Canova, 15 aprile 2005 – 6° incontro

(don Marcello Farina)
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1. Introduzione: un pane dato per amore;
2. L’Eucaristia, “culmine e fonte” della fede;
3. L’Eucaristia e la città: un pane spezzato;
4. La fame dell’uomo e il pane di Cristo.

1. L’EUCARISTIA: PANE SPEZZATO, VINO VERSATO PER TUTTI

Dal Vangelo di Luca: 24, 28-35
«Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. Egli entrò per rimanere con loro.
Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”.
E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro; i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”. Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane».

Il grande brano di Emmaus ci mette subito davanti lo stupore di due discepoli che assistono emozionati all’incontro con quel pellegrino misterioso che li aveva accompagnati nel loro viaggio segnato dalla delusione e dalla sconfitta. Quel pane e quel vino condivisi, nella piccola locanda di Emmaus, li rinfranca e li rende testimoni di risurrezione.
Ora, quella storia si è ripetuta. Infatti, c’è, nella vicenda di un grande credente del XX secolo, Charles de Foucauld, un passaggio, che diventa significativo, per poter cogliere il “senso” dell’Eucaristia, il suo significato più pregnante. Egli ha vissuto la sua gioventù, come scrive Arturo Paoli nel bellissimo libro Quel che muore quel che nasce, secondo l’atteggiamento: «Ci sono, il y a», ho il diritto di esistere, posso accedere a tutti quelli che scopro bisogni e diritti del mio essere qui, al mondo, in quest’epoca. Ci sono, non vi basta? Il ‘perché’ e il ‘per chi?’ esisto, erano domande che non presentavano per lui alcun interesse e nessuna necessità di risposta.
Ma, ad un certo punto, Charles tocca i limiti di questo “ci sono” e comincia a sentire l’appello dell’Altro, dell’assolutamente Altro. E a poco a poco arriva a sentire che questo appello è Dio e che lui non ha altra possibilità di scelta che “farsi altro” per l’Essere che lo chiama. E il modello di questa alterità è Gesù, ‘modello’ che si fa vicino, presente, reale, in una “cosa” di cui si può disporre molto facilmente: pane e vino. E diventa un fanatico ricercatore di questa presenza, non ne può fare a meno. Da lì, da quella presenza, spunta in lui un interesse e un amore nuovo, mai provato, l’amore per gli altri”. (L’Eucaristia gli fa incontrare l’altro!).
Conosceva l’amore per le donne, per i colleghi d’arma, per i membri della sua famiglia; ma questo è del tutto nuovo, è l’amore per gli altri che scuotono le fondamenta del suo “ci sono”, esisto, ho il diritto di farmi la mia vita. Come scrive un suo confratello, «nel momento in cui Charles de Foucauld ritrova questa nuova prossimità con Gesù, è divorato dal desiderio di una più grande prossimità con coloro che gli sono vicini. La parola di Gesù acquista un nuovo realismo: “Tutto quello che fate a uno di questi piccoli, lo fate a me”. Queste parole che in altri tempi hanno prodotto in lui una profonda impressione, ora le risente sullo stesso piano, uscite dalla stessa bocca: “Questo è il mio corpo”. E questa parola non cessa di trasformare la sua vita, portandolo a cercare e ad amare Gesù in questi piccoli. Servizio eucaristico e servizio dei piccoli, unico culto del corpo di Cristo» (Antoine Chatelard).
Paolo, l’apostolo, ha detto ai cristiani di Corinto con parole chiare, per non dire violente, che l’effetto dell’Eucaristia, il suo fine, non è quello di presentare a Dio il pagamento di una rata, per scontare i nostri peccati o quelli dei nostri parenti, ma è caricarsi di responsabilità verso l’altro; la fede trabocca nella responsabilità (nell’etica, come direbbe Levinas); è questo il messaggio nuovo. Parole violente, perché ha detto loro che, partecipando a questo atto che ricorda la morte di Cristo “o avanzate verso la vita o verso la morte” (1 Corinti 11, 29: “Perché chi mangia del pane e beve del calice senza discernere il Corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna”). E l’eremita del Sahara, liberato dal devozionismo eucaristico, ha scoperto che la presenza di Cristo “ci è data per amore, per il nostro bene, per renderci caldi, ferventi, ricchi d’amore, teneri perché siamo freddi; per renderci forti e coraggiosi, perché siamo deboli; per darci speranza e fiducia, perché siamo senza speranza; per renderci felici, perché siamo tristi e scoraggiati”. La sua esistenza per gli altri, spenta nel sangue in forma violenta, conferma che queste sue parole erano vere.

Si vive così l’Eucaristia?

L’Eucaristia, nel mondo cattolico, è spesso avvolta da una nube di declamazioni, di cantici, di espressioni di amore, spesso patologiche, che l’allontanano da una comprensione “vera”, realistica, accettabile anche da persone che se ne sono allontanate proprio per seguire il loro progetto di vita che è quello di “essere veri”, di non accettare nulla che non si presenti come contenuto della loro responsabilità di essere uomini e donne dentro la storia.
Il “memoriale della morte del Signore” è diventato, spesso, una festicciola mediocre e per-sino noiosa, insopportabile per la sua fredda ripetitività. Come si fa a vivere per anni la stessa mat-tina (o domenica), facendo la stessa funzione, davanti alla stessa gente e invecchiare dentro questo bellissimo salone che è il mio tempio? E devo leggere con monotonia che la Chiesa sia modello di giustizia e di pace, di verità e di amore. È questo il vero mistero che faceva vaneggiare Kierkegaard e che, nell’inevitabile cambiamento di cultura, sarà sempre più mistero. Spesso, ‘il servizio eucari-stico’, anche per il prete, diventa un servizio ecclesiastico, non ecclesiale, cioè per il ‘regno’, e il sacerdote viene ad essere il servitore delle pie persone che hanno incluso nel loro ozioso programma la messa quotidiana (o domenicale). E il celebrare l’Eucaristia si rivela in una persona meschina, senza grandi orizzonti, lontana dalla realtà, schiava di un piccolo ghetto che difende con tutti i mezzi il proprio privilegio, un ghetto che vive semplicemente per conservarsi, per ‘es-sere’.
Invece l’effetto fondamentale dell’Eucaristia è proprio la scoperta di questa discesa di Dio fino all’abisso del nulla, di cui essa è il simbolo più eloquente. Questa energia di riscatto delle azioni umane che sta dentro la storia, per ritorcerla dal loro orientamento verso la morte e rimetterla nella direzione della vita, agisce con la mediazione dell’uomo. Ma per essere assunto in questa mediazione è necessario che l’io viva l’esperienza, che è forse la più dolorosa, della sproporzione abissale tra la propria finitudine e i mali del mondo. Nel mondo del potere, dell’affermazione di sé, della rissa permanente tra quelli che sanno fare, che hanno in mano le leve per muovere il mondo e per rimetterlo, dove, secondo loro, è il suo vero posto, la forza di Dio è contenuta in coloro che hanno scoperto di ‘non-essere’ e che vivono ogni giorno la sorpresa di questa sapienza-pazzia: «Dio sceglie quelli che nel mondo non hanno importanza e sono disprezzati o considerati come se non esistessero, per distruggere quelli che si ritengono forti» (1 Corinti 1, 28). E non c’è cammino più diretto per prepararsi a questa scelta che diventare “ostaggio del volto dell’altro”. Qui si scopre (ed è l’Eucaristia più vera, il pane e il vino “vissuti”) che la piccolezza non è l’equivalente della mediocrità, che l’essere altro da quelli che sanno quello che devono fare, come farlo e perché farlo, ti fa certo di un’utilità, che ti viene incontro ogni mattina con l’abito che indossi e la prima preghiera è un saluto alla luce che ti attende all’uscita di casa e ti accompagna nel tuo cammino tra gli uomini.

2. FONTE E CULMINE È L’EUCARISTIA

Il Concilio Vaticano II, quarant’anni fa, invitava i credenti e i cercatori di Dio a riconoscere nell’Eucaristia “il culmine e la fonte” della loro vita. Chiamati, infatti, alla sequela di Gesù di Nazareth, essi sono costantemente coinvolti nella passione e risurrezione del Signore Gesù dall’Eucaristia, per mezzo della quale viene confermato e reso pieno il patto battesimale, che ci ha fatti suoi discepoli.
I cristiani compiono questo gesto in memoria del Signore fino al suo ritorno, ponendo all’interno della sequela quel cibo necessario per camminare nel viaggio ‘troppo lungo’ verso il Regno, cibo senza il quale sarebbe loro facile cadere nell’infedeltà, nell’oblio, nel tradimento.

a) In effetti l’Eucaristia è il nutrimento della comunità: la Chiesa cresce ‘solo’ spezzando il pane per tutti e condividendo la vita di tutti; è necessario spezzare quel pane alla gente!
b) L’Eucaristia è il segno della fedeltà di Gesù di Nazareth; la sua vita donata viene ‘mol-tiplicata’ a vantaggio delle generazioni lungo il corso della storia umana;
c) l’Eucaristia è la risorsa della vita spirituale, dalla quale attinge il senso profondo da dare alla vita (pane e vino donati per ‘l’altro’) e il conforto nel momento della tribolazione e della ten-tazione a lasciar andare, ad abbandonare l’impresa.
Nel tentativo di coglierne la ricchezza ‘simbolica’, ci sono quattro ‘momenti’ della ‘realtà’ dell’Eucaristia che meritano la nostra attenzione:
– l’Eucaristia come memoriale dei ‘mirabilia Dei’;
– l’Eucaristia come ‘sacrificium laudis’;
– l’Eucaristia come banchetto di comunione con Dio;
– l’Eucaristia apre al futuro di Dio e dell’uomo.

a) L’Eucaristia, memoriale dei “mirabilia Dei”.

L’Eucaristia viene, per così dire, da lontano; essa porta con sé lo spessore della memoria dei rapporti tra Dio e l’uomo lungo la storia della salvezza.
“Memoriale” di una liberazione: quella dalla schiavitù dall’Egitto, descritta dall’Esodo;
“Memoriale”, perciò, di un privilegiamento, di un affetto e di una tenerezza senza confini;
“Memoriale” di grazia, cioè di una gratuità che non trova motivazioni di interesse e di scam-bio.
Come si sa, nell’Antico Testamento il “memoriale” per eccellenza delle opere di Dio nella storia è la liturgia pasquale dell’Esodo. Nella festa di Pasqua si incrociavano i due ricordi: quello divino e quello umano, cioè la grazia salvifica e la fede riconoscente.
Ma nel Nuovo Testamento è un’altra Pasqua quella che viene ricordata: il passaggio dalla morte alla vita di Gesù di Nazareth, il Figlio primogenito del Padre, così che essa (la Pasqua) divie-ne:
Memoriale di una vita donata per i fratelli e per le sorelle, “un sacrificio di soave odore”;
Memoriale dell’umanità di Dio, che non rinuncia a diventare “pane e vino” come nutrimento per l’immortalità dell’uomo;
Memoriale del Figlio, primogenito tra tanti fratelli, segno perciò di comunione, di fraternità, di soavità.
Nell’Eucaristia Cristo “una volta per tutte” diffonde la sua presenza salvifica nel tempo e nello spazio della storia umana, “fino alla fine” del mondo.
Essa (l’Eucaristia) è, perciò, anche il segreto della vigilanza della Chiesa: le sarebbe troppo facile, altrimenti… cadere nell’insensibilità, nella infedeltà. Ricordare è “riportare al cuore”, secondo il significato etimologico della parola: al cuore pasquale di Cristo, da cui uscì il sangue della sua divinità e l’acqua della sua umanità a vantaggio di tutti.

b) L’Eucaristia, “sacrificium laudis”, sacrificio di lode.

L’Eucaristia, come sacrificio della nuova alleanza, si pone quale sviluppo e compimento dell’alleanza celebrata sul Sinai, quando Mosè ha versato metà del sangue delle vittime sacrificali sull’altare, simbolo di Dio, e metà sull’assemblea dei figli d’Israele, simbolo di tutta l’umanità. L’altare e l’uomo, il segno di Dio e la presenza dei fedeli sono uniti indissolubilmente insieme in un legame indelebile di solidarietà. È per questo, come afferma il Concilio Vaticano II, che il sacrificio eucaristico è la fonte e il culmine di tutto il culto della Chiesa e di tutta la vita cristiana. È molto bello quanto afferma il n. 48 della Sacrosanctum Concilium, la Costituzione sulla Liturgia: “La Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano istruiti nella Parola di Dio; si nutrano alla mensa del Corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l’ostia immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo Mediatore, siano perfezionati nell’unità, con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti”.
Nel “sacrificio” eucaristico tutta la creazione, amata da Dio, è presentata al Padre attraverso la morte e la risurrezione di Cristo. Ecco il compito: dare voce all’intera creazione, offrendo la propria esistenza, il proprio ‘corpo’ in “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”, in comunione piena con Cristo (Romani 12, 1).
Sacrificio di lode: per essere fatti partecipi della stessa vita di Cristo, pane spezzato per i fra-telli; per essere fatti partecipi della sua gloriosa risurrezione, attraverso il germe della vita eterna, contenuto nel corpo e nel sangue del Figlio, per poter dar voce a coloro che, oppressi dalla fatica e dalla sofferenza, non riescono a intravedere la presenza del dono di Dio; per poter innalzare tutta la creazione al di sopra del peso che la fa gemere fino alle doglie del parto; per poter spiegare a piena voce l’inno di ringraziamento che ci sgorga prepotente dal cuore, dopo aver contemplato e, spesso, sperimentato, la tenerezza accompagnatrice di Dio.

c) L’Eucaristia, banchetto di comunione con Dio.

L’Eucaristia è il convito di cui tutti abbiamo bisogno, il pane santo della vita eterna. Noi siamo ancora in cammino, pellegrini, errabondi, sempre sospinti in avanti, nel provvisorio.
Come potremmo pellegrinare senza intuire già in noi le forze dell’eternità; come potremmo sperare, se quello che speriamo fosse solo lontano? Dio si può cercare solo con Dio e noi non lo cercheremo, se non l’avessimo già trovato, se egli stesso non si facesse trovare ogni giorno da noi. Per questo il Signore ha preparato questo convito: un segno per i sensi, manifestatesi come un po’ di pane e vino, che nutrono il corpo e ricreano lo spirito. Dove, infatti, per suo mandato e nella sua autorità, viene celebrata con la sua parola la memoria dell’ultima Cena, che inserisce veramente questo convito nel nostro attimo specifico, là la verità e la realtà di quei segni è Lui stesso nella sua carne e nel suo sangue, là egli diviene il pane della forza inesauribile ed il vino della gioia ineffabile. Nella nostra ora (il tempo della nostra disponibilità ad incontrarlo) egli stesso fa per noi del suo corpo il segno di ciò che vuol essere nel suo spirito: il Dio che dona la propria vita ad una povera creatura; adesso che noi riceviamo il pane degli altari, Egli diviene ciò che è l’elemento terrestre in cui l’eternità di Dio è entrata nelle strettoie della nostra finitezza.
“O sacro convito (banchetto) – prega la Liturgia – in cui Cristo è il nostro alimento, in cui rivive il ricordo della sua passione, l’anima è ricolma di grazia e noi riceviamo il pegno della vita fu-tura!”
Scrive Karl Rahner: «Ah, noi cristiani! In questo sacramento riceviamo contemporaneamente la pura beatitudine del cielo e la sottile trasfigurata essenza estratta dal frutto agrodolce di questa terra; la riceviamo certo incapsulata nel duro guscio del quotidiano, ma pur sempre in tutta la sua verità. E la riceviamo come se non accadesse nulla, trascinando stancamente e pigramente il vecchio cuore dalla mensa di Dio ai bugigattoli della vita, dove ci troviamo più a nostro agio che nella magnifica aula di Dio! Offriamo il Figlio e ci rifiutiamo di dare i nostri cuori, recitiamo il dramma divino della liturgia e non facciamo sul serio. Forse la buona volontà c’è, ma purtroppo ha tanto poco potere sull’ottusa inerzia del cuore.
Ma forse anche questo serve a significare che nel tempo presente Dio corre incontro alla sua creatura e che già fin da ora viene celebrato anticipatamente il banchetto della vita eterna. Quando la cena della vita eterna viene apparecchiata nelle misere casupole del tempo, non bisogna meravigliarsi se si presentano dei miserabili che con la loro meschinità ed avarizia non compren-dono neanche che cosa viene loro offerto. Allora si spiega perché siamo un po’ sconvolti e ci sen-tiamo sopraffatti, anzi quasi intimiditi ed irritati da questa munificenza divina. Poiché è sempre grazia sua se veniamo alla sua mensa; se veniamo, se ci trasciniamo fino a lui, malcontenti e curvi, affaticati ed oppressi. Egli ci accoglie, anche se non vede luccicare nei nostri occhi la gioia per la sua presenza.
È disceso in tutti gli abissi di questa terra; non si offende di dover entrare nella buia tana del nostro cuore, purché vi brilli una piccola scintilla d’amore e di buona volontà. Il ss. Sacramento vuole essere il sacramento della nostra vita quotidiana nella pazienza che Dio ha con la nostra debolezza» (In “La fede che ama la terra”, ed. Paoline).

d) L’Eucaristia apre al futuro di Dio e dell’uomo.

La comunione con Cristo che ora viviamo mentre siamo pellegrini e viandanti sulle strade della storia, anticipa l’incontro supremo del giorno in cui “noi saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è”. Ci viene incontro la bella immagine del profeta Elia, che in cammino nel deserto si accascia privo di forze sotto un ginepro e viene rinvigorito da un pane misterioso fino a raggiungere l’Oreb, il monte dell’incontro con Dio. Come non vederci il simbolo del pane eucaristico, che nutre i fedeli nel loro itinerario verso la città di Dio? Un pane che sazia, un pane che rincuora, perché contiene in sé la forza, il nutrimento di Dio.
Per mutuare un’espressione dedicata alla liturgia del sabato ebraico, l’Eucaristia è un “assaggio di eternità nel tempo”. Come Cristo è vissuto nella carne, permanendo nella gloria di Figlio di Dio, così l’Eucaristia è presenza divina e trascendente, comunione con l’eterno, segno della “com-penetrazione tra città terrena e città celeste”. Come memoriale della Pasqua di Cristo, essa è per sua natura apportatrice dell’eterno e dell’infinito nella storia umana: germe di immortalità, come si diceva sopra, dono che anticipa nel tempo la dimensione del divino propria di Gesù di Nazareth, segno del futuro di Dio, partecipazione alla sua vita che è eterna e vince la morte.
Per questo Gesù dichiara: “La volontà di colui che mi ha mandato è che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Giovanni 6, 51).

3. L’EUCARISTIA E LA CITTÀ: UN PANE SPEZZATO

Ancora il Vangelo: Mentre mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunciata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: “Prendete e mangiate. Questo è il mio corpo” (Mt. 26, 26).
L’Eucaristia e la città sono due realtà in stretta comunicazione, perché il cristiano che vive di Eucaristia appartiene alla città, sta nella compagnia degli uomini, nella consapevolezza di essere innanzitutto un “figlio di Adam (e perciò) figlio di Dio” (cfr. Luca 3, 38), ma soprattutto perché l’Eucaristia è la narrazione del dono di Dio alla città degli uomini, al mondo intero: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio!” (Giovanni 3, 16). Narrazione umile (pane e vino) dell’umiltà di Dio… come si esprime Francesco d’Assisi, parlando ai suoi frati dell’Eucaristia: “O sublime umiltà! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili… Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio…”.
Sì, l’Eucaristia, umile segno e umile parola, umile liturgia, narra l’umiltà di Dio: Dio che si è abbassato, Dio che si è umiliato “fino alla morte e alla morte in croce” (Filippesi 2, 8), Dio che si dona come cibo, perché il mondo viva. L’Eucaristia è realtà umile, rende umili quelli che la cele-brano, è forza e speranza degli umili della terra.
Dentro la città, secolarizzata, molteplice, eterologa, luogo comune di tutti, campo della vita pubblica, spazio in cui trovare i valori comuni (non è essa il simbolo della nostra civiltà? E che senso può avere, allora, la fuga urbis?), abitano i cristiani, insieme con tutte le donne e gli uomini, alla maniera raccontata dalla splendida Lettera a Diogneto (cap. 5), cioè come stranieri e pellegrini, con la certezza che la loro cittadinanza ultima è nei cieli, obbedendo però alle leggi dello stato, come leali e sinceri cittadini. Nessuna evasione, tuttavia, perché “è talmente grande il posto che Dio ha assegnato ai cristiani, che non è loro permesso disertare”.
Dentro la città i cristiani offrono “pane e vino”, i segni della terra, frutti insieme della natura e della cultura (quanto amore per fare il pane e quanta perizia per un vino buono!), simboli insieme dell’uomo intero, della sua città, del suo mondo. Per questo la città degli uomini non è estranea all’Eucaristia, quand’anche gli uomini si sentissero estranei ad essa: qualunque sia l’atteggiamento della città verso il cristianesimo, verso l’Eucaristia, questa non è estranea agli uomini e alla loro città. Anzi, con Karl Rahner, potremmo dire con audacia che l’Eucaristia “è liturgia sul mondo”. Ed è su questo pane e su questo vino, su questo segno, che “accade” la Parola, parola di Gesù che invita, che provoca l’incontro, la condivisione, la commensalità, la comunione.
Pane e vino, causa di benedizione e ringraziamento a Dio; pane e vino offerti: “prendete e mangiate”; pane spezzato e vino condiviso da tutti; pane che dà vita e bevanda che ristora… Ecco la tavola eucaristica, così diversa dalla tavola della società degli uomini: una è la tavola comunionale, la cena del Signore in cui tutto è condiviso, affinché tutti abbiano la vita; l’altra è la tavola piena di cibo per alcuni, luogo di voracità per chi consuma tutto e subito, e luogo di esclusione per i poveri, gli affamati, gli assetati della terra.
La tavola eucaristica appare dunque un magistero silenzioso per i cristiani, perché quel pane che proviene dal lavoro di tutti gli uomini, fra tutti gli uomini sia condiviso. Non voracità ma ren-dimento di grazie, non egoismo ma condivisione, non ricerca della propria vita, ma della solidarietà con gli altri, non consumo, ma comunione, non potere ma servizio: magistero anti idolatrico dell’Eucaristia…! Così i cristiani nella celebrazione del mistero della fede stanno davanti alla cattedra eucaristica e, se ascoltano e recepiscono l’insegnamento, allora, al cuore della città degli uomini tra i quali dimorano, instaurano la logica eucaristica. I non-cristiani possono anche non vedere, non sapere, ma anche per loro, mai senza di loro, i cristiani celebrano l’Eucaristia: l’Eucaristia è sempre “messa sul mondo” (T. de Chardin).
Di questo dobbiamo avere coscienza: quando celebriamo l’Eucaristia, l’umile nostra Eucaristia, se la celebriamo da poveri e sofferenti che invocano la venuta del Signore, noi coinvolgiamo nel nostro atto tutta la città, portiamo con noi tutti gli uomini in una solidarietà, in un’intercessione che magari non suppongono, ma che per noi è realissima, autentica, sofferta e vissuta da tutto il nostro essere umano. È vero che l’Eucaristia è cibo per i credenti, e che questi vivono in virtù di essa, ma l’Eucaristia così vissuta dai cristiani riassume, coinvolge tutta l’opera degli uomini: il loro lavoro, la loro cultura, sono purificati, benedetti, risignificati.
Tutto è così apprestato per la città veniente; tutto è invocazione di trasfigurazione! Così si esprimeva Ireneo di Lione: “Il calice e il pane ricevendo la parola di Dio diventano Eucaristia, sangue e corpo di Cristo”… natura e cultura diventano il luogo in cui Dio sarà tutto in tutti (1 Co-rinti 15, 28).
Ma l’Eucaristia riguarda la città anche per ciò che Dio, attraverso di essa, dona alla città. È il dono di uomini e donne eucaristici, che ammaestrati dall’Eucaristia, plasmati nella loro vita dall’Eucaristia, vivono la logica eucaristica. E questa logica è quella del dare la vita per gli altri, quella del servizio agli altri, della trasfigurazione di questa terra in un cielo nuovo e in una terra nuova.
Comunicando al corpo e al sangue del Signore, i cristiani diventano un solo corpo con il servo del Signore, di cui l’Eucaristia narra l’autoconsegna, il martirio, il sacrificio per la vita degli uomini. Essi sono invitati a fare memoria di lui spezzando, donando, condividendo la loro vita come egli ha fatto e come lo ha narrato anticipatamente spezzando il pane.

4. PAROLE CONCLUSIVE: LA FAME DELL’UOMO E IL PANE DI CRISTO

Gesù di Nazareth, “parola fatta carne”, non si tira indietro nel momento in cui il padre gli chiede di diventare il segno vivente della sua volontà di saziare la ricorrente e multiforme fame degli uomini:
– pane-carne per i poveri di spirito, perché essi sappiano cogliere che può esserci chi non affida la propria sazietà soltanto ai beni della terra, con il rischio sempre ricorrente di affamare gli altri;
– pane-carne per i mansueti, come Cristo agnelli condotti al macello, in una storia che ci mette continuamente davanti fatti in cui i “duri” calpestano la terra e anche i suoi abitanti;
– pane-carne per quelli che piangono, perché con tutta la creazione soffrono le doglie del parto, nell’attesa di nuove modalità di vita, che eliminino le tante sofferenze e le violenze a danno di tanta gente;
– pane-carne per quelli che hanno fame e sete di giustizia, in un mondo dove spesso pre-vale la fame di potere e di vendetta, la prepotenza e l’esclusione. Non viene mai meno nella storia l’anelito profondo di donne e di uomini che si impegnano per un “altro” modo di vivere;
– pane-carne per i misericordiosi, perché come essi si chineranno sui più deboli, così Dio si chinerà su di loro. Questa, infatti, è la giustizia della Grazia, secondo la Legge per cui colui che si offre ad un fratello, a una sorella riceve il centuplo…;
– pane-carne per i puri di cuore, cioè per coloro che riescono a liberarsi da avidità e timore, che offuscano lo specchio che è nel cuore, così come la tempesta che rende oscura la superficie delle acque;
– pane-carne per coloro che riescono a costruire la pace, che richiede un cibo e una be-vanda molto nutriente, a causa dei tentativi sempre presenti dentro la storia degli uomini di ritornare alla forza, alla “ragione” dei potenti, al ‘diritto’ della “civiltà” imposta;
– pane-carne per i perseguitati a causa della giustizia, che da vicino partecipano alla stessa sofferenza di Cristo, prendendo parte con lui all’opera di salvezza compiuta dal Padre che dà vita lì dove a prima vista si vedono solo segni di morte.
Gesù di Nazareth invita tutti a realizzare nella propria vita quel dinamismo che in lui si è compiuto e per il quale la parola non è rimasta vana, vuota, solo suono esteriore, ma è diventata nutrimento per un dono sempre a disposizione per tutti, capace di rendere “beati”.
Ignazio di Antiochia nella sua grande lettera ai Romani si augura di diventare presto ‘grano macinato’ dai denti delle fiere e così diventare ‘puro pane di Cristo’, immagine di tutti coloro che accostandosi all’Eucaristia, intendono loro stessi diventare “pane-carne” per un’umanità redenta.