Canova, 17 novembre 2006
(don Marcello Farina)
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A) Introduzione: che cos’è la «Dottrina sociale» della Chiesa cattolica?

Un grande teologo tedesco vivente, Johan Baptist Metz (1928), nella sua opera Sulla teologia del mondo afferma che «la fede cristiana non vive accanto o al di sopra della storia; essa non è la fuga riuscita dal mondo, dai suoi rivolgimenti dolorosi, dai suoi slanci e dal suo destino, per rifugiarsi nella tranquillità di un al di là al di fuori della storia. Essa è piuttosto autentica fede storica, fondata su un evento storico unico e irrepetibile: sul sì e sull’amen definitivo di Dio all’uomo nel suo Figlio Gesù Cristo» (cit., pag. 55).
Questa consapevolezza, non sempre esplicita e in qualche momento addirittura oscurata e smi-nuita, può essere considerata l’origine di quell’itinerario di riflessione che va dalla Rerum No-varum del 1891 fino alla Centesimus Annus del 1991 (e fino ai nostri giorni), che costituisce la Dottrina sociale della Chiesa (DSC), una Chiesa non estraniata dalla vita concreta delle donne e degli uomini degli ultimi due secoli, eredi, a loro volta, di due grandi rivoluzioni, quella francese e quella industriale, che avevano cambiato mentalità e modo di vivere soprattutto dei cittadini degli stati europei tra Ottocento e Novecento.
Preparata, per così dire, da una variegata ricerca di molti laici e sacerdoti in tutta Europa a par-tire dagli anni immediatamente successivi al Congresso di Vienna (1815), osservatori attenti e pre-occupati delle conseguenze delle due rivoluzioni sulla vita concreta delle masse operaie e contadine dell’Europa, la DSC è opera di vertice, nel senso che è il papa pro tempore a prendere l’iniziativa di riflettere sulla situazione storica, traducendo poi i suoi pensieri in quei documenti-encicliche che compongono appunto il «corpus» di tale dottrina. Da Leone XIII (1878-1903) a Giovanni Paolo II (1978-2005) sono in effetti i papi a tessere la trama dell’interesse cattolico per quella che già Papa Pecci (Leone XIII) chiamava la «questione sociale», cioè l’attenzione per la situazione sociale, eco-nomica, politica soprattutto degli operai e dei contadini a partire dall’Ottocento, e le proposte che, a partire dall’urgenza della giustizia e della «carità», sarebbero potute nascere all’interno del mondo cristiano durante quel periodo.
È ovvio pensare che nei cento anni e più della DSC ci sia stata un’evoluzione, uno sviluppo nell’insegnamento dei papi, che potremmo descrivere in quattro tappe:
– all’inizio ciò che più è stato sottolineato è stato il fatto che si è varcata la soglia dell’estraneità tra Chiesa e mondo, tra Chiesa e i problemi reali della gente. «Finalmen-te» anche i vertici della Chiesa si prendevano a cuore le sorti delle masse, la miseria e lo sfruttamento di tante persone… (Leone XIII);
– c’è stato poi il momento (con Pio XI) in cui si è proposta l’organizzazione cristiana della società, come se la salvezza (anche materiale) potesse venire “solo” dalla Chiesa;
– il Concilio Vaticano II, a sua volta, ha saputo sollecitare un atteggiamento dialogico con il mondo moderno, sottolineando (con Paolo VI) la positività degli sforzi comuni di credenti e “laici” per il progresso dei popoli;
– infine, si è evidenziato nell’ultimo trentennio l’urgenza di un messaggio etico-religioso come stimolo per una vita umana degna di essere vissuta dai singoli e dalle comunità (Giovanni Paolo II). Oggi, in effetti, la DSC viene proposta come parte della teologia morale, cioè come riflessione che, a partire dal Vangelo, possa diventare sollecitazione a vivere nella giustizia e nella solidarietà, così da costruire la pace.

B) Il lento risveglio dei cattolici di fronte al problema sociale

Vale la pena, innanzitutto, renderci conto di come il «mondo cattolico» (e cristiano in genere) abbia colto i mutamenti sociali, economici e politici, prima della «Rerum Novarum» del 1891. Quale fu il loro atteggiamento nei confronti delle «res novae» («cose nuove») del secolo XIX?
Mentre i liberali si dimostravano difensori solleciti della «status quo» e i socialisti (comunisti) si organizzavano in vista di un completo rovesciamento delle strutture esistenti, i cattolici, tranne ecce-zioni più numerose di quanto si creda, solo con un certo ritardo presero coscienza della questione sociale e fra essi diedero vita a due tendenze, che persistettero l’una accanto all’altra per oltre un se-colo:
– la prima esortava alla pazienza, alla rassegnazione, all’accettazione della povertà, al riconoscimento del suo valore religioso, accompagnati da un’azione limitata strettamente al campo caritativo, che escludeva cioè ogni riconoscimento di un diritto a parte dell’operaio e rifiutava come sovversivo dell’ordine costituito ogni tentativo di modificare le strutture borghesi-capitalistiche-liberali della società e dello Stato;
– la seconda si presentava come un tentativo di dare inizio a un’azione propriamente sociale, dapprima su un piano ancora fortemente impregnato di paternalismo, con il riconoscimento dei diritti dell’operaio, con l’accettazione della difesa collettiva di quei diritti.
Scrive in proposito Giacomo Martina, un insigne storico della Chiesa: «Per buona parte dell’Ottocento, molti cattolici riuscirono sì a rendersi conto delle effettive condizioni di vita delle diverse classi socia-li, ma davanti alla miseria cronica e dura delle masse operaie, condivisero per lo più i sentimenti della borghesia e degli economisti più quotati, sull’ineluttabilità delle leggi economiche, sulla fatalità della miseria che accompagna l’umanità in tutta la sua storia (non aveva detto Gesù: “i poveri, li avrete sempre in mezzo a voi”?). Quanti sostene-vano la possibilità di trasformare le strutture esistenti apparivano non dei precursori, spesso ingenui e semplicisti, eppure con intuizioni che si sarebbero chiarite e avrebbero mostrato la loro profonda validità, ma semplicemente de-gli utopisti privi di ogni senso della realtà. Diversi fattori confermavano questo stato d’animo: la mentalità fonda-mentalmente aristocratica e conservatrice di molti cattolici appartenenti alla nobiltà o alla borghesia intellettuale; il timore di limitare la libertà economica e di imporre un ritorno all’economia chiusa dell’ancien régime; la diffidenza verso la diffusione della cultura, che, se mal digerita e superficiale, provoca facilmente squilibri psicologici; l’assuefazione ad una società organizzata gerarchicamente, in cui le classi umili attendono dal ceto dirigente la soddisfazione delle loro esigenze. Non meno viva era, in quasi tutti gli ambienti cattolici, una profonda sfiducia nello Stato, sia per l’accettazione esplicita da parte dei cattolici liberali delle tesi che limitavano fortemente i compiti dello Stato, sia, all’opposto, negli intransigenti, per la diffidenza verso la classe politica al potere, quasi sempre lontana da un vero senso religioso» (in La Chiesa nell’età del totalitarismo, Morcelliana, 1979).
Se poi si guardasse alla situazione italiana non si può non ricordare che a complicare il rapporto tra cattolici e società e stato c’era, vivissima e intrigante la«questione romana», cioè il ruolo dello Stato pontificio e la sua sorte di fronte al processo dell’unità nazionale.
Non vanno taciute nemmeno, da un lato, la preoccupazione di non mescolare la Chiesa in que-stioni temporali, dove le soluzioni assumevano molte volte un carattere tecnico (pratico), che appa-riva estraneo all’alta competenza morale del magistero ecclesiastico, e, dall’altro, l’importanza che nel messaggio cristiano aveva la croce, l’accettazione delle sofferenze, l’attesa di una giustizia ultra-terrena.
La linea conservatrice si preoccupava in particolare di tre cose:
– di difendere il diritto di proprietà ad oltranza;
– di condannare in blocco e senza esame accurato delle opere e degli autori le tesi del sociali-smo e del comunismo;
– di esortare i poveri alla pazienza e alla rassegnazione.
Ad esempio, la condanna del socialismo e del comunismo compare già nel 1864 nell’enciclica Quanta cura di Pio IX, che pure criticava, ma in forma molto più blanda l’amoralismo economico (l’economia senza scrupoli) e la negazione dei principi del diritto naturale (lo scarso interesse per la vita, la libertà e la dignità delle persone). Lo stesso Leone XIII nelle sue prime encicliche, Quod Apostolici Muneris del 1878 e Auspicato concessum del 1884, scrive: «La questione dei rapporti tra ricchi e poveri che preoccupa tutti gli economisti sarà perfettamente regolata se sarà ben fermo e accettato per vero che la povertà non manca di dignità; che il ricco deve essere misericordioso e generoso e il povero contento della propria sorte e del proprio lavoro; dato che né l’uno né l’altro è nato per questi beni perituri, il primo deve guadagnarsi il cielo con la pazienza, l’altro con la liberalità» (G. Martina, op. cit., pag. 31). Qualche anno prima, nel 1848, il francese Veuillot aveva scritto: «È necessario che ci siano degli uomini che lavorano molto e vivono miseramente. La miseria è una legge di una parte della società. È la legge di Dio cui bisogna sottomettersi».

Per tutto il secolo molti cattolici che lavoravano all’emancipazione delle classi più povere erano accusati di sedizione, di odio di classe e di ribellione alla gerarchia.

La linea sociale, dal canto suo, passa da un primo momento, in cui al di là di riflessioni ancora insufficienti (il problema operaio è un problema morale), si dà attuazione a un piano caritativo-assistenziale, a un secondo, in cui si affrontano con più serietà i temi di fondo della situazione delle classi sottomesse e si ipotizzano vie d’uscita, certo ancora segnate da una patina di paternalismo ricorrente.

Senza l’obbligo della completezza vale qui la pena di accennare alle Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli, fondate a Parigi nel 1833 da Federico Ozanam; all’opera, in Germania, di Adolf Kolping per gli apprendisti (Gesellenverein) e soprattutto di Emmanuel von Ketteler, vescovo di Magonza, che seppe cogliere con lucidità i segni e le esigenze dei tempi, arrivando a riconoscere tutti i postulati degli operai (riduzione dell’orario di lavoro, aumento del salario, protezione del lavoro giovanile e femminile) e a ipotizzare la costruzione di cooperative di produzione, autogestite dalle stesse comunità cristiane. In Inghilterra fu lo stesso cardinal Manning a difendere gli operai irlandesi e a mediare lo sciopero degli scaricatori di porto; in America l’arcivescovo di Baltimora, il card. Gibbons, difese validamente i Cavalieri del Lavoro, mostrando la possibilità di un sindacalismo operaio cristiano. Importante fu anche l’opera della cosiddetta Unione di Friburgo, fondata verso il 1884 da mons. Mermillod, che nelle sue riunioni univa insieme in un salutare confronto studiosi francesi, italiani, tedeschi, austriaci, belgi.

In Italia nella vasta fioritura di opere caritativo-assistenziali, diffuse soprattutto in Piemonte, Lombardia, Veneto, ricordiamo almeno le eroiche iniziative del Cottolengo; l’opera di don Giovanni Bosco e del Murialdo per i giovani. Poi, soprattutto dopo il 1874, la appena nata Opera dei Con-gressi seppe creare una rete impressionante di strutture per l’assistenza e la carità, sostenuta anche dalla sapiente azione di riflessione teorica di Giuseppe Toniolo, promotore, all’interno dell’Opera, dell’Unione cattolica degli studi sociali. La creazione di cooperative e di casse rurali, oltre che di patronati di categoria, per la difesa dei diritti dei lavoratori è stata straordinaria.

C) Leone XIII (1878-1903) e la «Rerum Novarum»

I fermenti, le aspettative, i sogni di tanti cattolici, pensati e realizzati nel corso dell’Ottocento parvero arrivare a compimento con l’enciclica di Leone XIII del 1891, cioè con la Rerum Nova-rum.
Vale la pena qui di ricordare le parole che George Bernanos mette sulla bocca del vecchio parroco di Torcy, rivolte al suo giovane collega di Ambricourt nel suo famoso romanzo, il Diario di un curato di campagna: «Per esempio, la famosa enciclica di Leone XIII, la Rerum Novarum, voi la leggete tranquillamente, sull’orlo delle ciglia, come una qualunque pastorale di Quaresima. Alla sua epoca, piccolo mio, ci è parso di sentirci tremare la terra sotto i piedi. Quale entusiasmo! Ero, in quel momento, curato di Norenfontes, in pieno paese di miniere. Questa idea così semplice che il lavoro non è una merce, sottoposto alla legge dell’offerta e della domanda, che non si può speculare sulla vita degli uomini come sul grano, lo zucchero o il caffè, metteva sottosopra le coscienze, lo credi? Per averla spiegata dal pulpito alla mia buona gente, son passato per un socialista e i contadini benpensanti m’hanno fatto mandare a Montreuil, in disgrazia. D’essere in disgrazia me ne infischiavo un bel po’, renditene conto. Ma sul momento…» (G. Bernanos, op. cit., Mi, pag. 66).

Leone XIII, prima di essere eletto papa aveva fatto esperienza all’estero, avendo così l’occasione di rendersi conto direttamente dei problemi posti dallo sviluppo industriale (nunziatura in Belgio, 1843-46, allora in piena crisi sociale e un rapido passaggio a Londra) e anche durante il suo lunghissimo episcopato a Perugia (dal 1846 al 1878) aveva mantenuto larghi contatti con intellettuali di vari paesi e nelle sue lettere pastorali, soprattutto negli ultimi anni, aveva affrontato i grandi problemi del momento, con un’arte dell’ascolto molto sviluppata, raccogliendo le sollecitazioni dei suoi visitatori e lasciandole maturare a lungo, prima di sfruttarle per i propri documenti.

Fatto papa, Gioacchino Pecci dovette subito affrontare i grandi problemi politici in cui era implicata la Chiesa: la questione romana, il Kulturkampf tedesco, la situazione francese di pesante anticlericalismo. Ma, nello stesso tempo, egli raccolse le indicazioni di autori e di eventi del mondo cattolico, che ormai urgevano perché anche la Chiesa prendesse posizione sulla «questione sociale». È in questo contesto che nasce appunto la sua più famosa enciclica, la Rerum Novarum, del 15 maggio 1891.

«La Rerum Novarum era costruita intorno ad alcuni capisaldi dottrinali: 1) rinnovata condanna delle soluzioni socialiste e collettivistiche; 2) difesa e salvaguardia della proprietà privata, in nome del diritto naturale, ma indicazione degli obblighi morali connessi con la proprietà stessa; 3) denuncia degli aspetti inaccettabili per la coscienza cristiana presenti nel sistema economico-sociale vigente, come la determinazione dei salari secondo la legge della domanda e dell’offerta; 4) indicazione dei compiti dello Stato, sia nel senso della salvaguardia dei diritti di “chiunque ne abbia”, sia nel senso di una speciale tutela per le classi più deboli; 5) esortazione ai cattolici di prose-guire e incrementare l’attività organizzativa, mediante associazioni “sia di soli operai, sia miste di operai e padro-ni”.

L’affermazione dell’enciclica che il lavoro dell’uomo non può essere considerato una merce e l’incoraggiamento da essa fornito all’associazionismo popolare cattolico costituirono un fattore di impulso nell’azione sociale dei cattolici di vari paesi. Le tendenze più conservatrici del mondo cattolico si trovarono spiazza-te dall’insegnamento papale. Inoltre era posto per la prima volta all’attenzione della Chiesa universale il problema di come ridar vigore, nella società capitalistica, ai valori e ai princìpi morali e religiosi, di cui la Chiesa si procla-mava depositaria: di come, cioè, rendere attivi quei princìpi in una realtà che sembrava, per molti motivi, estraniarsene.

Ne conseguì un rinnovamento di metodi e di obiettivi: la tradizionale azione caritativa incominciò a trasfor-marsi in un più incisivo impegno sociale. Tale impegno fece breccia solo parzialmente tra le masse operaie urbane, in maggioranza attratte dal socialismo, ma ottenne significativi risultati tra i contadini, gli artigiani, i piccoli produttori, il popolo minuto. Lo stesso sindacalismo cattolico, allora nascente, ne risultò incoraggiato e incrementato.

D’altro canto non era possibile cercare di riaffermare una presenza cristiana tra le masse popolari senza che le aspirazioni di riscatto che le animava non si riflettessero sulla Chiesa stessa, come la grande sfida dell’epoca» (in F. Traniello, Corso di storia, vol. 3°, SEI, pag. 253).

L’impegno sociale comportava una maggior valorizzazione del laicato, più a contatto con il “mondo” del lavoro, dell’economica, della cultura. Si può dire che, finalmente, molti cattolici si sentirono appoggiati ad aprire un nuovo varco alla loro libertà di iniziativa.

Certo nell’enciclica leonina si ribadiscono aspetti “vecchi” e ingombranti, difficili da giustificare oggi, come:
– la difesa ad oltranza della proprietà privata, come diritto individuale inalienabile (per natu-ra),
– le divisioni sociali (tra capi e sudditi, ricchi e poveri) come legge inviolabile di natura;
– la giustificazione dello stato “organico”, corporativo, premoderno.

Accanto, però, vanno sottolineati gli aspetti innovativi, soprattutto riferibili a:
– la sottolineatura dei doveri dei padroni nei confronti degli operai;
– il ruolo dello Stato come arbitro dei conflitti sociali.

La parte più bella dell’enciclica è, infatti, quella che giustamente è commemorata di continuo e riguarda i doveri morali più evidenti che debbono regolare i rapporti «tra ricchi e proletari», sia secondo giustizia, sia secondo carità.
D) Alla primavera seguì, però, l’inverno

Si diceva sopra, citando Bernanos, che l’entusiasmo scatenato dalla “Rerum Novarum” fu enorme in tutto il mondo, cattolico e non, e certamente pose le basi per un diverso atteggiamento dei catto-lici nei confronti della «questione sociale», anche se non mancarono anche in questa occasione colo-ro, da una parte, che interpretarono in senso restrittivo, moralistico e paternalistico, l’enciclica, e coloro che, all’opposto, ne colsero l’invito a fare un passo successivo, cioè a coniugare insieme il sociale con il politico, cioè a costruire una autentica «democrazia cristiana», cioè una società e uno Stato che potessero attingere dal Vangelo l’ispirazione per il rinnovamento delle strutture sociali e politiche in Europa.

Lo stesso Leone XIII, prima di morire, vecchissimo, nel 1903, era dovuto intervenire, con l’enciclica Graves de communi re del 1901, per chiarire autorevolmente quale fosse il significato au-tentico di «democrazia cristiana», affermando che la «democrazia cristiana» non doveva «coprire un fine politico di portare al potere il popolo»; che non si poteva in alcun modo mettere in discussione «l’integrità del diritto di acquisto e di possesso»; che la «democrazia cristiana» «non doveva in-tendersi che nel senso di una benefica azione cristiana a favore del popolo»; che l’obbedienza alla autorità era fuori discussione; che era necessario mantenere «tra i cattolici unità di intenti e concordia e volontà d’azione»; e che per mantenere tale unità, il movimento sociale e politico dei cattolici doveva essere ubbidiente alla autorità dei vescovi e al magistero ecclesiastico.

Il monito, di per sé, era riferito a tutti i cattolici europei, ma esso teneva d’occhio in particola-re il movimento di don Romolo Murri, la «democrazia cristiana» appunto, nata nel 1899, dall’entusiasmo di quel prete marchigiano con l’appoggio di molti confratelli e laici convinti. La lotta s’accese asprissima tra le diverse sensibilità del mondo cattolico italiano, stretto tra il conservatorismo gretto del gruppo dirigente dell’Opera dei Congressi (del Paganuzzi che la guidava), le aperture liberali moderate del milanese Filippo Meda e, appunto, quelle, combattive e alternative della «democrazia cristiana» di Romolo Murri, propensa anche al dialogo con i socialisti.

È Pio X (1903-1914) l’uomo che, prendendo posizione netta contro ogni apertura al nuovo, avrebbe da subito ricondotto il pensiero e l’azione dei cattolici, soprattutto italiani, nell’alveo della conservazione e dell’ubbidienza assoluta alla gerarchia. L’inverno era alle porte. Appena papa, Giu-seppe Sarto, nel Motu proprio «Fin dalla prima nostra enciclica» del 18 dicembre 1903, elenca 19 proposizioni, le quali rappresentano l’interpretazione autentica della dottrina sociale cattolica, così da sbaragliare ogni equivoco e sbugiardare tutti coloro che, con pervicace temerità, abbiano osato addurre la condiscendenza di Leone XIII per giustificare iniziative progressiste.

Ecco il «compendio» proposto da Pio X:

1. La Società umana, quale Dio l’ha stabilita, è composta di elementi ineguali, come ineguali sono i membri del corpo umano: renderli tutti eguali è impossibile, e ne verrebbe la distruzione della medesima Società.

2. La eguaglianza dei vari membri sociali è solo in ciò che tutti gli uomini traggono origine da Dio Creatore; sono stati redenti da Gesù Cristo, e devono alla norma esatta dei loro meriti e demeriti essere da Dio giudicati, e premiati o puniti.

3. Di qui viene che, nella umana Società, è secondo la ordinazione di Dio che vi siano princi-pi e sudditi, padroni e proletari, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, nobili e plebei, i quali, uniti tutti in vincolo d’amore, si aiutino a vicenda a conseguire il loro ultimo fine in Cielo; e qui, sulla terra, il loro benessere materiale e morale.

4. L’uomo ha sui beni della terra non solo il semplice uso, come i bruti; ma sì ancora il diritto di proprietà stabile; né soltanto di proprietà di quelle cose, che si consumano usandole: ma eziandio di quelle cui l’uso non consuma.

5. È diritto ineccepibile di natura la proprietà privata, frutto di lavoro o d’industria, ovvero di altrui cessione o donazione; e ciascuno può ragionevolmente disporne come a lui pare.
6. Per comporre il dissidio fra i ricchi ed i proletari fa mestieri distinguere la giustizia dalla carità. Non si ha diritto a rivendicazione, se non quando sia lesa la giustizia.

7. Obblighi di giustizia, quanto al proletario ed all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamenti.

8. Obblighi di giustizia, quanto ai capitalisti ed ai padroni, sono questi: rendere la giusta mer-cede agli operai; non danneggiare i loro giusti risparmi né con violenze, né con frodi, né con usure manifeste o palliate; dar loro libertà per compiere i doveri religiosi, non esporli a seduzioni cor-rompitrici ed a pericoli di scandali; non alienarli dallo spirito di famiglia e dall’amor del risparmio; non imporre loro lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti coll’età e col sesso.

9. Obbligo di carità de’ ricchi e de’ possidenti è quello di sovvenire ai poveri ed agl’indigenti, secondo il precetto Evangelico. Il qual precetto obbliga sì gravemente, che nel dì del giudizio, dell’adempimento di questo in modo speciale si chiederà conto, secondo disse Cristo me-desimo (Matth. XXV).

10. I poveri non devono arrossire della loro indigenza né sdegnare la carità de’ ricchi, sopra tutto avendo in vista Gesù Redentore, che, potendo nascere fra le ricchezze, si fece povero per nobi-litare la indigenza ed arricchirla di meriti incomparabili pel Cielo.

11. Allo scioglimento della questione operaia possono contribuir molto i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni, ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi, ed avvicinare ed unire le due classi fra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private; i pa-tronati per i fanciulli, e sopra tutto le corporazioni di arti e mestieri.

A questi 11 punti più importanti si aggiungono poi gli altri 8, che attengono proprio all’ala so-ciale dei cattolici, cioè alla «democrazia cristiana», invitata a «non immischiarsi mai con la politica…; a dipendere dall’autorità ecclesiastica…; a guardarsi dall’adoperare un linguaggio che possa ispirare nel popolo avversione alle classi superiori della società e non parli di rivendicazioni e di giustizia, allorché trattasi di mera carità, come dianzi già spiegato».

Pio X riteneva che fosse suo inderogabile dovere di custode del depositum fidei usare qualsiasi strumento concessogli per allontanare il calice tormentoso della prova e risparmiarle sofferenze e sconfitte. «La dottrina del divin Redentore è, per Pio X, dottrina di umiltà, di sottomissione, di filiale rispetto alla gerarchia» (in Il fermo proposito, dell’11 giugno 1905).

Ma è nell’enciclica Pascendi Dominici gregis del 3 luglio 1907 che papa Sarto manifesta ai vescovi il suo pensiero più autentico: «Osservate qui di passaggio, o venerabili fratelli, lo spuntar fuori di quella dottrina rovinosissima che introduce il laicato nella Chiesa come fattore di progresso…». La DSC è solo nelle mani della gerarchia, arbitra e padrona assoluta della dottrina e della prassi per il mondo cattolico. L’insabbiamento delle aperture della Rerum Novarum non poteva essere più totale, realizzato da Pio X con l’abolizione dell’Opera dei Congressi nel 1904 e con il parallelo sostegno a Filippo Meda perché desse l’avvio alle intese clerico-moderate con Giovanni Giolitti, in funzione chiaramente antisocialista. Il suo disegno grandioso di «instaurare omnia in Christo» doveva realizzarsi in una società totalmente cristiana, come al tempo di un immaginario medioevo, capace di difendersi dagli assalti dell’odio e del disprezzo da parte del mondo nella certezza che «le porte dell’inferno non prevarranno».