4° incontro
Canova, 18 aprile 2008
don Marcello Farina
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1) L’«eredità» del secondo secolo dopo Cristo

Il secondo secolo di vita della comunità cristiana si chiudeva in un’atmosfera ancora altamente conflittuale, sia dal punto di vista “politico” che “dottrinale”. La persecuzione di Marco Aurelio (dal 165 al 180 d.C.), l’imperatore saggio e filosofo, portò con sé la morte a Roma di Giustino e dei suoi compagni, il martirio di Policarpo di Smirne, e di altri vescovi dell’Asia, il massacro dei martiri di Lione e la condanna di quelli di Scilli, presso Cartagine. La reazione dei cristiani a questa persecuzione fu duplice: si intensificarono, di nuovo, gli scritti apologetici, per convincere le autorità dell’assoluta lealtà dei cristiani nei confronti del potere imperiale (l’Apologia di Melitone di Sardi, la Supplica di Atenagora di Atene e la anonima Lettera a Diogneto, già citata) e, insieme, emersero nuove forme di spiritualità, che in un modo o nell’altro appaiono segnate dal difficile momento che attraversano i rapporti dei cristiani con il mondo e con l’impero. Sono, in particolare, gli Atti dei martiri a spiegare la spiritualità del martirio, vissuto come evento di salvezza, un dono di grazia, una liturgia sacra.
Nascono movimenti nuovi, come quello degli “encratiti”, che predica la “riserva escatologica” nei confronti di questo mondo, arrivando a coltivare uno stile di vita di fuga dal mondo e di disprezzo per il corpo (encratiti = “continenti”), o come quello dei “montanisti” – da Montano, il profeta frigio che insieme a due donne, Priscilla e Massimilla, presenta una “nuova profezia” della fine imminente del mondo e invita i suoi seguaci a riunirsi in un luogo particolare (la valle di Pepuza) nell’attesa di questa fine. Ma al di là dell’elemento escatologico, il montanismo si presentava come una protesta spirituale nei confronti di una Chiesa che veniva progressivamente istituzionalizzandosi e sembrava troppo incline ad assumere atteggiamenti di “compromesso” con il mondo.
Dal punto di vista più strettamente dottrinale lo scontro con i cristiani è tenuto vivo da un intellettuale pagano, Celso, di cui non si conosce pressoché nulla, ma che ha dedicato un intero libro alla polemica contro i cristiani: la Vera dottrina (Alethès logos). Il suo approccio è davvero sconcertante: «giudei e cristiani sono paragonabili a un grappolo di pipistrelli, o a formiche uscite dalla tana o a rane… o a vermi riuniti in assemblea in un angolo fangoso…». L’incarnazione, la figura di Cristo (un povero ignorante, «nato in un villaggio della Giudea da una donna del posto, una povera filatrice a giornata… scacciata dal marito, di professione carpentiere, con comprovato adulterio…), i discepoli, ancora peggiori di lui (uomini screditati, pubblicani e marinai dei più miserabili) stanno a testimoniare la negatività del Cristianesimo, i cui seguaci appaiono come un gruppo di sudditi senza alcuna dignità culturale e che si sottraggono ai loro doveri civici, mettendosi contro l’impero.

2) Ireneo di Lione

Tra la fine del secondo secolo e gli inizi del terzo, si assiste a uno sforzo poderoso da parte della Chiesa di darsi un assetto dottrinale e organizzativo più definito contro tutte le forze centrifughe e disgregatrici della sua unità. Ne fa fede la discussione sulla Pasqua cristiana, che sostituisce completamente la pasqua giudaica; la lotta contro i montanisti, che fa comprendere la necessità di riunire assemblee, sinodi di Chiese vicine, per discutere apertamente (un momento di grande importanza per i successivi sviluppi “conciliari” della organizzazione ecclesiastica); e lo scontro con gli gnostici, con la creazione di un pensiero che portasse con sé la “cattolicizzazione” della Chiesa.
L’uomo decisivo, in questi ultimi decenni del secondo secolo, è Ireneo di Lione con la sua opera in cinque libri Adversus haereses. Asiatico, di Smirne, egli arriva in Gallia dopo il 167 d.C. e assiste al massacro dei martiri di Lione. È Ireneo che ingag-gia una battaglia senza quartiere contro gli gnostici, elaborando nel contempo quegli elementi teologici di carattere “istituzionale” (tradizione ecclesiastica, canone neote-stamentario, poteri episcopali, primato romano) che costituiranno la base più solida della Chiesa cattolica.
La teologia di Ireneo costituisce già per tutto questo il primo grande tentativo di sistemazione organica del pensiero cristiano. Per lui sono soprattutto i vescovi che custodiscono e garantiscono il deposito della dottrina, perché sono i vescovi che con la successione apostolica ne hanno ereditato il dono, il carisma, della verità. Ed è la prassi romana che da tutti i fedeli va comunque seguita, perché la Chiesa di Roma possiede un’antichità che rispetto alle altre è resa particolarmente eminente dalla sua provenienza da Pietro e Paolo (Ireneo offre qui indiscutibilmente la prima vera base teologica per le pretese di Roma a una giurisdizione sulle altre Chiese!).
L’organizzazione ecclesiastica, e più in particolare la gerarchia ecclesiastica, conosce in effetti in questo periodo uno sviluppo decisivo:
– nelle Chiese si impone ormai definitivamente l’episcopato monarchico;
– i rapporti tra vescovi diventano sempre più frequenti e intensi;
– si afferma l’esigenza di riunioni periodiche tra vescovi (e Chiese) vicini;
– il vescovo di Roma comincia ad esercitare nei fatti la sua autorità (per la sua potentior principalitas).
Il primo fatto che ce lo testimonia è proprio la data della Pasqua, che papa Vittore, nel 190, stabilisce per tutti alla prima domenica dopo il 14 di Nisan (la pasqua ebraica), eliminando la pratica dei cosiddetti “quartodecimani”.
L’iniziativa di Ireneo porta con sé, inoltre, altre grandi conseguenze, sia dottrinali che disciplinari, che possono essere riassunte in questo modo:
– Si consuma alla fine del secondo secolo la rottura definitiva col giudai-smo, con uno strascico in cui è possibile individuare le radici teologiche dell’anti-semitismo (sono interessanti le pagine del citato testo di G. Iossa, Il cristianesimo antico, pp. 137-143).
– La Traditio apostolica, attribuita ad Ippolito di Roma, all’inizio del terzo secolo, si dedica a rafforzare le strutture cultuali e organizzative della comunità cristiana: il catecumenato (con l’attenzione alle qualità morali del candidato al battesimo, alla sua formazione dottrinale, che deve durare un triennio; si migliora la liturgia del battesimo, accogliendo sia bambini che adulti); la celebrazione eucaristica (di cui si accentua l’aspetto sacrificale, così che il prete diventa “sacerdote” e si predispongono formulari eucaristici non ancora rigidi!).
– Cominciano a farsi importanti i dibattiti di argomento cristologico e trinitario (si sente cioè la necessità di definire con maggior precisione la natura di Cristo e il suo rapporto con Dio), con la diffusione di teorie “monarchiane” che professavano o “l’adozionismo” (Gesù viene adottato come figlio di Dio con il suo battesimo) o il “modalismo” (Dio Padre e il Figlio sono solo “modi”, forme della divinità). È questo anche il tempo di grandi figure di teologi, sia in Occidente – Ippolito romano e Tertulliano –, sia in Oriente – Clemente Alessandrino e Origene (anche per costoro si può vedere G. Iossa, op. cit., pp. 153-167).

3) La vita dei cristiani nella prima metà del terzo secolo

Non abbiamo, in verità, molte fonti. Però possiamo coglierne alcuni aspetti significativi. I cristiani non vivono né in ghetti, né in catacombe, eppure nella loro esistenza c’è qualcosa di “separato”. Partecipano alla vita delle città in cui abitano; eppure appaiono ancora per molti aspetti come “stranieri”. Ma in che cosa consiste questo carattere straordinario dell’esistenza cristiana?
Possiamo cominciare dalla vita familiare e sessuale. Agli inizi del terzo secolo non c’è ancora una forma cristiana del matrimonio, i cristiani seguono i riti e le formule di quella romana, nella quale hanno eliminato gli eventuali riferimenti idolatrici. La celebrazione del matrimonio riceve tuttavia una sanzione religiosa particolare davanti alla comunità, con la benedizione del vescovo e le preghiere dei fedeli. Ma la “novità” è nel modo di concepire la vita familiare e sessuale. L’elemento caratterizzante è l’unità indissolubile di sessualità, procreazione e matrimonio. I rapporti sessuali sono finalizzati esclusivamente alla riproduzione e sono leciti solo all’interno del matri-monio.
Il valore autonomo della sessualità non è quindi riconosciuto e anche l’aspetto affettivo dell’unione non viene particolarmente sottolineato. Matrimonio e famiglia hanno un carattere fortemente istituzionalizzato.
«Nel suo scritto Ad uxorem Tertulliano ha parole molto belle sulla comunione di vita dei due coniugi, ma l’accento è posto decisamente sul comune assolvimento dei doveri religiosi:
“Come potrò mai descrivere la felicità di quel matrimonio che la Chiesa ratifica, l’ostia eucaristica rafforza, la benedizione sigilla, gli angeli annunciano in cielo, il Padre approva? Anche sulla terra infatti i figli non si sposano senza il consenso paterno. Quale giogo è mai quello di due fedeli uniti in un’unica speranza, in un solo desiderio, in un unico rispetto, in un’unica servitù! Sono fratelli e collaboratori allo stesso tempo, nessuna differenza tra carne e spirito, ma veramente sono due in una sola carne. Dove la carne è una sola, uno solo è anche lo spirito: pregano insieme, insieme si inginocchiano, insieme digiunano, si ammaestrano l’un l’altro, si esortano l’un l’altro, l’un l’altro si confortano. Uguali nella Chiesa di Dio, uguali nel convito di Dio, uguali nelle persecuzioni, uguali nelle consolazioni. Nessuno ha segreti per l’altro, nessuno evita l’altro, nessuno reca fastidio all’altro. Visitano liberamente i malati, danno sostentamento ai poveri. Le elemosine non procurano conflitti, le sacre funzioni non comportano scrupoli, le incombenze quotidiane non conoscono impedimenti; la croce non la si fa di nascosto, il saluto non causa trepidazione, la benedizione non la si deve fare in silenzio. Tra di loro risuonano salmi ed inni, fanno a gara a chi celebra meglio il Signore” (ad. ux. 8, 6-8; trad. Magazzù)» (G. Iossa, op. cit., p. 170).
Questa è anche la ragione della profonda diffidenza verso il matrimonio con un pagano, perché esso mette in pericolo la stessa fede personale.
Il matrimonio è dunque un’istituzione naturale cui la fede comunica una dignità particolare.
Ma accanto e sopra il matrimonio i cristiani hanno posto la verginità; ed è questo che ha colpito particolarmente i pagani, abituati a una considerazione del tutto diversa della vita sessuale. Essa appare come “continenza per il regno dei cieli” in un mondo che rivela la provvisorietà di tutte le istituzioni umane, tra cui lo stesso matrimonio, considerato spesso come conseguenza del peccato originale, inteso a sua volta come peccato sessuale!
Nelle relazioni familiari, poi, che comprendono non soltanto i rapporti tra marito e moglie, genitori e figli, ma anche quelli tra padroni e servi, i cristiani hanno condiviso interamente la concezione patriarcale della società antica, che abbiamo già visto accettata da loro anche nei rapporti con le autorità politiche. Non hanno contestato né l’autorità del marito sulla moglie, né quella del padrone sullo schiavo. L’invito più costante è alla “sottomissione”. Le mogli devono essere sottomesse ai mariti, gli schiavi ai padroni. E questo modello è rimasto sostanzialmente inalterato nei secoli successivi. La condizione della donna del tempo è stata fatta propria dai cristiani e la schiavitù non è stata messa in discussione. Certo, da un altro lato questi rapporti, anche se ribaditi, vengono, per così dire, “trasformati” e non soltanto per l’affermazione decisa dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio (Galati 3, 28: “Non c’è più giudeo, né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è uomo né donna”), ma anche perché appaiono fondati non tanto nella Legge, ma “in Cristo” (Colossesi 3, 18: “Donne, siate sottomesse ai vostri mariti… nel Signore”; Efesini 6, 5: “Schiavi, obbedite ai vostri padroni… come al Signore”).
«Le donne non sono ammesse al sacerdozio e dopo i primi tempi anche l’attività profetica, di ammaestramento, è riservata sempre più esclusivamente agli uomini, salvo il diverso orientamento dei primi montanisti; ma prestano servizio come “diaconesse”. Ed esistono “ordini” di vedove e di vergini che svolgono compiti di carattere religioso. In una Chiesa che nei primi due secoli della sua vita si recluta ancora largamente dagli strati più bassi della società, gli schiavi hanno avuto d’altra parte un ruolo assai notevole, non soltanto testimoniando in maniera esemplare la loro fede, fino al martirio (Blandina negli Atti dei martiri di Lione, Felicita nella Passio Perpetuae), ma anche assumendo le funzioni più elevate nella comunità, sino all’episcopato. Uno schiavo era Callisto, giunto, a detta di Ippolito, all’episcopato dopo una vita estremamente avventurosa. La comunità cristiana non mette dunque in discussione le istituzioni della società civile ma le svuota dall’interno, vivendole nel suo seno in maniera nuova. È un modello alternativo concreto di comunità, anche se i princìpi su cui si basa la società civile non vengono in alcun modo contestati» (G. Iossa, op. cit., p. 172).
Gli scrittori cristiani e pagani concordano ancora nel mettere in risalto la moralità particolare dei singoli credenti e i loro legami profondi che sussistono all’interno della comunità. Professioni immorali come quelle dei lenoni, delle prostitute, degli attori, degli esattori, degli aurighi, dei gladiatori, degli astrologi e dei maghi sono ritenute incompatibili con la fede cristiana. Più problematica è la posizione degli insegnanti e dei militari, che hanno obblighi nei confronti dell’istituzione pubblica; la loro professione viene sconsigliata.
«Il quadro però non è sempre così roseo. Abbiamo già visto sopra che dalla fine del secondo secolo la Chiesa di Roma sembra essere entrata in un vistoso processo di secolarizzazione. Ippolito avrà certamente esagerato accusando Callisto di favorire l’adulterio e l’aborto. Ma, riammettendo gli adulteri pentiti nella Chiesa, consentendo ai preti di sposarsi dopo la consacrazione e riconoscendo valide le unioni delle donne senatorie con i liberti, il vescovo di Roma prendeva atto evidentemente di una situazione morale della comunità nella quale si era molto attenuato il rigore primitivo. Di fronte al costante allargamento della sua base sociale, la Chiesa non poteva pretendere di rimanere quella comunità di santi che voleva Ippolito. Piuttosto essa era veramente quel campo di grano nel quale cresce anche la zizzania, quell’arca di Noè dove sono animali puri e impuri, di cui parlavano le Scritture. E una situazione analoga doveva esserci anche a Cartagine. Certo Tertulliano è, come ho detto, un rigorista e un intransigente. E non soltanto negli ultimi anni della sua vita, quando diventa montanista, ma già prima. Su certi problemi, ad esempio proprio sulla valutazione del matrimonio e della verginità, non c’è in lui un grande cambiamento dall’Ad uxorem al De exhortatione castitatis al De monogamia. Non è quindi sui suoi parametri che dobbiamo misurare la situazione morale della comunità cristiana. Ma la sua intransigenza è comunque il segno evidente che la moralità della sua chiesa non aveva più quel carattere eroico che egli avrebbe desiderato. Se egli scrive sulle uniche nozze, sulla eleganza delle donne e sulla fuga nella persecuzione, è perché i vedovi spesso si risposavano, le donne curavano la loro bellezza, nelle persecuzioni molti fuggivano. Persino il rischio dell’idolatria non sempre veniva evitato. E i pastori, come a Roma, evidentemente chiudevano un occhio» (G. Iossa, op. cit., p. 173).
In questo contesto vale la pena di riferire anche il dibattito sulla disciplina peni-tenziale nella Chiesa antica. Come si è già visto la Chiesa, quale “comunità di santi”, esigeva dai suoi membri un alto tenore di vita morale.
«Il sigillo battesimale, già in vista del prossimo atteso ritorno del Signore, doveva essere conservato “sacro e inviolabile” (II Clem. 6, 9; 8, 6). Ne seguiva una grande severità verso i peccatori, anche se solo alcuni vescovi isolati della fine del 2° secolo punivano nel loro rigorismo con l’esclusione perpetua dalla Chiesa i cosiddetti peccati capitali (peccata capitalia, mortalia), cioè soprattutto l’idolatria, ossia la negazione della fede (idolatria), l’assassinio e la lussuria (adulterium e fornicatio).
Anche i rei di peccati gravi erano ammessi fin da principio a fare penitenza e, dopo che l’avevano fatta, si concedevano loro il perdono e la riammissione alla Chiesa. Mentre verso il 140 il “Pastore” di Erma predicava ai Romani (cfr. § 38, B 1) la penitenza ecclesiastica come ultimo mezzo di grazia concesso per il tempo presente, finché non è completato l’edificio della Chiesa, Ireneo di Lione e Clemente di Alessandria consideravano senza restrizioni la penitenza come secondo mezzo di salvezza, dopo il battesimo.
Secondo ogni apparenza, Tertulliano nel suo scritto premontanista “De poenitentia” ammette il perdono della Chiesa, almeno sul letto di morte. L’intercessione di martiri e confessori o il rilascio di una lettera di pace (libellus pacis) per un rinnegato che si pentiva, accelerava in generale l’assoluzione e la riassunzione nella Chiesa. Del resto, data la tradizione lacunosa e poco chiara, non si può seguire con certezza l’evoluzione della disciplina penitenziale fino al 3° secolo; a quanto pare non fu dappertutto uniforme, ma si ebbero diversità e oscillazioni locali e provinciali. Così nell’Africa, dove si sentiva forte l’influsso montanista (cfr. § 34, 2) si procedeva con maggior rigore che a Roma (Cipr. Ep. 55, 21). Lo stesso Cipriano di Cartagine si adattò un po’ alla volta a usare maggiore clemenza.
Non si può dimostrare che martiri e confessori laici avessero il diritto di dare per conto proprio la pace ai peccatori e di condonare la penitenza. La loro voce aveva certamente un peso notevole, ma per quanto riguarda la loro intercessione, essa doveva venire regolarmente ratificata dal vescovo.
Nel corso del 3° secolo l’influsso del rigorismo si fece sentire più volte. Papa Callisto (217-220) fu accusato dal suo rivale all’episcopato, il dotto presbitero Ippolito, che si eresse perfino ad antipapa, di lassismo, perché avrebbe rimesso i peccati a tutti (senza penitenza).
Nello stesso tempo Tertulliano, dopo la sua adesione ai montanisti, nello scritto “De pudicitia”, esagerò tanto il rigore da escludere il peccato d’impudicizia dalla possibilità di remissione. Probabilmente fu lui a introdurre per primo anche il concetto del peccato non remissibile come pure la triade dei peccati capitali. Mancando una tradizione ben definita, scoppiarono a distanza di una generazione nuovi torbidi provocati dal problema della riammissione degli apostati. I sinodi di Roma sotto papa Cornelio (251-53) e di Cartagine decisero di ammetterli non solo in caso di pericolo di morte, ma anche per principio, dopo averli sottoposti a una penitenza di lunga durata.
Ma più tardi il presbitero Novaziano, che in un primo tempo si era pronunziato solo in favore del mantenimento della antiqua severitas contro un’ammissione affrettata degli apostati, in seguito alla mancata sua elezione a pontefice, passò all’opposizione più accanita contro papa Cornelio e la prassi penitenziale da lui praticata.
Nello stesso tempo a Cartagine Cipriano, che si regolava in modo simile a Cornelio, ebbe da lottare contro tendenze lassiste tra i confessori e il clero (scisma di Felicissimo). Anche Origene in Oriente (De oratione c. 28, verso il 233-34) si mostrò propenso a concedere una volta tanto il perdono agli apostati, sebbene in un primo tempo fosse stato più severo (C. Celsum III, 50, scritto verso il 248). Nella Spagna, nel sinodo di Elvira, verso il 306, venne ancora punito con l’esclusione perpetua dalla Chiesa un numero considerevole (18-19) di gravi delitti.
La concessione della penitenza ufficiale regolata dalla Chiesa e l’obbligo della confessione di limitavano ai peccati capitali sopra accennati, la cui cerchia peraltro poteva essere allargata, come effettivamente venne anche ampliata in modo speciale nel 4° secolo (sinodo di Elvira, Paciano, Ambrogio). Gli altri peccati meno gravi venivano perdonati più di frequente e per la loro remissione si consideravano sufficienti anche altri rimedi liberamente scelti, in particolare l’elemosina, il digiuno e la preghiera.
Il compito di amministrare la penitenza spettava ai vescovi, che nelle maggiori città d’Oriente, a quanto pare dal 3° secolo in poi, si facevano coadiuvare da appositi sacerdoti penitenzieri. Inoltre nell’Oriente, specialmente nell’Asia Minore, ma neppure qui dappertutto, i penitenti, al fine di essere gradatamente riammessi in seno alla Chiesa, venivano divisi in più classi o stazioni, che ebbero uno sviluppo nel corso del 3° e 4° secolo» (in Bihlmayer – Tuchle, Storia della Chiesa, vol. 1°, Morcelliana, Brescia, pp. 155-159).
Va infine sottolineato, in questo paragrafo dedicato alla vita cristiana nel terzo secolo, che la Chiesa ormai era entrata in possesso di propri edifici di culto (ad esempio a Dura Europo, nell’odierno Iraq!). E compaiono anche i primi cimiteri cristiani (il più antico sono le “catacombe” di Callisto, sulla via Appia). Fanno la loro apparizione i primi esempi di arte cristiana, con immagini prese dall’Antico e dal Nuovo Testa-mento.

4) Costantino e il Concilio di Nicea del 325

Nella seconda metà del terzo secolo la storia della Chiesa antica è attraversata da due tragiche persecuzioni: una all’inizio, quella di Decio del 250, proseguita poi dall’imperatore Valeriano suo successore nel 257-58, che mirava all’annientamento della Chiesa (si vuole l’eliminazione della religione cristiana nei suoi elementi istitu-zionali e organizzativi!) e una alla fine del secolo e all’inizio del quarto, che venne addirittura chiamata la “grande persecuzione”, i cui effetti furono devastanti non solo per il numero dei martiri, ma anche per la constatazione della fragilità e la defezione di moltissimi cristiani. A questa persecuzione pose fine il successore di Diocleziano, Galerio, che nel 311 emanò un editto con cui non soltanto decideva di concluderla, ma riconosceva ai cristiani il diritto di esistere.
Il suo editto fu, perciò, un documento di importanza storica eccezionale, che
apriva la strada all’editto di Milano del 313 di Costantino. È la “svolta costantinia-na”, l’inizio cioè di un rapporto nuovo tra l’impero e la Chiesa, con cui può ritenersi sostanzialmente conclusa la storia del cristianesimo antico.
«La svolta di Costantino comporta anche, e soprattutto, un profondo cambiamento nelle modalità dei rapporti tra l’imperatore e la Chiesa, quello che fa appunto definire il periodo come “età costantiniana”. Convinto non soltanto che il cristianesimo sia un potente fattore di ordine e di stabilità, ma anche di essere investito di una precisa missione nei suoi confronti, sicuro quindi di doversi preoccupare delle sorti della religione cristiana non soltanto per il bene dell’impero ma anche per quello della Chiesa, Costantino interviene nelle sue vicende interne con tutto il peso della propria autorità. Non è ancora il cesaropapismo come si affermerà nei secoli successivi e neppure soltanto l’uso della religione come instrumentum regni. Costantino ha la precisa consapevolezza che, in quanto cristiano investito di responsabilità imperiali, egli ha un compito da svolgere nei confronti della Chiesa. Secondo il suo biografo, questo compito egli lo avrebbe anzi espresso e definito con una formula precisa: quella dell’epíscopos ton ektós. L’imperatore sarebbe una sorta di “vescovo di quelli di fuori” o, come altri preferiscono tradurre, “per gli affari esterni”. Dovrebbe cioè preoccuparsi di tutte quelle persone, o di tutte quelle materie, che cadono fuori della organizzazione ecclesiastica in senso stretto, soggetta al potere dei vescovi. Si può discutere dell’attendibilità di questa notizia. E soprattutto si può dubitare che quella formula sia qualcosa di più di una immagine, di un paradosso, dell’imperatore. Si esprime anche in essa, comunque, la convinzione di Costantino che all’imperatore cristiano, in quanto supremo reggitore di uno Stato che ha nella religione cristiana il suo carattere più rilevante, spetta il compito di vigilare costantemente sul buon andamento delle cose ecclesiastiche» (G. Iossa, op. cit., p. 200).
Questo nuovo rapporto tra l’imperatore e la Chiesa, che è la caratteristica più notevole della “età costantiniana”, appare chiaramente in due momenti della storia di questo periodo: nella controversia con i “donatisti” (dal nome del prete Donato, africano) che contestavano la validità dei sacramenti impartiti da coloro che si erano macchiati di apostasia nella persecuzione – i lapsi –, cui Costantino ordinò nel 317 di restituire alla Chiesa tutti gli edifici di culto in loro possesso e, poi, nella vicenda legata al Concilio di Nicea del 325.
«Questo Concilio fu convocato principalmente per risolvere il grave problema dottrinale costituito dalla concezione che in materia trinitaria era venuto sostenendo il prete alessandrino Ario. Questi infatti, insistendo sul carattere assolutamente unico del Padre e radicalizzando la posizione subordizionista che era stata dell’apologetica, e in parte anche di Origene, affermava che, essendo Dio necessariamente ingenerato, perché immutabile, il Figlio da lui generato non può essere che creato e non può quindi essere Dio. E faceva appello per questo all’Antico Testamento (in modo particolare al passo di Proverbi 8, 22, dove la Sapienza afferma: “Il Signore mi ha creato all’inizio del suo operare”). Il Logos “non è eterno come il Padre […] perché è dal Padre che ha ricevuto la vita”.
La posizione di Ario fu subito respinta dal vescovo di Alessandria, Alessandro, e condannata da un Concilio di vescovi egiziani. Ma la controversia, tipicamente alessandrina nella sua origine, non rimase confinata ad Alessandria. Si diffuse invece in tutto l’Oriente, fino all’Asia minore. E dovunque creò tensioni e polemiche assai aspre. Fu così che Costantino pensò di convocare un Concilio che, per il carattere assunto dall’impero e per la piega presa dalla controversia, fosse veramente “ecumenico”, universale, cioè tale da coinvolgere l’intera Chiesa cristiana. E lo riunì a Nicea, presso Nicomedia, nel 325: il primo Concilio ecumenico della storia della Chiesa.
La decisione del Concilio non fu facile. Pur provenendo in prevalenza dall’Oriente, i vescovi esprimevano tendenze teologiche notevolmente diverse. E la riflessione dottrinale non era abbastanza matura per giungere a una definizione rigorosa. Il Concilio dovette perciò prendere la strada della mediazione. Ma, pur essendo diviso al suo interno (dove vari vescovi appoggiavano Ario) e partendo da una formula di compromesso (la professione di fede presentata da Eusebio di Cesarea), il Concilio aggiunse a questa formula delle precisazioni decisive, affermando che il Figlio è “Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre (homooúsios to patrí)”. Una formula ancora insufficiente, perché si preoccupava di ribadire soltanto la divinità del Figlio, e non anche la distinzione delle persone, e che solo con i Padri cappadoci (Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa) sarebbe stata completata e precisata in maniera più rigorosa; ma che comunque rappresentò la base per tutte le riflessioni successive sul tema della Trinità. Homooúsios in particolare era un’espressione non biblica, ma dottrinale, che a molti per di più non piaceva perché usata a suo tempo in maniera ambigua già da Paolo di Samosata. Ma proprio per questo la scelta dell’espressione era un atto coraggioso, che suonava come la legittimazione definitiva dello sforzo teologico della Chiesa per esprimere nel linguaggio del tempo le verità della fede.
Più di quella donatista, la controversia ariana era essenzialmente dottrinale. Ma l’idea di un’assise ecumenica era stata di Costantino. E motivi politici si introdussero rapidamente nella controversia. Le divisioni religiose diventarono spesso divisioni politiche. In realtà il Concilio di Nicea, convocato e aperto dallo stesso imperatore, la cui presenza continuò a farsi sentire per tutti i lavori del Concilio, e conclusosi con una soluzione della controversia ariana che lasciava aperti moltissimi problemi, segnò l’inizio di una serie di conflitti nei quali l’aspetto religioso sarebbe divenuto materia e strumento di lotte politiche, abbandonando il principio della separazione di religione e politica, Chiesa e Stato, che pure era stato tra gli effetti più importanti della rivoluzione cristiana» (G. Iossa, op. cit., pp. 202-203).

BIBLIOGRAFIA MINIMA

G. IOSSA, Il cristianesimo antico, Ed. Carocci, 2006.
K. BIHLMEYER – H. TUECHLE, Storia della Chiesa, 1° vol., Ed. Morcelliana.
A. DESTRO – M. PESCE, Antropologia delle origini cristiane, Ed. Laterza, 2008.
C. OSIEK – M.Y. MAC DONALD, Il ruolo delle donne nel cristianesimo delle origini, Ed. Paoline, 2007.