Canova, 20 maggio 2005 – 7° incontro
(don Marcello Farina)
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1. UN DISCORSO DIFFICILE

L’ultimo nostro incontro è forse anche quello più difficile, più problematico, perché dobbiamo parlare di noi stessi, delle comunità cui apparteniamo, spesso con fatica e talvolta con una voglia inconfessata di prenderne le distanze. È la «Chiesa» l’oggetto della nostra ricerca di oggi, cioè «il popolo di Dio» che cammina nella storia, la comunità dei credenti e dei cercatori di Dio, delle donne e degli uomini che, legati insieme dal vincolo battesimale, continuano a chiedersi come possano vivere positivamente la loro testimonianza insieme, come movimento comunitario, condividendo, come dice il Concilio Vaticano II, le gioie e le speranze, i dolori e le sofferenze delle persone del nostro tempo.
La prima osservazione che va affrontata è che la Chiesa, la fede nella Chiesa, sembra interessare sempre meno. «Cristo sì, Chiesa no», si sente spesso ripetere anche tra di noi. Non bastano le statistiche a ricordarcelo (soprattutto per quel che riguarda l’Occidente e l’Europa in particolare); non basta sperimentare il prendere le distanze di tante persone in modo silenzioso e senza drammi apparenti (appena attenuati dalla visione di folle commosse e plaudenti o dal suo ruolo di “moralizzatrice” sociale, che le è ancora riservato in molte nazioni). La crisi della Chiesa cattolica, ad esempio, sembra esprimersi soprattutto in tre ambiti, che ne mostrano l’affaticamento e l’estraneità dalla vita reale:
– l’incapacità di avvertire l’ineluttabile mutazione del tempo e dello spazio (sono i «ritardi culturali», cioè la difficoltà sempre grande di un dialogo sincero con la cultura dell’uomo di oggi, con il suo “relativismo”);
– l’incapacità di autocomprendersi al di fuori degli schemi di una «sacralità feudale» (sono i «ritardi strutturali», che fanno apparire la Chiesa ancora come una monarchia assoluta, con padroni e servi!);
– l’incapacità di superare definitivamente la «seduzione del potere» (sono i «ritardi ‘profetici’» della Chiesa, soprattutto nell’ambito della testimonianza della “povertà”, della libertà di coscienza, della pace…).
Succintamente si può anche dire che la comunità cristiana, la Chiesa cattolica soprattutto, non ha superato cinque grandi paure, che la tengono attenagliata da tempo: la paura della libertà, della democrazia, della verità, dell’amore, della donna. Non si tratta, come si può vedere, di cose di poco conto, anzi possono essere proprio queste paure a rendere le Chiese sempre più lontane dalla sensibilità della gente.

2. IL CONCILIO VATICANO II E LA ‘NUOVA’ «IMMAGINE» DELLA CHIESA

Il nostro tentativo di rispondere alla domanda «Quale Chiesa, oggi?», non può prescindere dal grande evento che ha caratterizzato la storia del cattolicesimo nel secolo appena passato. Quarant’anni fa la Chiesa cattolica portava a compimento la celebrazione del Concilio Vaticano II (1962-1965), che mutava profondamente sia la comprensione della comunità cristiana nei confronti di se stessa, superando definitivamente la visione tridentina e del Vaticano I (1869-1870), sia comprensione del suo rapporto con il mondo, non più conflittuale, ma dialogico.
Dal Concilio la comunità cristiana, cioè la Chiesa, ci viene presentata sotto tre immagini principali: essa è mistero, comunione e missione.

– La Chiesa come «mistero». Essa è frutto dell’intelligenza e della volontà di Dio, non sale dalle forze della storia, ma scende dall’alto della misericordia divina (dalla “tenerezza-dolcezza” di Dio); discende dalla Trinità, fa parte del progressivo svelarsi-donarsi di Dio. La Chiesa, in questo contesto, diventa «la parte cosciente» dell’umanità, in cammino verso “l’éscaton”; essa non è il Regno di Dio, se non nell’inizio e nel mistero. Le immagini bibliche e patristiche, ampiamente valorizzate dai testi conciliari, rivelano la «mistericità» (la «essenza» misteriosa) della Chiesa, la quale è anche sorgente, invocazione e incentivo di santità. La Chiesa è una realtà complessa, in qualche modo «paradossale», capace di rifuggire, come il suo modello, che è Cristo, da ogni indebita semplificazione e confusione.
Punto di congiunzione di due mondi, la Chiesa è realtà impastata di Spirito e di materia, di eternità e di storia, di grazia e di mediocrità, se non proprio di peccato, di mistica e di sociologia, di carisma e di istituzione, di luce e di opacità.
Le porte del mistero restano chiuse ai curiosi, ai sociologi e ai critici di professione. E anche ai teologi, se questi non accompagnano la loro riflessione con la contemplazione.
«Propriamente parlando, non esistono libri di storia della Chiesa. La sua storia è scritta in cielo. I nostri libri sono un abbozzo, un tentativo, una cornice, che lasciano però al di fuori quello che di più intimo c’è nella vita della Chiesa. La Chiesa è comunione dei santi, storia di santità, vicenda inenarrabile. Tale è il peso del mistero che essa porta e da cui è portata».
Assumono quindi un significato nuove parole di uso corrente, quali: consultivo, democrazia, presidenza, assemblea, popolo ecc.
Come siamo lontani da una visione feudale e perfino “moderna” della Chiesa, assimilata, da san Roberto Bellarmino, alla repubblica di Venezia e al regno di Francia, con le loro leggi, le loro gerarchie, i loro sudditi! «Mistero» non significa qualche cosa di irrazionale o di assurdo, ma «qualche cosa di intraducibile nell’esperienza umana e mai esaurita da essa», perché ricca di uno spessore derivante dal dialogo tra la Trinità e l’umanità di ciascuno e della comunità, aperta ad un futuro non ancora realizzato e non tutto nelle mani dell’uomo, caratterizzata dall’apertura ad una pienezza definitiva (l’escatologia), che la fa vivere nel «già» e «non ancora». Se la Chiesa viene colta solo nel suo apparato esteriore, come istituzione, essa viene tradita, così come vengono manomessi (nel senso di banalizzati) i rapporti che si possono coltivare al suo interno. Quante volte, in proposito, si è frainteso il rapporto pastore-gregge dentro la storia della Chiesa, fino a farlo diventare un rapporto tra padrone e servo!
Scrive Giorgio Cracco, un grande storico medioevale, che, «dopo la lotta per le investiture e la “svolta gregoriana” solo il Papa poteva confrontarsi con la verità; tutti i credenti, vescovi compresi, dovevano confrontarsi con l’autorità;… d’ora innanzi il problema che si poneva ai credenti non era più di vivere secondo la verità, ma secondo l’autorità…». Il mistero, che è libertà, lasciava il posto alla mera sottomissione, all’obbedienza senza adesione personale e sincera.

– La Chiesa come «comunione». Se la Chiesa nasce dalla Trinità e fa parte del progressivo donarsi-svelarsi di Dio, essa non può, di conseguenza, non realizzare uno «stile» trinitario, cioè di comunione, di unità, di rispetto delle diversità, di partecipazione, di uguaglianza.
Uniformizzazione, disuguaglianze costitutive, irriguardosità, emarginazioni, individualismi sono le voci principali (ma non uniche) del sempre possibile tradimento. Nella Chiesa, tutto fa riferimento alla pluralità: vocazioni, carismi, ministeri, chiese, stati di vita. Ma la diversità non è lacerazione e sparpagliamento. Per la forza innovativa dello Spirito di Pentecoste, la Chiesa è fondamentalmente una comunione di uguali e di fratelli.
In questo fondo comune del popolo gerarchico, va compreso il sacerdozio comune e il sacerdozio ordinato. La Chiesa è un corpo organico e strutturato, che ha bisogno di tutti e vive del contributo di tutti. Questo porta a valorizzare l’Eucaristia come causa e fondamento della comunione ecclesiale, e a ripensare il ministero della presidenza, della convocazione e della sintesi, la potestà primaziale, la sinodalità, il cammino ecumenico, la preghiera ecclesiale, la Chiesa particolare, la parrocchia, il mondo del laicato (definitivo «il gigante addormentato»), e in particolare della donna.
L’esigenza di partecipazione nasce dalla stessa natura della Chiesa, tempio dello Spirito. La sinodalità supera e trascende tutte le forme giuridiche e tende a diventare un orientamento costante della vita e dell’azione della Chiesa.
Sperimentiamo veramente, nella nostra esperienza quotidiana, che la Chiesa è comunione? Davvero il contributo delle sorelle, dei fratelli, anche dei lontani, sono tenuti in seria considerazione? È scomparsa la tentazione di dividere tra “i nostri” (“i nossi”) e gli altri le persone del paese, della comunità?
«Se il cristianesimo è un sistema di concetti, nobilissimi quanto si vuole, non mi interessa proprio», scrive Cettina Militello, una brava teologa italiana. Non si può ricusare di prestare attenzione all’uomo, alle sue decisioni concrete, problematiche e gravi, proprie della nostra cultura e della sua crisi, se si accetta di vivere la Chiesa come comunione. Che facciamo: dimentichiamo i poveri, gli extracomunitari, dimentichiamo le vittime, dimentichiamo quelli che ci disturbano? Inventiamo una cristianità metafisica dove c’è spazio solo per quelli che pensano Dio in termini di verità e lasciamo fuori tutti gli altri dati? Occorre renderci conto che non ci si salva da soli, ma che è questo mondo, è questa unità che bisogna condurre a coscienza e trasparenza d’essere a immagine di Dio! È mai possibile stabilire, da credenti, una dialettica tra Dio e il prossimo, pensando che si possa raggiungere il primo trascurando il secondo? Forse non è più parola di Dio quella trasmessaci dalla 1 Giovanni 4, 20-21: “Se uno dicesse: ‘Io amo Dio’ e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comanda-mento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello”. Bernanos ci ricorda che l’unica domanda che, alla fine, ci verrà rivolta sarà questa: “Avevo fame…
e Tu?”».

– La Chiesa come «missione». Si tratta qui di comprendere che tutta la comunità cristiana è depositaria del «messaggio» evangelico, anzitutto per viverlo al suo interno e per testimoniarlo alla gente. Tutta la Chiesa è, perciò, paese di missione, cioè è chiamata alla conversione, a una vita secondo il Vangelo. Tutti i cristiani vengono invitati a passare dalla logica della delega a quella del coinvolgimento, da un impegno portato avanti dalla Chiesa universale a un impegno che chiama in casa anzitutto le comunità locali, dal metodo dell’esportazione a quello del dialogo e dell’inculturazione.
La Chiesa è presentata come salvezza di tutti, senza identificarsi esternamente con tutti. Essa è la schiera dei pochi tramite i quali Dio vuole salvare i molti. La Chiesa non è tutto, ma esiste per tutti: è rappresentante dell’umanità davanti a Dio nella fede, nella preghiera, nella speranza per tutti, e anzi nell’amore per tutti.
Nell’attuale contesto plurietnico e multireligioso, con una Chiesa numericamente minoritaria, fa bene risentire l’afflato missionario: «La Chiesa è mistero di comunione per la missione». Quest’ultima non è mai un’avventura individuale, ma una vicenda comunitaria. Si è missionari nella e per la comunità. La comunione è la prima testimonianza e la prima forma di missione. La Chiesa è missionaria per identità: se c’è la Chiesa c’è la missione e viceversa. La missionarietà non è un dato aggiunto, anche se importante: essa è invece costitutivo della sua essenza ed esistenza. Una Chiesa non missionaria è una contraddizione in termini. La Chiesa nella missione è serva della Trinità, la terza mano in possesso del Padre, da cui tutto parte e a cui tutto ritorna. La missione della Chiesa attualizza le due missioni trinitarie, quella del Figlio e quella dello Spirito.
Di qui la riscoperta del primo annuncio, reso più rilevante dal contesto di prevalente indifferenza; la nuova evangelizzazione; il valore imprescindibile della testimonianza gioiosa; l’incidenza della comunicazione di esperienze più che di soli contenuti astratti; la salvaguardia della propria identità cristiana e l’apertura dialogica agli altri (religioni, culture, ecc.), l’animazione della società postmoderna.
Davvero il Concilio apre scenari poco noti, addirittura sconosciuti, ignorati, della realtà ecclesiale. Abituati a guardare alla Chiesa soprattutto come istituzione e a «esaltarne», per così dire, l’aspetto giuridico, mondano, sullo schema del Concilio di Trento e di san Roberto Bellarmino, ci è difficile gustare la complessità della sua «natura» trinitaria, incarnata nella storia.

3. Ed è qui che si apre uno squarcio, riguardante TRE TENTAZIONI POSSIBILI per il corpo ecclesiale.

La Chiesa che voglia costruire futuro (speranza) si ritrova però di fronte a tre tentazioni/minacce non semplici da comprendere.

– La prima minaccia è il cristianesimo come religione. All’uomo di oggi che chiede religione (cioè una rete onnicomprensiva di domande-risposte cui affidare la propria insicurezza), non un Dio personale, non Gesù Cristo, la tentazione è quella di far apparire il Cristianesimo come religione, mentre esso deve restare attaccato all’unica promessa cristiana che non può passare all’uomo salvatore (adulto, nel linguaggio di Bonhöffer), cioè la risurrezione. L’alterità, la differenza, il cristianesimo la esprime là dove annuncia la risurrezione di Cristo e quindi nostra; la vittoria della vita sulla morte.
«Se il cristianesimo continua ad avere questa speranza allora il cristianesimo svolgerà davvero la sua funzione e sarà necessario come il lievito nella pasta, come il sale della terra perché in tutti gli uomini è presente quell’ansia di eternità di cui parla Qohelet. Per quell’ansia la fede cristiana della risurrezione è una promessa che solo Dio fa, e che può avere senso» (E. Bianchi).
– La seconda minaccia è il cristianesimo come etica. «Non stempe-riamo il cristianesimo in etica. Eppure quel che succede è che i giovani sanno tutto dell’etica cristiana, poi non sanno chi è Gesù Cristo. Non osservano l’etica cristiana, ma sanno cosa il cristianesimo, la Chiesa chiede nelle relazioni prematrimoniali, nella sessualità, nella vita; lo sanno perché il martellare di questo annuncio è il martellare che ha toccato tutte le orecchie, anche se poi non lo osservano.
Ma il problema serio è che il cristianesimo trascende l’etica. La società chiede che noi gli diamo un’anima supplementare visto che si sono frantumate le ideologie e le morali (laiche). E allora le componenti dell’attuale società non cristiana applaudono a questo tipo di Chiesa.
Questa Chiesa serve. Ma serve per annunciare la fede o serve come cemento in una società malata, come intonaco a un muro cadente, usando l’espressione di Ezechiele? Perché intonacare muri cadenti? Guai se il cristianesimo si esprime solo in etica, e se non si esprime nel dare la vita per gli altri, perché se c’è qualcosa che unisce Cristo, gli uomini e i credenti insieme, è quella formula di Bonhöffer: Gesù uomo per gli altri.
Il cristiano è colui che dà la vita per gli altri; è colui che trova una ragione per morire, dunque anche una ragione per vivere. Ma guai se passasse il progetto, per cui il cristianesimo si fa semplicemente portavoce di un’etica mondiale. Il cristianesimo sarebbe ridotto a filantropia e a quel punto abbisognerebbe di maestri spirituali, in concorrenza con altri maestri spirituali di altre vie religiose, che sono sovente raffinate, più delle nostre vie occidentali» (E. Bianchi).

– La terza minaccia alla fede cristiana viene dall’attuale organizzazione delle Chiese. Ormai è “quasi” scomparsa la contestazione. Molti di noi si ricordano che cos’è stato il Post-concilio. Ma se è scomparsa la contestazione, non si è allontanata la possibilità di una crisi all’interno della Chiesa: una crisi di implosione.
«Se le Chiese continuano ad organizzare tutto intorno a se stesse e non a Cristo, se continuano ad ecclesificare la fede come stanno facendo tutte, se continuano in questa forma in cui l’esaltazione della Chiesa è un’esaltazione che contagia addirittura i non cristiani e i non credenti, io mi chiedo se questo non rappresenterà un’altra minaccia alla fede cristiana» (E. Bianchi).
«Noi seguitiamo a vivere la nostra vita come se i valori di riferimento fossero gli stessi della societas christiana delle generazioni passate. Seguitiamo ad autocelebrarci, a fare delle nostre liturgie spettacoli. Seguitiamo a crogiolarci in bagni di folla che, pur cospicui, sono stati-sticamente irrilevanti. Seguitiamo a pensare a improbabili mutazioni di tendenza solo perché c’è un lievissimo incremento delle vocazioni al ministero o alla vita consacrata. Seguitiamo a pensarci in termini di ambienti rassicuranti quali parrocchie, associazioni, movimenti, magari investendo su questi ultimi, vita la loro carica d’efficienza presenzialista. Siamo paghi delle nostre chiese in apparenza, della nostra brava gente il cui livello d’informazione religiosa non oltrepassa l’asilo infantile. Non ci rendiamo conto che rischiamo di restare fuori dal corso della storia» (Cettina Militello).
Dov’è la Chiesa serva dell’umanità: la “Chiesa col grembiule” come diceva il caro e compianto vescovo Tonino Bello?
La tentazione della Chiesa cattolica di organizzare tutto intorno a se stessa si traduce, ulteriormente, nelle tentazioni di una “chiesa clericale”, dell’«uniformità teologica» e della «omologazione culturale», che sono autentici ostacoli al dialogo, al confronto, all’umile ascolto dell’altro.

4. UNA CHIESA ATTENTA AI BISOGNI DELLA GENTE

Alla fine della nostra ricerca sulla Chiesa, vale la pena, allora, di porci a bruciapelo la domanda: vale la pena di «viverci dentro»? Che cosa vuol dire tutto questo per noi? Come si può costruire una comunità attenta ai «bisogni della gente»?

a) Prima di tutto occorre avere «il senso della comunità», che è il punto di vista, l’angolo di visuale fondamentale anche per amare la vita, la propria e quella degli altri. Lì dove si predica di farsi «i fatti propri» non può nascere condivisione, solidarietà, dialogo. Lì dove si predica una salvezza solo individuale (anche nella Chiesa), non nasce il sentimento di una storia comunitaria, di un intreccio tra la vita di uno con la vita dell’altro. Lì dove si grida il «si salvi chi può», non può fiorire il senso del comune destino che ci lega e che ci salva, perché, di solito, a salvarsi sono solo quelli che hanno le risorse più grandi, sia economiche, sia culturali e, persino, spirituali. In un mondo come il nostro, dove la fragilità e la paura di vivere diventano sempre più grandi e diffusi, si possono salvare solo i «ben forniti, coloro che non vengono sfiorati da quel «malessere» invadente che significa dubbio, perplessità a scegliere, disorientamento, malattia, disperazione, povertà, miseria, distruzione dei desideri, delle aspettative, dei progetti coltivati e perseguiti. In un mondo come il nostro dove solo «i furbi» e «i forti» sembrano trovare vie d’uscita al disorientamento generale, l’essere discepoli del Crocifisso, cioè di colui che non ha salvato se stesso, non ha più niente da dire alla comunità cristiana e ai cercatori di Dio? Costoro sono invitati, paradossalmente, a non vedere il futuro dell’uomo nel progresso, bensì nelle sue vittime. I poveri, i sofferenti, gli «erranti», coloro che non hanno un posto in questo mondo, questi sono l’utopia di Dio nel mondo. Questa può essere detta l’utopia cristiana… un’utopia ben radicata nella fatica di gestire la quotidianità, nei problemi complessi di ogni giorno, nella delusione di vivere ancora pienamente un «già» e «non-ancora», che ci svela, ma contemporaneamente ci vela, la pienezza dell’eternità.

b) Poi occorre sensibilità per «i bisogni» della gente. Anzitutto occorre ricordare, qui, l’importanza (il primato, persino) che hanno «i bisogni» nella sensibilità dell’uomo di oggi. Ciò che è individuale, privato, mio, sembra più importante di ciò che è universale, pubblico, di tutti. Ciascuno sembra richiedere per sé il primato dell’attenzione, del rispetto, della tenerezza. Ciò rende più difficile l’individuazione dei bisogni della gente, perché occorre attenzione alle singole persone, alle storie private, alle richieste individuali, alle grida nascoste e sommesse di uomini e donne, che vivono spesso da soli la loro esperienza umana, buona o triste che sia.
Ciò che si vede in superficie, ciò che si mostra agli occhi di tutti è, spesso, solo una piccolissima parte di una pena, di un dolore, di un bisogno che stenta ad essere compreso in tutta la sua gravità ed estensione. Sotto un certo aspetto la gente di oggi è più restìa a sbandierare in piazza il proprio bisogno e la conseguente richiesta di aiuto, presa com’è da una sorta di ritegno, di pudore che nasconde l’esperienza che si vive in un determinato momento. Inoltre si deve tenere presente che sono «cambiati» anche i bisogni (almeno nel nostro ambiente) che, da materiali in senso stretto, sono diventati sempre di più «spirituali», cioè legati, si può dire, alla fatica di vivere, di scegliere, di far fronte alla vita. La povertà, per così dire, è oggi soprattutto del cuore. La gente chiede tenerezza, comprensione, coraggio, «compassione», cioè «compagnia» nella prova, nel cammino quotidiano. È questa «la vita» che merita di essere presa in considerazione, accanto, certo, alla promozione della vita, lì dove essa può venire attaccata, disprezzata, avvilita e, persino, negata.
Come non sognare una comunità (da singoli non si fa nulla!), che sa testimoniare con generosità il suo attaccamento alla vita, perché offre rapporti di comprensione e tenerezza tra i suoi membri, perché incoraggia, perché sa fare compagnia, con discrezione e semplicità, a coloro che essa scopre in un momento di debolezza, di sconforto, di mancanza di prospettive, di fallimento del disegno della propria vita o, anche, in una mancanza di pane, vestito, casa?
Possiamo davvero pregare: «Signore, che io non dimentichi i bisogni degli altri. Conservami nel tuo amore, come vuoi che tutti dimorino nel mio».