non sai che cosa mi affligge. Se tu mi amassi in verità, lo sapresti!” L’altro non seppe che cosa rispondere, e anche il contadino che aveva fatto la domanda tacque come prima. Ma io compresi: questo è l’amore per gli uomini, sentire di che cosa hanno bisogno e portare la loro pena» (M. Buber, op. cit., p. 406).
Da oltre un secolo le figure più emblematiche della dedizione agli altri, nel nostro mondo carico di ingiustizie e di povertà e, insieme, di slanci e di generosità assolutamente gratuiti, fanno riferimento alla fede in Gesù di Nazareth, come fondamento della loro testimonianza: da Martin Luther King a Oscar Romero, da Desmond Tutu a Madre Teresa di Calcutta, da Suor Emmanuelle a l’Abbé Pierre, fino a tante donne e uomini anonimi, che hanno riconosciuto nel Cristo, come ha scritto Dietrich Bonhöffer, «l’uomo per gli altri». È proprio l’Abbé Pierre che afferma: «Quando noi cristiani ce ne andiamo per il mondo dicendo il Padre Nostro, questa preghiera dell’Uomo a Dio dovrebbe farci capire la preghiera che Dio rivolge all’Uomo e che dovrebbe risuonare in continuazione nella nostra anima: “E gli altri? e gli altri? e gli altri?”» (Messaggio di Natale 1970).

2. A partire da Matteo 25, 31-45

Ciò che va immediatamente osservato, è il fatto che il grande brano evangelico del «giudizio finale», come viene chiamato, non ha lo scopo di mettere davanti ai suoi lettori, l’elenco dei bisogni dell’uomo, ma la solidarietà di Dio nella persona di Gesù di Nazareth. Lungo la sua vita egli fu rifiutato, perseguitato e crocifisso, condividendo la debolezza dei diseredati. E anche ora, nella sua gloria, continua a vivere sconosciuto sotto le spoglie dei «suoi piccoli fratelli». È questa, e non altra, la radicale novità della solidarietà evangelica. Altre pagine bibliche raccomandano – per fare un esempio – di ospitare il forestiero, ma solo Gesù afferma di identificarsi con il forestiero: «Ero forestiero e mi avete accolto». E questo vale per tutto il resto: «Avevo fame… sete…; ero malato… carcerato… nudo…» (Matteo 25, 34-36).
Commenta l’Abbé Pierre: «Nel giorno decisivo, quello del giudizio, vedendo il nostro senso di sufficienza e pesando invece la nostra insufficienza, la domanda che ci sarà rivolta dal Signore non sarà tanto: “Sei stato credente?”, quanto piuttosto: “Sei stato credibile?” Bisogna ripeterlo ancora una volta: è la miseria che giudicherà e farà da arbitra ai destini della terra, come pure ci giudicherà quando compariremo davanti a Dio. Come ci assicura il Vangelo, in quel giorno il Signore dirà a ciascuno di noi: “Avevo fame, avevo freddo… Dovunque o in qualsiasi secolo tu sia vissuto, quelli che accanto a te avevano fame, avevano freddo e piangevano, erano Me”» (da La voce degli uomini senza voce, 1990).
Tornando al brano evangelico, si può riconoscere che il significato del verbo «accogliere» dice di più di un semplice segno di aiuto, perché significa aprirsi alla persona e non soltanto ai suoi bisogni. Ad es., accogliere lo straniero è fargli spazio nella propria città, nelle proprie leggi, nella propria casa, nel proprio tempo e nel giro delle proprie amicizie.
Ma c’è di più. La solidarietà del «giudice divino» con gli affamati, gli ammalati ecc. ecc., ha una radica teologica: è la trascrizione storica e visibile dell’accoglienza di Dio. Non soltanto un gesto di salvezza in favore dei bisognosi (o dei peccatori), ma ancor più e più profondamente, un gesto di rivelazione: la solidarietà di Gesù «giudice» è lo specchio del volto di Dio. La signoria di Dio si manifesta e prende volto in una società nella misura in cui questa assume tratti umani, a ogni livello, persino al livello dei rapporti economici. È solo quando traduce la solidarietà di Dio in solidarietà tra gli uomini, a tutti i livelli, che la comunità cristiana diventa veramente di Dio: un popolo, cioè, che ridisegna una convivenza in cui Dio può mostrare il suo volto: «Il Signore nostro Dio non usa parzialità, ama il forestiero e gli dà pane e vestito: amate dunque il forestiero» (Deuteronomio 10, 17-19).
Mi sembra molto bello quello che scrive in questo contesto Bruno Maggioni: «La solidarietà per la Bibbia non è una semplice necessità antropologica, né semplicemente una categoria morale, bensì una categoria teologica (non riguarda semplicemente un “valore” morale – bontà o giustizia – ma ne va della stessa immagine che si ha di Dio!). Per questo la solidarietà cristiana guarda a Dio e non solo all’uomo. Per questa sua eccedenza la solidarietà cristiana, che si misura su Dio, non si identifica mai con nessun progetto di solidarietà, ma allarga e movimenta ogni progetto! La solidarietà biblica non poggia (almeno principalmente) su un bene che gli uomini già possiedono in comune, ma su un di più che è Dio stesso. Un di più che è sopra e in avanti. Per questo la solidarietà biblica è essenzialmente dinamica. Non si è solidali per conservare, o solo per conservare, ma per tendere verso un fine. Tutto questo ha la sua importanza. Per esempio la frase (biblica ed evangelica) “gli uni gli altri” non dice solo un legame da conservare o costruire, ma anche (e soprattutto) una “diversità” da rispettare, un “oltre” a cui tendere in un comune movimento in avanti. Il fondamento ultimo della solidarietà non è qualcosa di semplicemente umano (interessi o bisogni reciproci), né semplicemente qualcosa di Dio che già possediamo in comune (e che ci fa uguali), ma Dio stesso che è oltre e resta altro. Paradossalmente la solidarietà non poggia su ciò che è comune, ma su ciò che è altro» (in Radici e figure bibliche della solidarietà).

3. Gesù di Nazareth, «una vita donata»

Occorre rileggere l’evangelo. Lì Gesù di Nazareth appare come un’esistenza fraterna e filiale nel grande soffio di vita che noi chiamiamo Spirito Santo. Egli testimonia di un Dio che è in Cristo stesso comunione e fonte di comunione. È questo modo di essere, questa esistenza personale in comunione il suo apporto al cuore del mondo ed egli ce ne fa dono in germe, trionfando, con la sua risurrezione, sulle forze della separazione e del nulla. Egli rifiuta ogni contrapposizione fissa tra iniziati ed esclusi, tra buoni e cattivi. Sostituisce, al fondo della storia delle donne e degli uomini, l’angoscia della morte con la gioia della risurrezione, in modo che essi non abbiano più bisogno di nemici per farne dei capri espiatori delle loro paure. L’evangelo di Gesù di Nazareth pone la persona e la comunione tra le persone al di sopra di ogni sistema, di ogni idea, anche del bene.
Gli ideologi invece – e soprattutto forse gli ideologi delle religioni – vogliono imporre il bene con la forza, al limite con la morte. Gesù irradia, con il rispetto e con l’amore, la pienezza della vita. «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Marco 2, 27). Gesù va dritto al cuore, alla persona, svela il volto al di là della maschera, la maschera del partigiano nello «zelota», del collaboratore nel pubblicano, dell’eretico nel samaritano, dell’impurità nella donna adultera o nella samaritana che ha avuto cinque mariti e vive con un uomo che non è suo marito. Nella forza dello spirito, l’uomo intuisce da quel momento in Cristo che gli altri esistono. Si rifiuta di strumentalizzarli, di etichettarli: «Non giudicate e non sarete giudicati» (Luca 6, 37). Nella prospettiva evangelica il vero potere è quello del Dio crocifisso: un potere che vuole l’alterità dell’altro fino a lasciarsi uccidere per offrirgli la risurrezione. Quel potere si identifica con l’assoluto dono di sé; il «Dio incarnato» è colui che dona la propria vita per i suoi amici e prega per i suoi carnefici. Il potere di Cristo, potere della fede e dell’umiltà, si esprime solo come «servizio». Il testo decisivo, su questo punto, è quello di Luca 22, 25-27: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve. Infatti, chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve!»
Come annota Paolo Ricca, la «diaconia» di Gesù non consiste soltanto nel trarre fuori la persona umana dalla propria angoscia, ma consiste anche nel mettersi al posto dell’essere umano in distretta: «Ho avuto fame…», come abbiamo già colto precedentemente.
Mi sembra bello e opportuno, in questo contesto, di inserire un’ulteriore riflessione del grande teologo valdese, sui compiti specifici della «diaconia» cristiana. Secondo Paolo Ricca ci sono tre compiti importanti, che vengono espressi da tre verbi: vedere, dire, fare.

Vedere – Ho detto che il diacono è un servitore per la persona umana. Ora, per servire la persona umana, è necessario innanzitutto vederla. Sembrerebbe facile, ma non è così. Si vede il colore della pelle, questo è facile, ma vedere la persona dietro quel colore è difficile. Si riconosce immediatamente lo straniero che è venuto a vivere in mezzo a noi, ma riconosciamo solo con un grande sforzo la persona che c’è dietro questo straniero. Per vedere l’essere umano al di là della classe, della razza, della nazione, della religione, della cultura, l’occhio fisico non basta. Abbiamo bisogno dell’«occhio della diaconia». Solo l’occhio della diaconia vede la persona umana. Vedere con quell’occhio è questione di apprendimento. La diaconia è l’occhio di Dio nella società.

Dire – La diaconia ha un duplice compito e svolge un duplice ruolo: il ruolo del servitore, ruolo attivo e silenzioso; e il ruolo dell’avvocato, un ruolo del dire a voce alta. Fino a oggi la diaconia ha svolto principalmente, se non esclusivamente, il ruolo del servitore. È ora che si assuma anche il ruolo di avvocato in relazione costante con quello di servitore. La diaconia deve imparare a parlare. Deve prendere la parola come avvocato dei poveri, come voce dei senza-voce, come portavoce di tutti coloro ai quali non è mai stato permesso di parlare. Se Gesù ha dato la parola ai muti, la diaconia fa la stessa cosa nella società attuale. Essere l’avvocato dei poveri non significa che la diaconia parli al posto dei poveri, ma che lascia parlare i poveri. Di fatto, la diaconia non dice nulla, ma i poveri parlano attraverso la diaconia. In questo senso la diaconia è al servizio della democrazia, costituisce uno spazio nel quale i poveri hanno la parola. Non è uno strumento secondario per la democratizzazione della società.

Fare – Il terzo compito della diaconia cristiana è chiaramente il fare. Che cosa deve fare la diaconia cristiana? Questo non può essere stabilito in maniera generale perché varia da chiesa a chiesa, da un paese all’altro, da un luogo all’altro. Nell’Europa di oggi, nel quadro dello «Stato sociale», potremmo dire questo: la diaconia cristiana deve fare tutto ciò che corrisponde a una vera angoscia umana e che non anestetizza la coscienza sociale dello Stato. La diaconia cristiana non deve diventare un alibi per lo Stato, in modo tale che trascuri i suoi impegni sociali e ridiventi uno Stato pre-sociale. È meglio che la diaconia cristiana faccia ciò che non è ancora stato fatto né ancora detto. (in P. Ricca, Grazia senza confini, Claudiana, 2006, pp. 49-50).

4. Una cultura ambivalente: tra negazione e riconoscimento dell’«altro»

Vorrei soffermarmi, ora, per un attimo, senza un approfondimento, che in un altro contesto sarebbe doveroso, a riflettere sul tema della «crisi» della sensibilità, dell’attenzione nei confronti dell’«altro», tipica della nostra epoca e, contemporaneamente, accennare a una cultura che, se pur minoritaria, tenta di presentare con immagini straordinarie, il riemergere di concetti come «ospitalità», «alterità», «giustizia», «volto» ecc. ecc., per farli diventare punti di riferimento per un’etica «nuova», aperta al futuro.

a) La «pars destruens», come la si potrebbe chiamare, riguarda la «crisi culturale», che mette in evidenza l’agonia della «cultura del prossimo», dell’altro, dello straniero, l’ondata xenofoba, la perdita del senso comune di appartenenza alla famiglia umana e la «crisi spirituale» che si manifesta nella difficoltà a immaginare un avvenire, il crepuscolo dei valori «forti» (giustizia, libertà, verità, pace), l’assenza di parole d’ordine collettive in grado di mobilitare e motivare, la perdita dei sogni, l’indifferenza di fronte al fatto della vita. E ad esse vanno aggiunte sia la «crisi sociale», che porta con sé l’incapacità di distribuire con equità la ricchezza del mondo (con la conseguente fragilità dello «spirito democratico») e la «crisi ecologica», messa a tacere fino al giorno in cui sarà troppo tardi.

b) Eppure il nostro tempo si lascia affascinare anche da pensieri e riflessioni che lasciano intravedere piccoli spazi di speranza, una «capacità di futuro» non fasulla o campata in aria, proprio legata alla riscoperta dell’«altro», della «prossimità», del primato della giustizia. Qui è possibile solo un accenno, a partire da due autori che vengono scelti da me come testimoni qualificati di questo «pensiero dialogico», come viene oggi chiamato un ricco comporsi di riflessioni e di persone, attente a diffondere questa «nuova» sensibilità. Essi sono Emmanuel Levinas e Dietrich Bonhöffer, filosofo il primo, teologo il secondo, straordinari interpreti della ricerca dell’«altro».
Riferendosi alla cultura diffusa del nostro tempo Levinas scrive: «A un soggetto rivolto verso se stesso, a un soggetto che si definisce per la cura di sé e che, nella felicità, attua il suo per sé, noi opponiamo il desiderio dell’Altro… di un Altro che sono gli Altri, che non sono né il mio nemico… né il mio complemento…». Per lui si tratta di ripartire dall’«esterno», dalla realtà della sofferenza e dell’ingiustizia, invece che dall’«interno» della superba superiorità dell’Io assoluto e solitario. La scoperta dell’altro come trascendente e inintegrabile nelle mie categorie, nei miei valori e nei miei progetti, la capacità di ascoltarne l’appello, «deve» portare all’assunzione di responsabilità personale di fronte alla situazione estrema, ultima, provocatoria, del «faccia a faccia» dell’altro. Lì la giustizia diventa la prima delle virtù, scavalcando perfino l’amore, perché «la presenza d’altri è la fonte di ogni significato», che la vita possa offrire a ciascuno senza sconto alcuno.
Non da meno è il rigoroso pensiero di Dietrich Bonhöffer a proposito dell’«altro». Egli scrive: «In quest’epoca movimentata corriamo in ogni istante il rischio di perdere di vista la ragione per la quale vale la pena di vivere. Crediamo che l’esistenza di questo uomo o di quest’altro diano un senso alla nostra vita; ma la realtà è un’altra: se la terra è stata giudicata degna di portare l’uomo Gesù Cristo, se è vissuto un uomo come Gesù, allora vale la pena che noi viviamo, noi e gli altri uomini». Per Bonhöffer il discorso sull’etica (sul come «stare al mondo») si trasferisce totalmente sulla persona di Gesù di Nazareth, da lui definito, come si è già ricordato, «l’uomo-per-gli-altri». E questo vale anche per la Chiesa, perché lo stesso Bonhöffer ribadisce che «la chiesa è chiesa soltanto se esiste per gli altri». Il ruolo proprio del mandato-chiesa consiste nel testimoniare che la «realtà, per quanto multiforme, è tuttavia in ultima analisi una, e precisamente nel Dio divenuto uomo, Gesù Cristo». Ciò porta Bonhöffer ad affermare che «non esiste alcuna parte del mondo per quanto perduta ed empia che non sia stata accolta in Gesù Cristo da Dio e non sia con lui riconciliata. Chi guarda con fede il corpo di Gesù Cristo non può più parlare del mondo come se esso fosse perduto, come se fosse separato da Cristo, non può più separarsi, con alterigia clericale, dal mondo. Il mondo appartiene a Cristo e solo in Cristo esso è quello che è».
E poi conclude: «Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano –, e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è la fede, questa è metanoia, e così si diventa uomini, e si diventa cristiani».

5. «I poveri li avete sempre con voi» (Giovanni 12, 8)

Vorrei concludere, rievocando la famosa frase di Gesù, pronunciata nella casa di Simone, durante il banchetto, cui egli stesso era invitato. Il racconto, come si sa, è tutto incentrato sulla figura di Maria, la donna che versa sui piedi di Gesù l’unguento profumato di grande valore, suscitando le rimostranze di Giuda Iscariota, il discepolo che fa notare che «si poteva vendere questo unguento per trecento monete d’argento e poi distribuirle ai poveri» (Gv 12, 5). Perché sciupare tanto denaro, per onorare un corpo? Non è, qui, forse celato un significato non facile da individuare, ma straordinario? Solo quella gratuità inconcepibile poteva essere come la condizione, valida poi per tutte le donne e gli uomini della storia, senza la quale è anche impensabile una rinnovata attenzione ai poveri!
Certo, occorre anche qui tenere presente quello che si diceva sopra: che i nostri non sono tempi favorevoli ai poveri. Da un lato c’è apprezzamento per il servizio al povero, delle forme di aiuto da prestare, delle figure di volontariato e di dedizione, del compito anche dei cristiani in questo campo, ma, dall’altro, c’è una cultura dell’identità che rifiuta il diverso, che lo sente come una minaccia, che lo marginalizza dai circuiti della vita quotidiana; e, soprattutto, c’è una cultura del benessere che non vuole mettere in discussione i criteri e i comportamenti di una società dell’accumulo, della crescita, del progresso, dell’ottimizzazione… E se vuol raccomandare l’attenzione al povero (si pensi solo a chi viene da fuori) deve far risultare che è una «risorsa», che senza di lui non potremo svolgere alcuni lavori… È lo stesso atteggiamento che abbiamo nei confronti della sofferenza e della malattia; trattiamo solo quella di cui riusciamo a venirne a capo, che pensiamo di superare e guarire. Prima di «far del bene» ai poveri, occorre riconoscere che essi sono anzitutto un «appello» a noi, al nostro stile di vita, ai criteri del nostro vivere sociale. Essi sono un invito a credenti e ai cercatori di Dio a cercare quell’unico bene che sazia il desiderio dell’uomo e a condividere gli altri beni, affinché nessuno resti fuori dalla sala del convito. E dunque indicano anche il «compito» di vivere l’esperienza cristiana come uno spazio che sente i poveri, i piccoli, e tutte le altre forme di emarginazione nel grembo della propria casa, al centro della comunità. Stando con i poveri, condividendo la loro esistenza, le loro fatiche e le loro lotte, anche lo stesso vangelo acquisterebbe autenticità e rilevanza.
Una cura dei bisogni intesa in modo solo materiale, senza leggere in essi una domanda più radicale, senza ascoltare l’appello a un bene più grande, di cui a sua volta il credente è solo testimone e non proprietario, non apre né il singolo, né la società alla ricerca di quel bene che solo riempie il cuore dell’uomo. Questo è l’appello che viene dai poveri e che bisogna ascoltare! Esso ci dice che il povero non ha bisogno solo di aiuto, ma di comunione, che egli non è solo un essere di bisogno, ma è una libertà che chiede relazione e prossimità. I poveri sono il libro dove io leggo che anche la mia vita, così piena di cose e di beni, manca dell’unica cosa necessaria che è la capacità di relazione, di condivisione, di amore, di affetto, di dedizione, di vocazione. I poveri sono un frammento dell’evangelo, che rimanda all’evangelo in pienezza; essi ci chiedono di accoglierlo nella sua integrità, di introdurli nella casa della libertà fraterna, nello spazio della comunione, ci chiedono di fare la Chiesa come comunità fraterna.
Un tempo l’elenco dei poveri della comunità era conservato gelosamente sull’altare, accanto all’Eucaristia e ai libri della preghiera: da queste tre realtà nasceva ogni giorno la comunità cristiana. Forse si potrebbe ricostruire quella quotidiana «trinità», per cooperare con tutte le donne e gli uomini, interessati a costruire insieme l’accoglienza e la condivisione, un mondo di giustizia, di libertà, di pace.