UN CAMMINO ALL’INTERNO DELLA MESSA ATTRAVERSO UN PERCORSO STORICO, BIBLICO E TEOLOGICO DEI VARI MOMENTI
Per meglio comprendere e celebrare l’Eucaristia e il ruolo specifico della comunità credente.
Antonio Lurgio
Appunti da incontri presso la canonica di Canova,
PARROCCHIA SAN PIO X
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“Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese un pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: .
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: .
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunziate la morte del Signore, finché egli venga”. (1Cor. 11, 23-26)

Rilettura e attualizzazione di alcuni testi da parte delle comunità delle origini.
Sacrificio e protesta profetica
Am. 5,21-25; Sl. 50,7-15; Sl. 40,7-9; Sl. 69,31

Dt. 16,16: “Nessuno osi presentarsi al santuario del Signore a Mani vuote”.
Tre volte occorreva presentarsi al santuario e portare due offerte, una per Dio e l’altra per la propria famiglia (doveva essere mangiata). Visto che Dio non mangiava, mangiavano i sacerdoti e i leviti (ogni giorno al tempio operavano circa 300 sacerdoti e 400 leviti).

Rilettura della croce di Gesù e del sacrificio del credente-comunità… e del culto:
“Vi esorto fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vero culto che gli dovete. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. (Rom. 12,1-2).

Il vero culto=logiken latreian lo possiamo anche interpretare con “culto della parola/evangelizzare”.
Paolo contrappone, in questo testo, al culto giudaico, il culto cristiano nella scia dei profeti.
I cristiani devono offrire il loro corpo (non quello degli animali) in sacrificio vivente (invece di animali morti). Il vero culto consiste nell’offrire il corpo e la vita.

Cfr 1Pt. 2,5 Il cristiano dona la propria vita, non la sua anima.

Rom. 1, 9: “Mi è testimone Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo, che io continuamente faccio memoria di voi…”. Culto=latreuo

Paolo non sta dicendo che l’annuncio del vangelo lo ha reso sacerdote o che in quanto sacerdote lo può annunziare, ma che l’annunzio del vangelo si sostituisce al culto del tempio.
“Latreuo” nella LXX è applicato al culto giudaico del tempio.

Rom. 15,16: “… per essere ministro di Cristo Gesù tra i pagani, adempiendo il sacro ministero di annunciare il vangelo di Dio perché i pagani divengano un’offerta gradita, santificata dallo Spirito santo”.
Il santo sacrificio consiste nell’annunciare il vangelo. Il sacrificio sono i popoli conquistati al vangelo di cristo.

Scontro fra giudeo-cristiani e etnico-cristiani. Concilio di Gerusalemme. Il mondo dei cristiani ellenisti ha portato il messaggio di Gesù in ambito universale togliendo ogni tentazione di sacrificio, circoncisione, prescrizioni su cibi…

Il culto cristiano si svolge in luogo profano e non sacro; non c’è traccia di sacrifici né di sacerdoti. (Cfr. Il culto sinagogale è quello della parola, ma nella sinagoga non esiste la cena che nel culto cristiano è elemento fondamentale).
La cena non è fatta solo in memoria di Gesù, ma con Gesù. E’ lui che la presiede.

Atti 10, 41 legame profondo fra la resurrezione di Gesù e la cena con lui. (At. 2, 46 preghiera al tempio e frazione del pane in casa).

Lettera agli Ebrei. Il culto cristiano si caratterizza per l’abbandono del culto sacrificale e del relativo sacerdozio a favore dell’annuncio della parola/Vangelo, dall’offerta della propria vita e dalla cena celebrata in casa, con la comunità e il Signore risorto.
Gesù donando la sua vita ha realizzato il progetto di Dio: è cessata l’era del sacrificio e del sacerdozio. Il culto consiste nell’ascoltare la parola. Non si parla di eucaristia.
Nelle comunità degli inizi la struttura della celebrazione era molto semplice.
Giustino (muore intorno al 165). Prima Apologia composta a Roma tra il 148-161.

Capitolo 65: “Dopo di aver lavato (con il battesimo) chi crede e ha aderito, lo conduciamo nell’adunanza dei fratelli, come noi ci chiamiamo, e facciamo in comune preghiere per noi, per l’illuminato (cioè il neobattezzato) e per tutti gli altri, ovunque siano, allo scopo di meritare, dopo avere appresa la verità, di riuscire buoni nelle opere della vita, osservanti dei precetti e conseguire così la salvezza eterna.
Cessate le preghiere, ci abbracciamo con scambievole bacio. Quindi vien recato al preposto dei fratelli un pane, una coppa d’acqua e una coppa di vino temperato. Egli li prende e loda e glorifica il Padre di tutti nel nome del Figlio e dello Spirito santo. Quindi fa un lungo ringraziamento, per averci fatti meritevoli di questi doni.
Terminate le preghiere e il ringraziamento eucaristico, tutto il popolo presente acclama: Amen!”

Capitolo 66: “Questo alimento noi lo chiamiamo Eucaristia, e non è dato parteciparne se non a chi crede veri gli insegnamenti nostri, ha ricevuto il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione e vive secondo le norme di Cristo. Poiché noi non lo prendiamo come un pane comune e una bevanda comune, ma come Gesù Cristo salvatore nostro, incarnatosi in virtù del Verbo di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così ilo nutrimento, consacrato con la preghiera di ringraziamento formata dalle parole di Cristo e di cui si nutrono per assimilazione il sangue e le carni nostre, è, secondo la nostra dottrina, carne e sangue di Gesù incarnato.
Gli Apostoli difatti, nelle loro Memorie dette Evangeli, tramandarono che Gesù Cristo lasciò loro questo comando: preso un pane e rese grazie Egli disse loro: Fate ciò in memoria di me; questo è il mio corpo. E preso similmente il calice e rese grazie, disse: Questo è il mio sangue; e a loro soli li offerse”.
Capitolo 67: “Nel giorno chiamato del Sole (=domenica), tanto quelli che abitano in città come quelli che abitano in campagna si adunano nello stesso luogo e si fa la lettura delle Memorie degli Apostoli e degli scritti dei Profeti sin che il tempo lo permette. Quando il lettore ha terminato, il preposto (=proestos) tiene un discorso, per ammonire ed esortare all’imitazione di questi buoni esempi. Poi tutti insieme ci leviamo e innalziamo preghiere; indi, cessate le preci, si reca pane, vino e acqua; il capo della comunità nella stessa maniera eleva preghiere e ringraziamenti con tutte le sue forze e il popolo acclama dicendo: Amen!
Quindi si fa a ciascuno la distribuzione e la spartizione degli alimenti consacrati e se ne manda, per mezzo dei diaconi, anche a i non presenti.
I facoltosi e i volenterosi spontaneamente danno ciò che vogliono: ciò che si raccoglie è consegnato al capo, il quale soccorre gli orfani, le vedove, i bisognosi per malattie o altro, i carcerati e gli ospiti sopravvenuti: egli soccorre, in una parola, chiunque si trovi in bisogno”.

In sintesi, la struttura della celebrazione primitiva si presentava così: lettura del profeta-delle memorie degli apostoli (Vangeli)-omelia-preghiera universale-bacio di pace.

Didaché (verso la fine del primo secolo – una specie di catechismo delle origini di ambiente giudeo-cristiano).

Didaché XIV (celebrazione domenicale): “Ogni domenica, giorno del Signore, riuniti, spezzate il pane e rendete le grazie, dopo che avrete confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro. Chiunque ha qualche lite con il suo compagno, non si riunisca a voi prima che si siano riconciliati, affinché non sia profanato il vostro sacrificio”.

Il sacrificio non riguarda l’eucaristia. Il contesto è quello della confessione e del perdono. Prima del culto occorre confessare i peccati.

Didaché 9 (preghiera eucaristica prima della comunione): “Quanto al rendimento di grazie, rendete grazie così:
– Anzitutto per il calice: Ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vite di David tuo servitore, che a noi rivelasti per mezzo di Gesù tuo servitore. A Te la gloria nei secoli!
– Poi per il pane spezzato: Ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la vita e per la conoscenza, che a noi rivelasti per mezzo di Gesù tuo Servitore. A Te la gloria nei secoli!
– Come questo pane spezzato era prima sparso qua e là su per i colli e, raccolto, divenne una cosa sola, così si raccolga la tua Chiesa dai confini della terra nel tuo regno; poiché tua è la gloria e la potenza, per Gesù Cristo nei secoli!
– Nessuno mangi né beva della vostra Eucaristia, se non i battezzati nel nome del Signore, poiché a proposito di questo il Signore disse: Non date la cosa santa ai cani”.

Didaché 10 (preghiera eucaristica dopo la comunione): “Dopo di esservi saziati, rendete grazie così:
– Rendiamo grazie a te, Padre santo, per il tuo santo nome, che hai fatto abitare nei nostri cuori, e per la conoscenza, la fede e l’immortalità, che rivelasti a noi per mezzo di Gesù tuo Servitore. A te la gloria nei secoli!
– Tu, Signore onnipotente, ogni cosa creasti a gloria del tuo nome;cibo e bevanda donasti agli uomini in godimento, affinché essi ti rendano grazie; ma a noi elargisti un cibo e una bevanda spirituali e la vita eterna per mezzo del tuo Servitore.
– Anzitutto ti ringraziamo, perché sei potente. A Te la gloria nei secoli!
– Ricordati, Signore, della tua Chiesa, liberala da ogni male e rendila perfetta nel tuo amore; santificala e raccoglila insieme dai quattro venti nel tuo regno, che per lei preparasti. Poiché tua è la potenza e la gloria nei secoli.
– Venga la grazia e passi questo mondo! Osanna al Dio di David! Chi è santo s’appressi; chi non lo è si penta. Maran athà. Così sia.
– Ai profeti invece permettete di rendere grazie a loro piacimento”.

Didaché XV: “Eleggetevi dunque vescovi e diaconi degni del Signore, uomini mansueti, non bramosi del denaro, veritieri e provati; poiché anch’essi esercitano per voi il ministero dei profeti e dei dottori”.

Profeti e dottori (inizialmente itineranti e poi man mano sedentari) sono i primi responsabili delle comunità.
Vescovi e diaconi sono eletti dalla comunità e residenti in essa e provvedono al proprio mantenimento.
La Didaché non conosce una struttura gerarchica, l’istanza ultima è la comunità.

Mentre le prime denominazioni di “cena del Signore” e di “spezzamento del pane” ponevano la celebrazione direttamente sul piano gestuale relativo a ciò che Gesù aveva fatto, la Didaché, dando al rito il nome di “eucaristia” (=preghiera di ringraziamento), si rifà al momento orale, di preghiera che Gesù aveva detto nel consegnare pane e vino ai discepoli.

Abbiamo qui il passaggio da un celebrazione della cena a una celebrazione dell’eucaristia. L’eucaristia non sarà solo il rito sul piano formale, ma anche nel suo contenuto, cioè pane e vino consacrati.

Nel testo di Didaché manca il riferimento all’istituzione da parte di Gesù, al suo corpo, al suo sangue, alla sua morte. Nello stesso tempo è difficile non ammettere che non sia un invito alla eucaristia.

Forse l’eucaristia è un pasto vero e proprio e tale pasto, grazie a queste preghiere pronunciate, diventa un’eucaristia.

Come si svolgeva e chi presiedeva il pasto? E’ difficile dirlo. La Didaché parla di un culto costituito essenzialmente da un pasto, celebrato dalla comunità.
Liturgia sinagogale ebraica
La proclamazione della parola nell’assemblea era il segno della presenza di Dio in mezzo al popolo e strumento di dialogo fra il Signore e il suo popolo.
Con l’assenza del tempio e dei relativi sacrifici, la sinagoga contribuirà a spiritualizzare il culto di Israele:

“Offriamo a Dio, al posto di tori, l’omaggio delle nostre labbra” (Os. 14, 3).

Prendiamo in considerazione la liturgia sinagogale del sabato mattina che si esprimeva in sei elementi:

1 – Shemà: due formule di benedizione seguita dalla recitazione di Dt. 6, 4-9; 11, 13-21;
Num. 15, 37-41 con benedizione finale.

2 – Due letture:

a) una dalla Torah che era divisa in 164 sezioni (inizialmente la sezione era unica e terminava a discrezione di chi leggeva);

b) una dai Profeti (compresi Giosuè, Giudici, Samuele, Re).

I brani di Luca 4, 16 e Atti 13, 14-15 testimoniano questa realtà.

3 – Midrash: spiegazione di quanto proclamato con applicazione spirituale per l’assemblea.

Cfr. Lc. 4, 16 Gesù prende il rotolo nel momento della seconda lettura, quella di Isaia 61 e dopo aver letto e riconsegnato il rotolo all’accolito, fa il midrash.

4 – Canto salmi: 112; 113; 114; 115; 116; 135; Hallel.

Questi erano cantati in modo responsoriale e il popolo dopo ogni versetto proclamato dal lettore rispondeva: Alleluia.

Seguiva lo Shemoneh Esreh (in seguito fu spostato a dopo lo Shemà) che assomiglia alle preghiere di intercessione delle celebrazioni cristiane.
E’ una preghiera fatta di 18 intenzioni: grazia-intercessione.

Questa preghiera chiamata anche Tephillà era recitata da ogni israelita tre volte al giorno.

Il presidente della celebrazione la recitava e il popolo, in piedi e orientato verso Gerusalemme, rispondeva: “Sii benedetto, Signore”.

5 – Benedizione data con la mano destra alzata utilizzando la benedizione di Aronne:

“Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore volga su di te il suo volto e ti conceda pace” (Num. 6, 24-26).

Tutti rispondevano: “Amen”.

6 – A conclusione c’era la colletta per i poveri.

C’è molta assonanza fra la celebrazione sinagogale e quella della “fractio panis”.

Ma alla fine del I secolo d.C. la separazione fra il sabato giudaico e la domenica si è ormai consumata e la domenica diventa il segno per eccellenza del cristiano.
La cena del Signore nei primi tre secoli
Nei primi tre secoli il luogo della cena del Signore è nelle case private sia per il piccolo numero di fedeli che per timore di forme persecutorie

Quindi il “primo altare” è stata la mensa di famiglia (cfr. la celebrazione del sabato ebraico che iniziava il venerdì sera in casa e il primo gesto era affidato alla donna) e il primo “presidente” era il padrone di casa.

La fisionomia della celebrazione ha carattere familiare-conviviale, poi per gli abusi che venivano a verificarsi (cfr. 1Cor. 11) si arriva alla distinzione del momento conviviale della cena fraterna dalla “fractio panis”.
Il tratto comunitario accentua la “cena del Signore” più che l’aspetto sacrificale.

Quindi né altari-templi indicano il luogo della riunione comunitaria cristiana.

Occorre ricordare che i cristiani non entrano in un mondo “ateo” secondo la nostra odierna concezione, ma in un mondo profondamente religioso fatto di riti-templi-sacerdoti-sacrifici…

Il cristianesimo, al suo apparire in questo mondo, fu etichettato come “exitiabilis superstitio (=superstizione nociva)”, cioè una religione strana, non vera, perché non aveva templi-riti-sacerdoti-altari-sacrifici…

Il termine superstizione assunse significato dispregiativo a partire dal II sec. d.C. in contrapposizione a religio.
Religio implica rispetto severo del culto dovuto.
Superstitio indica il rapporto sbagliato con gli dei.
Il rapporto con il culto era determinante per stabilire se una religione corrispondesse o meno ai requisiti dello Stato romano. I cristiani, in ciò, furono accusati di essere atei, cioè di non avere un dio…
Tertulliano ai cristiani (Apologetico 10,1): “Non onorate gli dei e non offrite sacrifici all’imperatore”.

Giustino, rivolgendosi ai pagani, afferma:

“Noi non onoriamo con molteplici sacrifici e corone di fiori quelli che sono stati costruiti da uomini, sono stati messi nei templi e sono stati chiamati dei. Sappiamo infatti che queste cose non hanno un’anima e sono morte e non hanno l’aspetto di Dio (…) Noi abbiamo anche ricevuto l’insegnamento secondo cui Dio non ha bisogno di nessuna offerta sacrificale materiale da parte degli uomini, infatti vediamo che egli stesso offre tutto. Abbiamo imparato e crediamo fermamente che egli accoglie nella sua grazia solo quelli che imitano la bontà che è in lui: temperanza, giustizia, amore per il prossimo e tutto ciò che è proprio di Dio” (Apologetico, 9).

Minucio Felice (200 circa), rivolgendosi al pagano Cecilio favorevole al tradizionale culto degli dei che ha reso grande Roma, dice:

“Credete che noi teniamo nascosto l’oggetto della nostra adorazione se non abbiamo templi e altari? Quale immagine di Dio dovrei escogitare quando in fondo l’essere umano stesso è immagine di Dio? Quale tempio dovrei costruirgli, se questo intero mondo, opera delle sue mani, non è capace di contenerlo? (…) Non dovremmo piuttosto costruirgli un santuario nella nostra anima? (…) E dovrei offrire in sacrificio a Dio animali grandi e piccoli che egli stesso ha creato affinché fossero utili a me? Ma così facendo gli restituirei i suoi doni! Questo sarebbe irriconoscente, mentre un cuore buoni, una mente pura e una coscienza pulita sono sacrifici graditi.
Chi esercita dunque l’integrità, implora la misericordia di Dio; chi ama la giustizia, porta a Dio delle offerte; chi si astiene dall’inganno, riconcilia Dio; chi salva un essere umano dal pericolo, macella il miglior animale sacrificale. Questi sono i nostri sacrifici, questo è culto” (Ottavio, XXXII, 1-3).

Atenagora filosofo (177) invia all’imperatore Marco Aurelio e suo figlio Comodo una richiesta di grazia per i cristiani:

“La maggior parte di quelli che scagliano contro di noi l’accusa di ateismo non ha alcuna idea dell’essenza di Dio (…) In seguito a ciò essi misurano la devozione solo in base ai sacrifici e quindi ci muovono due accuse: che noi non sacrifichiamo e che non crediamo agli stessi dei in cui crede lo Stato.
Osserviamo, sommo signore, queste due accuse e innanzitutto la prima, che noi non sacrifichiamo. Il Facitore e il Padre di questo cosmo non ha bisogno né di sangue né di odore di grasso e nemmeno del profumo dei fiori e dei profumi bruciati perché egli stesso è il Dio profumo più perfetto e non manca di nulla, né in sé, né dall’esterno (…) Se dunque noi seguiamo Dio (…) e alziamo a lui le mani sante, come potrebbe ancora avere bisogno di una ecatombe?” (Supplica, 13).

Sulla celebrazione eucaristica in quanto tale non esiste nella chiesa delle origini (quella dei martiri) una riflessione articolata e approfondita, ma le comunità vi leggono un rapporto fondamentale con Cristo, Servo-Signore-Salvatore.

La presenza di Gesù, la sua carne e il suo sangue, è scontata e ciò richiama sia l’Incarnazione che la Risurrezione finale.

Inoltre il pane e il vino sono il nutrimento per l’ora della prova (non dimentichiamoci che siamo nella chiesa dei martiri).
Realismo e simbolismo convivono nella celebrazione e si crea una relazione fra l’offerta dei cristiani popolo sacerdotale e il sacrificio di Cristo sulla croce.

L’eucaristia richiama all’unità col vescovo (Ignazio di Antiochia); la questione della riammissione dei lapsi al banchetto dell’unità (Cipriano).

Tutto ciò valorizza il ruolo centrale dell’eucaristia nella comunità cristiana.
Dalla Traditio Apostolica di Ippolito (Roma III secolo):
“La domenica, il vescovo distribuisca, se è possibile, di sua propria mano la comunione a tutto il popolo, mentre i diaconi e anche i presbiteri faranno la frazione del pane. Il diacono, presentando l’eucaristia al presbitero, gli ponga il piatto e il presbitero la prenda e la distribuisca di sua mano al popolo” (21).

“Tutti i fedeli abbiano cura di prendere l’eucaristia prima che mangino qualunque altro cibo (..) e si faccia attenzione che non ne mangi chi non è cristiano (…) perché è il Corpo di Cristo, è dato per essere mangiato dai fedeli e non per essere disprezzato. Anche il calice benedetto nel nome del Signore viene ricevuto come sangue di Cristo. Fate quindi attenzione a non versarlo” (36-37).

Ma nasce anche qualche problema. Con Cipriano inizia un percorso di individualizzazione della salvezza, per cui ogni celebrazione è vista come un nuovo sacrificio di Cristo.
In occidente sarà questo il pericolo quando ci si incontrerà con il mondo germanico.

In alcuni autori cristiani delle origini si fa strada una comprensione sacrificale dell’eucaristia.

Giustino nel suo “Dialogo con Trifone” al capitolo 41 interpreta l’eucaristia come vero sacrificio:
la celebrazione viene presieduta da un sovrintendente, manca traccia del racconto della istituzione e la formula del cap. 66 proviene probabilmente dalla chiesa romana. Per Giustino i doni eucaristici sono il corpo e il sangue del Signore.

Il brano del profeta Malachia 1,10-12 viene utilizzato da alcuni teologi degli inizi come chiave di lettura che porterà poi l’eucaristia ad essere considerata un sacrifico nel percorso teologico e liturgico successivo.

I cristiani sanno che ciò che mangiano e devono nel loro rito “non è pane e bevanda comune…; è stato infatti insegnato loro che, dopo che sul pane e sul vino è stata detta la eucaristia, preghiera che viene da Gesù, il pane è carne e il vino è sangue di Cristo” (Giustino).

Ireneo (II-III sec.): “Il pane che viene dalla terra, ricevuta l’invocazione di Dio non è più pane comune ma è eucaristia, costituita di due elementi uno terreno e l’altro celeste” (Adversus haereses).

Ireneo (A. H.): “Cristo prese il pane…e rese grazie dicendo: Questo è il mio corpo. Similmente confessò che il calice era il suo sangue, e insegnò l’offerta del Nuovo Testamento, che la Chiesa, ricevutala dagli apostoli, offre a Dio in tutto il mondo”.

L’eucaristia è intesa molto presto come memoriale della morte di Gesù, ma altra cosa è dichiarare che l’eucaristia sia stata compresa come un sacrificio, nella concettualizzazione che ne abbiamo noi oggi, nei primi anni.

La liturgia delle comunità cristiane ha sviluppato molto presto il legame fra eucaristia e morte di Gesù. La morte di Gesù, accaduta nel passato, diviene presente per la comunità nella “memoria che se ne fa di lui” (1 Cor. 11,26).
La comunità si appropria del sacrificio di Gesù, il suo “sacrificio della vita” diviene il “sacrificio della comunità”.

La comunità primitiva era convinta che Dio non avesse bisogno di sacrifici e sull’esempio di Gesù rifiutava sia i sacrifici del tempio (scontro con il mondo giudaico) sia quelli pagani (scontro con il mondo romano).

Ciò però non impedì alla chiesa delle origini di collegare l’eucaristia un sacrificio concreto consistente in un’offerta materiale. (At. 4,34…. Doni ai poveri cfr. colletta per la chiesa di Gerusalemme Rom. 15,25-28).

1 Cor. 16,1… i credenti devono versare un contributo volontario durante il culto, la domenica.
La descrizione che ci ha lasciato Giustino mostra che l’offerta per le vedove, orfani, malati, bisognosi, prigionieri, stranieri, è elemento fisso della celebrazione eucaristica.

Ignazio di Antiochia (Filadelfiesi 4): “Preoccupatevi di attendere a una sola eucarestia. Una è la carne di nostro Signore Gesù Cristo e uno il calice nell’unità del suo sangue, uno è l’altare come uno solo il vescovo con il presbiterato e i diaconi, miei conservi”.

L’eucaristia pone il vescovo in posizione singolare. Vescovo ed eucaristia si fondono in unità. Egli è il garante dell’unità che è significata e realizzata dall’eucaristia.

All’inizio del III sec. la comprensione sacrificale dell’eucaristia è radicata. Per giungere a ciò ci vollero circa 100 anni.

Agli inizi, la cena degli amici con il Signore risorto viene reinterpretata e celebrata come memoria per ricordare la passione di Gesù e richiamarla alla mente.

A partire dal II sec. la comunità offre al Padre il suo Figlio sacrificato. Cristo diventa il sacrificio della chiesa e a ciò contribuì la volontà di l’accusa di ateismo da parte dello Stato romano.
Coloro che hanno maggiormente contribuito in questo processo teologico e liturgico sono: l’autore della 1° lettera di Clemente – Giustino – Ignazio – Cipriano.
Ignazio non sostiene il carattere sacrificale dell’eucaristia ma lo lascia intendere. Egli dice che desidera essere sacrificato a Dio finché c’è ancora un altare dei sacrifici, dando per scontato che la comunità si riunisca intorno a un simile altare.

Tertulliano (giurista cartaginese) conia il termine “sacramento dell’eucarestia”. Per lui presenza reale e il sacramento sono i tratti essenziali dell’eucaristia. Per lui, gli anziani che hanno dato buona prova di sé hanno il compito di presiedere l’eucaristia.

La comprensione eucaristica del III sec. è dominata dal tema dell’offerta del sacrificio di Cristo e non da quello della sua presenza.
Dove si offre un sacrificio non può non esserci un sacerdote.
Prima si sviluppa il concetto di un culto e di un particolare rito sacrificale cristiano, dopo sorge quello di un ministero e di uno stato sacerdotale. L’idea di un sacerdozio è successiva al concetto del sacrificio cultuale.

Cipriano (III sec.) : “Quando il Signore chiama suo corpo il pane, che risulta dalla raccolta di molti chicchi di grano, egli indica il nostro popolo, che egli portava radunato in se stesso”.
Questo convito sacro dell’eucaristia è ordinato a rendere intimamente effettiva e esteriormente visibile la realtà stessa della comunità cristiana: essere così uniti a Cristo da formare il suo corpo. Da qui, il non partecipare all’eucaristia significava allontanamento visibile dalla compagine del corpo di Cristo, di cui la comunione era segno e causa.

Importante la sua Lettera 63 (anno 253) dove l’eucaristia, detta sacrificium-passio-oblatio, viene intesa come memoria-commemoratio.

Per Cipriano l’eucaristia è la stessa passione di Cristo in presenza rituale-celebrativa, nel senso che la celebrazione è il sacramento della passione. Il memoriale, quindi, assume valore di realtà.

Il sacrifico di Cristo dà al convito sacro dell’eucaristia tutto il suo significato: “Essere tutti in Cristo un solo corpo, un solo Spirito, un solo sacrificio perenne gradito a Dio”.
Questa è la fede della Chiesa come si esprime nella celebrazione dell’eucaristia al termine del III secolo.
Breve Excursus
Comunità di Corinto
Sul finire del primo secolo nella comunità di Corinto scoppia una crisi. Alcuni presbiteri sono scacciati dal ministero e non possono esercitare funzioni ecclesiastiche. Forse si tratta di uno scontro fra il gruppo dei giovani contro gli anziani?
Roma tenta di risolvere il conflitto attraverso la “Prima lettera di Clemente” (potrebbe trattarsi del vescovo di Roma).

In tale lettera si rimprovera la comunità di Corinto (1, 1 e 3, 3). Sebbene l’autore conosca gli scritti del “Nuovo Testamento”, la Bibbia per lui è ancora l’Antico Testamento. Il cristianesimo appare in questo scritto come la religione dell’Antico Testamento svelata; la cristianità come il vero popolo di Dio; la Bibbia come il libro di sua esclusiva proprietà.

La Lettera si serve dei passi del profeta Geremia (60, 17; 44,4ss.) in cui si parla di vescovi e diaconi. Per riportare ordine nella chiesa di Corinto, l’autore dice che l’ordine è voluto da Dio perché tale Dio è quello dei regolamenti e si rifà alla struttura cultuale del tempio di Gerusalemme (40,5).
Per questa Lettera è l’A.T. la sacra Scrittura dalla quale attingere le indicazioni necessarie per la vita cristiana; per il sacerdozio; per i sacrifici.

Fu la crisi di Marcione che portò a considerare l’A.T. (interpretandolo in funzione di Cristo e quindi con ruolo tipologico) non più come la Bibbia ebraica di cui la Chiesa si era impossessata, ma come Bibbia cristiana.
Si ha così il travaso nel cristianesimo delle istituzioni ebraiche come il sacerdozio, i sacrifici…
Percorso storico teologico a partire da IV secolo
Celebrazione in Basilica
La pace per la Chiesa sopraggiunta nel IV secolo, offre la possibilità di organizzare il Catecumenato, le scuole teologiche e il fiorire delle liturgie.

La celebrazione si svolge in Basilica perché il numero dei fedeli è aumentato e non vi è più pericolo di persecuzioni.
La struttura architettonica comprende la cattedra del presidente, il semicerchio per il presbiterio e il semicerchio per i fedeli.

Tale struttura dà luogo a nuovi sentimenti di partecipazione. La liturgia è fortemente comunitaria e vi sono molteplici ruoli che manifestano la ricchezza della celebrazione e dei ministeri (diaconi, suddiaconi, lettori, accoliti, ostiari…).

Le preghiere del vescovo-presidente, sempre rivolte a Dio e concluse ricordando la mediazione di Cristo (“per Cristo nostro Signore”), usano un vocabolario plurale.
L’assemblea le fa proprie rispondendo: Amen.

Fino al V secolo la celebrazione inizia semplicemente con il saluto e le letture, ma ben presto si arricchisce di un rito di ingresso: canto di ingresso eseguito da cantori, un Kyrie titanico che coinvolge l’assemblea e la colletta del presidente; l’offertorio che poteva essere una processione all’altare oppure i chierici che passavano fra i fedeli a raccogliere il pane per l’eucaristia e per i poveri.

Spostamento del segno di pace a prima della comunione (cfr. Mt. 5, 24). Comunione al pane e vino con solennità.
L’attenzione è data più all’aspetto soteriologico che ontologico.
Tutti Padri concordano nella presenza reale, ma differiscono riguardo alla motivazione cristologia, anche se l’elemento di fondo è sempre soteriologico.

– Antiocheni: è la realtà del corpo nato da Maria e del sangue sparso in croce;
– Alessandrini: accentuazione della carne e sangue del Logos come mezzo per comunicare con lui spiritualmente.

Giustino (II sec.): “…non è pane e bevanda comune…è stato infatti insegnato loro che, dopo che sul pane e sul vino è stata detta la eucaristia, preghiera che viene da Cristo, il pane è carne e il vino è sangue di Cristo”.

Ireneo (III sec.): “Il pane che viene dalla terra, ricevuta l’invocazione di Dio, non è più pane comune ma è eucaristia, costituita di due elementi uno terreno e l’altro celeste”.

Giustino: “Il pane dell’eucaristia e il calice ugualmente dell’eucaristia sono i sacrifici che in ogni luogo vengono offerti…e sono i soli che Gesù Cristo ha insegnato a fare”.

Ireneo: “Cristo prese il pane…e rese grazie dicendo: Questo è il mio corpo. Similmente confessò che il calice era il suo sangue e insegnò l’offerta del N.T. che la chiesa, ricevutala dagli apostoli, offre a Dio in tutto il mondo”.

Cipriano: “Quando, radunati insieme ai fratelli, si offre il sacrifico con il sacerdote di Dio, le proprie preghiere non devono essere sciorinate al vento con voce incomposta e con rumorosa loquacità”.
Cipriano: un solo presbitero alla volta e non sempre lo stesso per prudenza, insieme al diacono, deve visitare i credenti in carcere e celebrare per loro. Fare memoria dei giorni di morte dei martiri e celebrare. Non si deve dare l’eucaristia a coloro che non sono in pace con la chiesa e non hanno fatto penitenza.

Cipriano: “E poiché in tutti i sacrifici noi facciamo la memoria della Passione di Cristo – è infatti la passione di Cristo che noi offriamo – noi non possiamo fare diversamente da come egli ha fatto”.

Cipriano: “Non è lecito rompere il comando del Signore in quello che riguarda il sacramento della sua passione e della nostra redenzione … Infatti se il Signore e Dio nostro Cristo Gesù in persona è il sommo sacerdote di Dio Padre, e se egli per primo offrì se stesso al Padre, e comandò di fare questo in sua memoria, allora soltanto il sacerdote funge da vicario di Cristo, quando imita quel che Cristo fece, e allora soltanto offre a Dio nella Chiesa un vero sacrificio in pieno senso, se è disposto a fare l’offerta, come l’ha vista fare da Cristo”.
L’eucaristia prende origine, allora, da quello che fece Gesù nell’ultima cena.
Nella Traditio, durante l’ordinazione del vescovo subito dopo l’invocazione dello Spirito si legge:

“I diaconi gli presentano l’offerta sulla quale egli, insieme con tutti i presbiteri, impone le mani, e facendo l’eucaristia dice:
Ti ringrazio, Dio, per il tuo diletto servo Gesù Cristo, il quale…nel compiere la tua volontà…stese le braccia nella passione…
Egli prima di darsi volontariamente alla sua passione…prendendo il pane, fece l’eucaristia a te e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che verrà spezzato per voi.
Allo stesso modo prese il calice dicendo: Questo è il mio sangue che viene sparso per voi. Quando fate questo, fatelo in mia memoria.
Noi, memori dunque della sua morte e risurrezione, ti offriamo il pane e il calice e ti rendiamo grazie…”.

L’eucaristia è diventata “memoriale” effettivo della “passione-morte-risurrezione” di Cristo. Il sacrificio di Cristo dà al “convito sacro” dell’eucaristia tutto il suo significato.

Messale romano, preghiera eucaristica III: “Essere tutti in Cristo un solo corpo, un solo Spirito, un solo sacrificio perenne gradito a Dio”.

Questo nucleo, a partire dal III sec., resterà nella celebrazione fino al IX sec.

Al di fuori della problematica soteriologia, nessuno dei Padri si pone il problema del modo della presenza.
Chi accetta con fede la realtà della chiesa è convinto che per opera dello Spirito santo il Logos unisce a sé il pane e il vino e li penetra così intensamente ch’essi perdono la sussistenza propria e vengono trasformati.

Tale trasformazione non è fine a se stessa, ma relativa alla comunità (attenzione più al soggetto che all’oggetto in sé). Eliminazione di ogni fissismo-fisicismo…

Teologia dell’immagine e del simbolo come mezzo di partecipazione reale: gli stessi elementi, dopo l’invocazione dello Spirito santo, diventano espressivi della donazione di Cristo alla sua comunità in un processo di “transimbolizzazione reale”.

Per i Padri è solo attraverso la fede e in una comunità di fede che si può cogliere il mistero eucaristico (Ambrogio).

Per Agostino l’eucaristia è la Chiesa in pienezza, il simbolo del corpo mistico universale, l’espressione dell’unità dei credenti.
V secolo:
– si introduce il canto del gloria prima della celebrazione eucaristica di Natale e solo in presenza del vescovo;

– si introduce il canto di ingresso (Introito) fatto da un salmo più antifona; il salmo era quasi sempre il 150 che è di lode e sposa la stessa idea dell’introduzione del Gloria.

Al tempo di S. Leone Magno (papa dal 29 settembre 440 al 10 novembre 461 santo per la chiesa cattolica e ortodossa) fu introdotta con probabilità la Colletta (elemento che dice il dinamismo creativo della Chiesa latina).

Fino a questo momento l’unica preghiera presente era la Preghiera universale (dopo l’ascolto della lettura e suscitata da essa).

V secolo papa Gelasio (papa dal 1 marzo 492 al 21 novembre 496) modificò la preghiera dei fedeli.
Fino ad allora la preghiera universale dei fedeli era simile a quella che proclamiamo oggi nella liturgia del Venerdì santo.

Papa Gelasio la modificò in forma di litania con l’invocazione Kyrie eleison – Christe eleison.

Tale preghiera in seguito fu spostata all’inizio della celebrazione, dopo l’ingresso.

A partire dal X secolo vengono introdotte le richieste di perdono (che si moltiplicheranno con il passare del tempo), proclamate all’inizio della celebrazione, durante l’ingresso e dopo lo stesso.

Nell’XI secolo viene introdotto il Credo, dopo l’omelia, ma solo per determinate circostanze.

Con la fine della patristica in Occidente, l’inizio dei movimenti dei popoli barbari e la mentalità bizantina, le cose iniziano a cambiare.
Bisanzio: l’aula terrestri diventa l’aula Dei.
La liturgia diventa immagine-riproposizione di quella del cielo: papa-vescovi-chierici ricevono onori prima dovuti a imperatori-magistrati.

A partire dal VI sec. il rito diventa solenne, con vesti appropriate (papa Celestino V non le conosceva nel 428); atteggiamenti di corte (genuflessioni al vescovo, bacio della mano e del piede, incenso, candelieri…).

Aspetto gerarchico: separazione fra clero e popolo che compromette il dato comunitario della cena favorendo quello sacrificale di competenza del clero.

L’altare diventa oggetto di venerazione: non è più solo la mensa, ma una costruzione elevata e collocata al posto della cattedra.

La liturgia romana, sotto la spinta monastica e imperiale carolingia (che vede nell’uniformità liturgica un prezioso elemento di compattezza politica), propone la diffusione dei “Sacramentari”.

In tali testi (cfr. i messali odierni) le preghiere venivano copiate per le varie chiese, tutte uguali, a scapito della ispirazione personale, con un crescere della mediocrità nella celebrazione.

La diversità della chiesa locale che si esprimeva bene nella celebrazione con una propria fisionomia, cede il posto alla omogeneità e omologazione celebrativa: tutte le comunità celebrano allo stesso modo, con gli stessi testi.

Dal VI sec. parte la musica vocale e i canti sono affidati alle “Scholae cantorum”.
Il popolo partecipa in modo passivo perché tutto il servizio è garantito dai chierici.
E’ iniziato il processo di clericalizzazione dell’eucaristia: eccessivo cerimonialismo dove tutto è previsto e al popolo resta solo il guardare e l’ascoltare.
L’ascolto, poi, diventa problematico a causa della lingua latina, incomprensibile alla maggioranza dei presenti, per cui si sviluppa una specie di disciplina nascosta per i fedeli che davanti a tutto ciò sperimentano qualcosa di fascinoso e tremendo.

Il pane e il calice consacrati non sono più dati in mano, ma ricevuti in ginocchio (atteggiamento da servi) e le specie vengono ridotte al minimo (=particole).

La comunione diventa sempre più rara a causa della prassi penitenziale molto rigida e di un abbassamento del fervore per una cristianizzazione superficiale dei popoli barbari.

Al posto della relazione di confidenza con Dio subentra una specie di “horror sacri” che porta a diverse professioni di indegnità (preghiere di accusa per umiliarsi e purificarsi durante la celebrazione da parte del sacerdote).

La preoccupazione principale è centrata sul singolo e la sua salvezza, al posto del “noi” nelle preghiere, e inizia il diffondersi delle messe private (dove il prete fa tutto da solo nella “sua” messa).

Gli unici momento comunitari rimangono: “Amen” e “Alleluia”.
Ritorniamo un attimo all’inizio delle comunità cristiane per ricordare che, alla fine del primo secolo, la celebrazione avveniva normalmente di domenica.

In un secondo momento, alla semplice celebrazione si aggiungono, nelle singole chiese, le preghiere per i defunti e per le varie necessità della vita (pioggia, malattia, guerra…).

In Didachè 8 si parla del digiuno del mercoledì e venerdì e nel secondo secolo tale digiuno era concluso con la celebrazione dell’eucaristia.
La chiesa di Roma e di Alessandria, ancora nel V sec., non celebrano l’eucaristia nei giorni di digiuno.

Nei primi tre-quattro secoli avviene una moltiplicazione delle celebrazioni dell’eucaristia che risponde alle particolari esigenze delle comunità, in modo autonomo.

Agostino: “In certi luoghi non passa giorno che non si offra il sacrificio, mentre altrove si offre solo al sabato e alla domenica, altrove poi solo alla domenica”.
L’aumento della popolazione di fede cristiana porta all’aumento delle celebrazioni per cui ve sono diverse al giorno.
La città era divisa in quartieri e le messe erano celebrate nelle diverse chiese dei diversi quartieri rispettando la norma che in una stessa chiesa e sullo stesso altare non si celebrasse più di una volta al giorno, salvo il caso che vi fosse una sola chiesa in città o che si trattasse di una festa per ricordare la memoria di un martire particolarmente importante per quella città, per cui ci fosse più gente della capacità della chiesa di ospitarne in una sola volta.

Papa Leone Magno: “Secondo un criterio ragionevole e pio, si deve nuovamente offrire il sacrificio ogni volta che la basilica, nella quale si celebra la festa, si riempie in presenza di un nuovo popolo”.

Il papa pretende che a ciò si adegui anche il patriarca di Alessandria.
Principio valido, ma non scritto: “un’unica eucaristia, un unico altare, un unico vescovo”.

E’ importante il dato teologico: “è la presenza della comunità che richiede l’eucaristia e di conseguenza questa si moltiplica secondo che la necessità lo esige”.

La celebrazione dell’eucaristia testimoniava la centralità del mistero di Cristo ed era il punto focale attorno al quale nasceva ogni volta la comunità dei fedeli di Cristo.

La comunione, invece, diventa sempre più rara a causa della prassi penitenziale molto rigida e di un abbassamento del fervore per una cristianizzazione superficiale dei popoli barbari.

Giovanni Crisostomo: “Invano ogni giorno si celebra il sacrificio; invano siamo ogni giorno all’altare: nessuno viene alla comunione”.
Sta nascendo la nuova consuetudine di una sola comunione all’anno.
Ambrogio: “Se questo è pane quotidiano (cfr. Padre nostro…), perché lo prendi a distanza di un anno, come usano fare i greci in Oriente?”

Sta calando l’impegno e il fervore religioso; per alcuni l’eucaristia continua ad essere il pane quotidiano mentre per altri è il cibo della festa.

Massimo di Torino: “Che dire di coloro che alla domenica per un convito secolare disprezzano il pranzo celeste e abbandonano la mensa di Cristo per trovare le proprie delizie alla mensa degli uomini? Tra le offese che si possono fare all’amicizia di Cristo, questa è la prima: pensare a saziare il proprio piacere proprio alla domenica, quando egli ci chiama alla sua mensa”.

Salviano di Marsiglia: “Si disprezza il tempio di Dio per correre al teatro; si svuota la chiesa e si riempie il circo; abbandoniamo sull’altare Cristo per pascere i nostri occhi, resi adulteri da visioni impure, con la fornicazione di rappresentazioni turpi”.

Si sta facendo strada un sentimento “purista”: occorre essere puri per fare la comunione.

Il problema della castità: attenzione all’A.T. Per gli sposati occorrono alcuni giorni di astinenza sessuale prima di fare la comunione.

Agostino: “Per accostarsi degnamente a questo grande sacramento, si devono scegliere quei giorni nei quali si vive con maggiore purezza e continenza”.

Cesario di Arles invita le coppie a mantenere l’astinenza coniugale per tutta la quaresima come preparazione a pasqua.

Su questa via di purità legale sulla base dell’A.T. (Levitico 12) si arriva a vietare la comunione alle donne nel loro periodo mestruale.

Agostino: “Ognuno si comporti (nel fare tutti i giorno oppure no la comunione) come la pietà della sua fede gli suggerisce…”

Gennaio di Marsiglia (5° sec.): “Purché non vi sia interiore attaccamento al peccato né si abbia la volontà di peccare, pur sentendo il morso del peccato…Se prima di ricevere la comunione uno soddisfa nella preghiera e nelle lacrime…vada alla comunione senza timore e con animo sicuro”.

Concilio di Agde (506 Francia): “non possono ritenersi cattolici tutti coloro che non si comunicano almeno a natale-pasqua-pentecoste”. Così anche il concilio di Tours (sec. IX).

Cesario di Arles si arrabbia perché le chiese si svuotano appena finita la liturgia della Parola, e invita a restare fino al Padre nostro e alla benedizione immediatamente successiva perché la messa è completa solo con l’offerta e la consacrazione (non menzione il fare la comunione).
Concilio Lateranense IV del 1215:
“ogni fedele dell’uno e dell’altro sesso, giunto all’età di ragione, confessi lealmente, da solo, tutti i suoi peccati al proprio parroco almeno una volta l’anno, e adempia la penitenza che gli è stata imposta secondo le sue possibilità; riceva con riverenza, almeno a Pasqua, il sacramento dell’eucaristia, a meno che, su consiglio del proprio parroco, per un motivo ragionevole, non creda opportuno di doversene astenere per un certo tempo” (n. 21).

La devozione del popolo si polarizza sull’ascolto della messa. Più che alla celebrazione, l’attenzione della comunità si sposta sulle proprie necessità.

Nascono così le messe votive: celebrazioni dove l’attenzione non è al Mistero ma alla circostanza dolorosa o difficile (carestia-alluvioni-terremoti-siccità-guerre-peste…) che ha provocato la celebrazione stessa che serve così da mezzo perché il sacrificio di Cristo possa risolvere il problema.

Celebrazioni anche di ringraziamento: non solo per i defunti ma per ogni cosa di cui si necessiti. Si moltiplicano le celebrazioni e i formulari, ma quasi sempre per necessità comunitarie.

Il rischio era che la messa diventasse una forma devozionale uguale alla devozione ad un santo (non si cercava di imitare il santo ma lo si faceva diventare patrono, cioè si offrono omaggi perché possa intercedere presso Dio); la messa non era più comunione con Cristo, ma mezzo infallibile per raggiungere i propri desideri.

Nel medioevo si moltiplicano le messe per i defunti per garantire una sicura e immediata salvezza alle anime dei defunti.
Gregorio: “E’ cosa più sicura fare da sé, mentre si è vivi, il bene che si spera ci venga fatto, dopo morte, dagli altri; è infatti meglio partirsene dalla vita liberi, piuttosto che da prigionieri cercare, dopo morte, la libertà”.

Ma le cose andarono diversamente e sui racconti dello stesso Gregorio si arriverà alle messe gregoriane (7 oppure 30). O la messa d’oro, sostitutiva di tutte le altre per la sua ineffabile efficacia.

Si incomincia a celebrare solo per i defunti. Alcuni iniziano a farsi celebrare le messe già da vivi.

Non solo il celebrare le messe per i defunti, ma il semplice ascoltare la messa portava a liberare le anime dal purgatorio o si sospendeva la pena per un poco.

Visto che sull’altare principale si poteva celebrare solo una volta, in forza dell’obbligo tradizionale, si cominciò a costruire altri altari lungo le pareti per soddisfare le richieste sempre in aumento.

“Per tutto il tempo in cui si ascolta la messa, le anime dei consanguinei, o di quelli per cui si ha il dovere di pregare, non soffrono le pene del purgatorio”.

“La prima efficacia della messa è questa: se uno ascolta degnamente anche una sola messa, ne avrà molto più vantaggio che se distribuisse ai poveri ogni suo avere”.

Ogni prete poteva celebrare una sola messa con offerta al giorno salvo alcuni casi particolari.
Ma fatta la legge trovato l’inganno:
– Messa secca, senza consacrazione ma con l’elevazione (una specie di liturgia della parola con comunione);
– Messa bi-tri-quatrifacciata (cioè il prete, per ogni offerta, iniziava la messa e si fermava all’offertorio e solo alla fine continuava con la consacrazione, in tal modo prendeva più offerte ma essendoci solo una consacrazione non violava l’obbligo di una sola celebrazione; si può capire che la messa equivaleva la parte riguardante la consacrazione).

Per la gente la messa era diventata il più potente mezzo esorcistico-liberatorio per raggiungere efficacemente e velocemente il proprio desiderio…

Moltiplicazione da parte del clero di racconti di visioni-prodigi e messe sempre più efficaci…e guadagni sempre più alti…

Perdita della dimensione comunitaria e privatizzazione della messa che veniva anche celebrata privatamente…

Dalla riflessione soteriologia e ontologico-funzionale del periodo patristico, si passa ad una mentalità cosificante e fissista.
A partire da questo momento, la realtà eucaristica diventa il problema della presenza reale.
Passaggio dalla dimensione soteriologico-relazionale a quella ontologica; da una visione ecclesiologica a una riflessione individualistica; dalla cena al sacrificio.

Il sacramento si riduce alla sola presenza reale, mentre la celebrazione serve per produrre tale presenza.

IX sec. Pascasio Radberto: identità fra corpo fisico e corpo eucaristico di Cristo. Nelle specie del pane e del vino si mostra, si tocca, si vede lo stesso copro del Signore.

XI sec. Berengario di Tours: il pane e il vino consacrati sono il segno di unione puramente spirituale col corpo del Signore che è in cielo.

Periodo medievale-gotico: devozione accentuata alla Madonna (con dedica di splendide cattedrali), la celebrazione eucaristica si arricchisce di realtà estranee, moltiplicazione di segni di croce e baci all’altare senza motivo e quindi senza significato.

“Messa drammatica”: spiegazione allegorizzante della messa come dramma sacro. Rappresentazione simbolico-scenica della passione di Cristo dal Getsemani al Calvario con perdita della sacramentalità della celebrazione eucaristica.

Tutto ciò serve ad un popolo che non capisce la lingua latina della celebrazione, ma che può capire i gesti scenici. Non serve capire neanche al prete perché la cosa importante è rappresentare il dramma così come è sul formulario (parole e gesti esatti in un meccanismo ritualistico).

L’altare viene spostato in fondo all’abside e rialzato rispetto alla navata: separazione clero-popolo, celebrante-assemblea.

La celebrazione non è più della chiesa, ma affare privato del prete e del clero. Tale clericalizzazione impone ai laici di non toccare l’ostia.

Occorre soddisfare l’esigenza popolare di vedere l’ostia: da una parte tale rito viene spostato al di fuori della messa; dall’altra parte nasce il rito della elevazione dell’ostia (in un primo momento) e del calice nel 12° secolo a Parigi sotto il vescovo Odone de Sully.

Dall’incontro di intima comunione con Cristo si passa alla visione dell’ostia.
Il suono di campana o campanelli richiamava il momento dell’elevazione (perché il popolo era intento a fare altro, dato che la celebrazione era solo cosa da preti).

Ad esempio: si credeva che al vedere l’ostia non si invecchiasse; che ogni elevazione fosse fonte di meriti (la gioia della futura visione sarà tanto più grande quante sono state le visioni dell’ostia sulla terra)…
La visione dell’ostia ha il valore della comunione.
Al posto del corpo-sangue di Cristo dati in cibo-bevanda, subentra la presenza degli stessi, dati in visione.
Scompare la natura conviviale dell’eucaristia. La celebrazione avveniva non per dare da mangiare ai fedeli, nel sacramento, il corpo e il sangue di Cristo, ma per offrirlo in adorazione e visione.

L’unico che mangiava e beveva era il prete.

Si snatura l’elemento di fondo del sacramento ed infatti non avevano torto i protestanti ad arrabbiarsi.

Occorreva rifare dell’eucaristia un sacramento di comunione per tutti e non solo per il prete celebrante

Dato che elevazione-adorazione erano possibili anche fuori della messa, nasce il culto eucaristico fuori della celebrazione; l’eucaristia cioè diventava oggetto di culto.

L’ostensorio diventa strumento importante e l’altare diventa il trono per il tabernacolo e per le esposizioni. Inizia il moltiplicarsi di processioni.

Per la messa si accentua un processo di uniformità grazie anche agli ordini mendicanti.
Il messale della curia romana viene diffuso dai francescani, favorendo la mentalità che il celebrante deve leggere tutto, anche i testo dei canti eseguiti dalla “schola” e le letture proclamate dal lettore o suddiacono o diacono.

Questa messa normativa diventa messa privata con il papa Innocenzo III.

All’epoca di Tommaso d’Aquino la comunione era ancora sotto le due specie.
Ma l’aspetto comunitario della messa è ridotto all’adorazione dell’ostia consacrata, la comunità è centrata nel prete: insistenza sull’aspetto sacrificale della messa che mette in ombra l’unico sacrificio di Cristo.
Sintesi del pensiero del Concilio di Trento (1545-1563).
Contro l’interpretazione protestante di una presenza reale di Cristo prodotta dalla fede, i Padri conciliari affermano che Cristo non è presente perché noi crediamo, ma noi crediamo perché Lui è già presente.

Quindi nessuna magia e nessuna materializzazione: Cristo rimane presente perché noi possiamo riceverlo nel sacramento, anche se l’adorazione non è incompatibile.

Anche il termine “transustanziazione”, pur con notevoli perplessità, è accettato dai Padri perché usato già nel Concilio Lateranense IV del 1215, come il più adatto a salvare il mistero dai due estremi, cioè il vuoto simbolismo di alcuni protestanti e il realismo esagerato alla Pascasio Radberto.

Nel tentativo di precisare il modo della presenza reale, i Padri non hanno trovato di meglio che usare lo schema del “mutamento sostanziale”.

Occorre dire che la cornice della loro riflessione è aristotelica e che si muovono in un contesto polemico per cui il termine “transustanziazione” è quello che meglio si presta alla contrapposizione con i “novatores “.

Analogamente sulla messa come sacrificio si riconosce l’unicità del sacrificio di Cristo sulla croce, tuttavia si afferma la continuità storica di questo medesimo sacrificio nella celebrazione eucaristica che ne applica la “virtus” per la nostra salvezza.
Viene riconosciuto il carattere propiziatorio-redentivo della messa.
Il Concilio vuole stabilire un nesso essenziale tra croce e altare:
“L’eucaristia è il sacrificio lasciato da Cristo alla Chiesa nella sua ultima cena, affinché in esso fosse reso presente come memoriale perpetuo il suo sacrificio della croce”.

Ma ci è riuscito?
Occorre ricordare che gli estensori delle formule tridentine non pretendevano di presentare una sintesi completa ed invece questo è stato il grosso problema della teologia post-tridentina.

Il versante liturgico risente del contesto polemico ed essenzialista del periodo post-tridentino: con il Barocco il tabernacolo diventa ulteriormente il centro architettonico e spirituale della pietà cristiana.

Un’adorazione caratterizzata da segni di onore e di riparazione anche attraverso le Confraternite del XVI secolo sostituisce la comunione, mentre categorie teologico-catechistiche come “ripetizione-rinnovazione” non rendono un buon servizio alla chiarificazione dell’aspetto sacrificale della messa.

La messa, con la riforma del messale di san Pio V (1570), rimane nell’orbita del cerimonialismo e clericalismo, mentre l’adozione dell’unico messale romano accenta quasi ovunque la centralizzazione liturgica.

Il problema della lingua latina lascia il popolo passivo, dedito alle sue devozioni (rosario, coroncine, novene…), quando non disturbato dall’orchestra barocca che fa della messa l’occasione per uno spettacolo musicale. La messa normativa rimane quella privata.

Nel Medioevo il grande problema era di sapere che cosa o quale momento della celebrazione era “figura” della passione-morte di Cristo.

Ora che il Concilio di Trento ha definito che nella messa c’è in tutta la sua realtà la presenza del sacrifico di Cristo, i teologi si interrogano quale “momento del sacrificio di Cristo” costituisce la realtà, per la quale la messa è di fatto il sacrificio stesso di Cristo: è l’immolazione della croce, cioè il fatto stesso della morte di Cristo, oppure è l’oblazione interiore che a quella morte diede il senso e il valore di sacrificio?

Nasce così un nuovo problema: l’essenza del sacrificio della messa.
Tutto ciò deriva dal fatto di voler concepire la messa nell’ottica sacrificale.
Nel momento in cui ci si pone in un’ottica sacramentale, tutta questa problematica cade.
Le novità del Concilio Vaticano II
Il Concilio Vaticano II (1962-1965) segna una tappa fondamentale nella riforma teologica e pastorale.
La riflessione del Concilio è concentrata sulla Chiesa per cui il momento eucaristico è visto in rapporto molto stretto con la vita della comunità locale di cui è fonte e culmine (Lumen Gentium 11), radice e cardine (Presbyterorum Ordinis 6), centro e vertice (Unitatis Redintegratio 22; Ad Gentes 9).

Il termine “eucaristia” ritorna ad indicare primariamente la celebrazione comunitaria del memoriale del Signore: prima si diceva che la messa ha inizio quando è pronto il prete, ora si dice che ha inizio quando è pronto il popolo.

Restano forme di culto eucaristico al di fuori della celebrazione, ma con una finalità diversa: non una presenza fine a se stessa, ma per la comunione.
L’adorazione viene vista come continuazione di una celebrazione e preparazione per la successiva.

La prospettiva, dinamica e non essenzialista, della storia della salvezza porta a favorire termini come “comunicare-partecipare-unione”, che evidenziano il momento dell’incontro.

Lo stesso avverbio “realiter” qualifica più il momento dell’incontro con Cristo che la presenza reale in sé.

La celebrazione diventa la sintesi di un passato salvifico (cena-croce-risurrezione), di un presente (la nuova alleanza diventa realtà storica coinvolgendo chiesa e mondo), di un futuro in cui tutta la creazione sarà un’unica oblazione con Cristo al Padre in un’alleanza eterna.
L’eucaristia appare così un sacrificio ecclesiale, momento vertice in cui la comunità, sacramento di Cristo, diventa avvenimento di salvezza.
Si tratta di un sacrificio conviviale in cui Cristo dona la sua parola quale messaggio per la nostra salvezza e premessa per un’ulteriore comunione: la comunità nasce dall’ascolto di fede e risponde con il canto e la vita concreta.

Il celebrante diventa l’assemblea e il prete colui che la presiede. Cessa di esistere la messa privata, e la distinzione è fra messa con il popolo o senza popolo.

Assieme alla Parola, Cristo dona il Corpo e il Sangue per prenderci dentro nel dinamismo di passaggio verso il Padre, per cui la comunione di tutti i presenti diventa normale ad ogni celebrazione.

La celebrazione riunisce il popolo in unità, lo invia nel mondo e soprattutto verso i poveri ed è prefigurazione del banchetto finale.
L’eucaristia, quindi, diventa celebrazione di unità verticale e orizzontale, nello spazio e nel tempo.

Dopo il Concilio Vaticano I (con il primato di giurisdizione e infallibilità del papa) circolava la voce che era superfluo ogni altro concilio perché “un concilio aveva soppresso il concilio”. Tutto ormai dipendeva solo dal papa. Sotto questo aspetto è significativo il solo fatto che il C. V. II ci sia stato. Questo concilio è stato condotto nella libertà e nel dialogo sincero.
Concilio della Chiesa sulla Chiesa (16 documenti di importanza nodale sul piano teologico).
E’ stato definito un Concilio pastorale, non per una minore importanza rispetto ai precedenti ma per far comprendere, secondo Giovanni XXIII, che l’essenza del magistero era soprattutto pastorale. Ma cosa significa concilio pastorale? Forse in opposizione a Concilio dottrinale?

Karl Rahner (1961): “La formulazione più chiara e più precisa, l’espressione più sacra, il risultato che viene a condensare nella maniera più classica il secolare lavoro della chiesa orante, pensante e militante, intorno ai misteri di Dio, ha la sua ragione di vita esattamente nell’essere inizio e non fine, mezzo e non termine: una verità che ci libera per poter giungere alla verità sempre più alta (…) Dall’essenza della conoscenza umana della verità e della natura della verità divina risulta che una verità particolare, soprattutto se riferita a Dio, è sempre un primo passo, un punto di partenza, mai una conclusione, un punto di arrivo”.

La formulazione dogmatica non è il punto di arrivo (esaustivo del percorso del comprendere la fede), ma di partenza.

Concilio pastorale: perché questo concilio non si è accontentato solo di formulare e presentare principi fondamentali e perenni della chiesa (dogma, morale…) ma ha avuto il coraggio di dare le sue direttive in vista di una situazione concreta. Direttive che hanno assunto carattere carismatico in situazioni concrete
Cfr. la teologia sul principio sinodale e collegiale non è stata solo accennata e presentata come dottrina valida della chiesa ma anche utilizzata nelle assise conciliari… (e dopo…)

La Chiesa cerca di adattarsi senza complessi di inferiorità e senza sottintesi al futuro del mondo (visto in un’ottica positiva e non più da demonizzare cfr. G. S. 1; 36) e non per affermare la sua posizione di prestigio ma solo per domandarsi come essa nel suo servizio all’uomo possa meglio soddisfare a questa missione dell’umanità.
In ciò il Concilio è l’inizio…se poi le sue aspettative siano state realizzate la responsabilità è da ricercare nei credenti…

Una prima idea di un concilio fu proposta a Pio XII nel 1949 e preparato fino al 1951, ma poi rinviato sine die il 4 gennaio 1951 ( G. Caprile, Il concilio Vaticano II, Roma, 1966, pp. 15-25).

La Chiesa era protesa alla ricerca dei lontani che considerava tali fino alla loro conversione, ma non riusciva a sentirsi solidale con l’umanità in quanto tale, senza discriminazioni di razze o di religioni.

Concezione piramidale della Chiesa, per cui il capo decide e opera per tutta la Chiesa.
Cfr. la frase di Pio XII al sostituto mons. Tardini: “Non voglio collaboratori, voglio esecutori”.

E’ la stessa logica che spiega la rinunzia alla nomina di un segretario di Stato alla morte del card. Maglione nel 1944 e la gestione commissariale di diversi dicasteri romani.

D’altra parte si tende ad esaltare la figura del papa attraverso beatificazioni e santificazioni (cfr. Pio X nel 1954), l’anno santo del 1950 e l’anno mariano del 1954.
La fondazione dello IOR nel 1942…
Poi incominciano i cambiamenti dei tempi…

Angelo Roncalli: era conservatore, ma non integrista (il suo integralismo apparteneva al buon senso contadino che lo portava a cercare al di là del contingente, l’essenziale, ciò che vi è di vivo e profondo sotto pesanti strutture).

Pochi giorni prima del conclave scrisse a mons. Piazzi vescovo di Bergamo, a proposito del libro di don Lorenzo Milani “Esperienze Pastorali”: «Ha letto Eccellenza, la Civiltà Cattolica del 20 settembre circa il volume “Esperienze Pastorali?” L’autore del libro deve essere un pazzerello scappato dal manicomio. Guai se si incontra con un confratello della sua specie! Ho veduto anche il libro. Cose incredibili» (Venezia 1 ottobre 1958).

Il libro aveva avuto il nulla osta dal card. Dalla Costa arcivescovo di Firenze e l’introduzione di mons. D’Avack, arcivescovo di Camerino.

Alcuni giorni dopo, all’inizio del conclave, Roncalli scrive di nuovo al vescovo di Bergamo:

“L’animo si conforta nella fiducia della nuova Pentecoste che potrà dare alla S. Chiesa nel rinnovamento del capo, e nella ricostituzione dell’organismo ecclesiastico nuovo vigore verso la vittoria della verità e del bene e della pace. Poco importa che il nuovo Papa sia Bergamasco o non Bergamasco. Le comuni preghiere debbono ottenere che sia un uomo di governo saggio e mite, che sia un santo e un santificatore”. (Roma 23 ottobre 1958).

Di fronte al futuro concilio, Giovanni XXIII non aveva le idee ben chiare: sperava di concluderlo in tre mesi con la beatificazione di Pio IX (processo a suo tempo riaperto da Pio XII) che gli stava molto a cuore.
Si sarebbe trattato di una copia del sinodo romano, con approvazione dei documenti già preparati…

Padre Lombardi, gesuita, nel suo libro “Il Concilio” del 1961 auspicava idee di riforma.
L’Osservatore Romano, in una nota dell’11 gennaio 1962, definiva le critiche a varie strutture ecclesiastiche “avventate e non giuste” e scriveva: “Al Santo Padre solo è stato demandato l’ufficio di pascere (…) . Né vale appellarsi al diritto di pubblica discussione nella Chiesa, riconosciuto bensì da Pio XII, ma solo nelle materie di libera discussione”.

Giovanni XXIII nel suo “Giornale dell’anima” del 13 agosto 1961: “Il compito sublime, santo e divino, del papa per tutta la Chiesa e dei vescovi per la diocesi di ciascuno, è predicare il Vangelo, condurre gli uomini alla salute eterna, con la cautela di adoperarsi perché nessuna altro affare terreno impedisca o intralci o disturbi questo primo ministero. L’intralcio può sorgere soprattutto dalle opinioni umane in materia politica, che si dividono e si contrariano in vario sentire e pensare. Al di sopra di tutte le opinioni e i partiti che agitano e travagliano la società e l’umanità intera, è il Vangelo che si leva. (…) Di fatto questo è ciò che gli uomini assennati attendono dalla Chiesa e non altro”.
Differenza dalla posizione di Pio XII.
Pio XII era preoccupato di bloccare a tutti i costi l’avanzata del comunismo.
Giovanni XXIII voleva distinguere con chiarezza la Chiesa dalle forze politiche e nello stesso tempo sentiva l’impulso di andare incontro a tutti, soprattutto ai diseredati, nutriva fiducia nell’uomo ed era alieno da quel complesso di stato di assedio che aveva tormentato i pontificati di Pio IX, Pio X e in parte Pio XII.

Aldo Moro, nel discorso del 27 gennaio 1962 al congresso della D.C. a Napoli, chiariva i motivi e il fine dell’autonomia politica dei cattolici.
La DC trae la sua ispirazione dai principi cristiani, ma questi vanno attuati, sul piano concreto e storico, nei modi che le circostanze rendono necessari e con una certa gradualità. Questo implica la necessità di una collaborazione con partiti di diversa ispirazione, dato che si tratta solo di un’intesa operativa su problemi concreti, tattici, immediati. A chi spetta decidere se è necessaria od opportuna questa collaborazione sul piano politico? Al laicato cattolico: “L’autonomia è la nostra assunzione di responsabilità, è il nostro correre da soli il nostro rischio, è il nostro modo personale di rendere un servizio e di dare, se è possibile, una testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale”.

Elezioni del 1963: 56,6% ai partiti del centro sinistra. Primo autentico governo di centro-sinistra varato il 4 dicembre 1963.

L’idea di un concilio iniziò a farsi strada nella mente di papa Giovanni XXIII subito dopo la sua elezione (28 ottobre 1958, morto il 3 giugno 1963), verso la fine di ottobre e maturò nei mesi di novembre, dicembre e gennaio. In questi mesi ne parlò col suo segretario particolare mons. Capovilla e pochissimi intimi e prelati di curia.

Il suo segretario di Stato card. Tardini, con il quale i rapporti erano cordiali ma non profondi, venne a conoscenza del proposito solo il 20 gennaio 1959, quando il papa aveva già deciso l’iniziativa e steso il primo abbozzo del discorso ai cardinali del 25 gennaio seguente.
Risulta vero l’atteggiamento riservato se non proprio contrario dei cardinali presenti a S. Paolo quel 25 gennaio. Era fallita l’ipotesi di un papato di transizione.

E’ opportuno anche riflettere se papa Giovanni avesse compreso in pieno la portata rivoluzionaria della sua decisione.

Non è inverosimile che egli volesse una riforma nel sistema, non un radicale cambiamento dello stesso, che volesse dei ritocchi e non la fine di un’epoca.
Ma la storia premeva in una direzione diversa e le forze della storia superano spesso le intenzioni di un uomo.

L’ostruzionismo lo si può notare dal fatto che l’allocuzione del 25 viene trasmessa al sacro collegio solo il 29, e solo 24 cardinali (fra cui Montini) su 74 espressero per iscritto al papa o al segretario di Stato adesioni e proposte. Il papa riuscì a superare la curia attraverso una consultazione dell’intero episcopato (novità assoluta … per il C.V. I furono consultati pochi vescovi).
Le risposte hanno interessato il 76% (2.000) dell’intero episcopato.

Il 17 maggio del 1959 fu costituita una commissione presieduta dal segretario di stato per operare una consultazione dell’episcopato, superiori degli ordini religiosi e università perché indicassero gli argomenti che il concilio avrebbe dovuto affrontare.
Il 5 giugno 1960: istituite dieci commissioni che redassero 70 schemi. La commissione centrale, presieduta dallo stesso papa, strozzò le proposte riducendole entro canali tradizionali.

Il 25 dicembre 1961 la costituzione apostolica Humanae salutis convocò il concilio per l’anno successivo con gli obiettivi: “aggiornamento interno della chiesa, promozione della riunificazione dei cristiani, pace universale”.

Il motu proprio “Consilium” fissò l’inizio del concilio per l’11 ottobre 1962.
Parteciparono 2.300 padri, qualche migliaia di periti, teologi, canonisti e storici. Come osservatori figuravano anche esponenti di altre chiese cristiane.

Discorso d’apertura 11 ottobre 1962: l’idea del concilio “tocco inatteso, sprazzo di superna luce”… accolto con “grande fervore destatosi improvviso in tutto il mondo” … il papa guarda con ottimismo al presente, sottolinea la maggiore libertà di cui gode la Chiesa e dissente dai “profeti di sventura” …

Compito dell’assemblea: non solo trasmettere pura e integra la dottrina ma compiere “un balzo in avanti verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze in corrispondenza più perfetta di fedeltà all’autentica dottrina, anche questa però studiata ed esposta attraverso le forme dell’indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno.
Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei ed altra è la formulazione del suo rivestimento”.

La condanna degli errori avrebbe dovuto essere effettuata in modo positivo, non negativo, “innalzando la fiaccola della verità” dicendo al genere umano come Pietro al povero storpio “non ho oro né argento, ma ti do quello che ho: in nome di Gesù Cristo nazareno levati e cammina”.

Appello all’unità “impetrata da Cristo per la sua Chiesa”, soffuso di delicatezza e sembrava più che una iniziativa da parte di Roma, una risposta ai “desideri con cui i cristiani separati da questa Sede Apostolica aspirano ad essere uniti con noi”.

“E’ appena l’aurora: ma già il primo annunzio del giorno sorgente di quanta soavità riempie il nostro cuore! Tutto qui spira santità, tutto suscita esultanza. Contempliamo infatti le stelle, che con la loro chiarità aumentano la maestà di questo tempio; quelle stelle…siete voi… Si può dire che il cielo e la terra si uniscono nella celebrazione del concilio . Voglia il cielo che le vostre fatiche e il vostro lavoro, a cui si volgono non solo gli occhi di tutti i popoli, ma anche le speranze del mondo intero, compiano abbondantemente le comuni aspirazioni”.

Con probabilità si compiva il voto espresso da Rosmini nel 1832: “Chi sa che non approssimi oggimai un tempo, in cui il gran naviglio sciolga nuovamente dalle sue rive, e spieghi le vele nell’alto, alla scoperta di un qualche nuovo e fors’anco più vasto continente” (Delle cinque piaghe della Santa Chiesa)
(L’ottimismo, la bontà, la semplicità di un uomo culturalmente inferiore ai suoi immediati predecessori aprivano una nuova era).

La situazione era diventata insostenibile (di stallo). Momento decisivo: 21 novembre 1962 il papa interviene facendo ritirare lo schema “De fontibus revelationis”.
La votazione era stata favorevole alla continuazione della discussione (1.368 voti contro 822), ma il risultato era dipeso dal modo in cui era stata posta la domanda.
Se il quesito fosse stato “Volete continuare la discussione?”, le risposte negative sarebbero state superiori ai due terzi.
Nel nostro caso il quesito è stato “Volete interrompere la discussione?” e le risposte favorevoli sono state di poco inferiori ai due terzi.

Questa situazione fece capire al papa che poteva rinunziare alla speranza di chiudere l’assemblea entro natale.

L’assemblea ha lavorato dal 1962 al 1965 per quattro periodi di circa dieci settimane ciascuno nell’arco autunnale.
Il primo periodo si è svolto sotto papa Giovanni, gli altri sotto Paolo VI (21 giugno 1963).
Le Congregazioni generali si svolgevano in mattinata e durante gli intervalli tra i periodi e di pomeriggio lavoravano le commissioni.
I lavoro erano coordinati da una segreteria generale diretta dal card. Pericle Felici.
Paolo VI nel settembre 1963 creò un gruppo di moderatori (Agagianian, Lercaro, Dopfner, Suenens) col mandato di dirigere tutti i lavori conciliari.
I padri ridussero gli schemi da 70 a 17 modificandone in profondità sia l’oggetto sia l’ispirazione.
I primi documenti approvati e pubblicati nella sessione del 4 dicembre 1963, che concludeva il secondo periodo conciliare, furono la costituzione sulla sacra liturgia e il decreto sugli strumenti di comunicazione sociale.

Il 21 novembre 1964 furono promulgati la costituzione dogmatica sulla chiesa e i decreti sulle chiese orientali e sull’ecumenismo.

Altri documenti importanti: costituzione dogmatica sulla divina rivelazione il 18 novembre 1965 e la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo il 7 dicembre 1965.

I documenti conclusivi sono apparsi come un compromesso fra varie tendenze che hanno provocato qualche delusione:

Si pensi alla dichiarazione sulla libertà religiosa dove restano insoluti vari problemi storici (frattura o continuità del magistero?), scritturistici (qual è l’autentica interpretazione di alcuni passi biblici?), pratici (la Chiesa intende davvero rinunziare ad un regime di privilegio o cerca dov’è possibile uno speciale riconoscimento? Riafferma o abbandona il sistema concordatario? Rivendica la sua libertà, sulla base della speciale missione affidatale da Cristo, o sul fondamento della libertà generale? Il riconoscimento del diritto di propaganda di ogni religione, nel senso di immunità dalla coercizione da parte delle autorità statali o di chiunque altro, non è in pratica pericolosamente limitato dalle riserve espresse contro le dubbie forme di proselitismo?).

Analoghe osservazioni per il decreto sull’ecumenismo e la dichiarazione sulle religioni non cristiane (dove pressioni di natura non strettamente religiosa o teologica portarono alla soppressione di importanti incisi favorevoli agli israeliti, come la confutazione dell’accusa di deicidio e le più energiche condanne dei recenti genocidi). Cfr Nostra Aetate 28-10-1965 nn. 4-5

Il concilio comunque chiuse un’epoca e ne aprì un’altra. I limiti e le contraddizioni non sono gli elementi più importanti, ma le affermazioni di principio, che più o meno rapidamente esplicheranno tutta la loro virtualità. Esempio la riforma liturgica…il nuovo modo del pensare teologico…

Pensiamo ai concili medievali che poco hanno inciso sulla storia della cristianità…
Pensiamo al C.V. I che ha portato a compimento un ciclo storico sia nelle formulazioni teoriche sia nelle applicazioni concrete. Tale concilio costituisce la riaffermazione e uno degli ultimi capisaldi dell’epoca post-tridentina.

Il Tridentino segnò la ripresa della Chiesa dalla sua gravissima crisi, delineò i tratti essenziali della vita ecclesiale, nel dogma, nella disciplina, nella pastorale, che l’hanno caratterizzata fino ai nostri giorni.

In modo analogo il C.V. II ha chiuso definitivamente l’epoca post-tridentina. Ha aperto un nuovo corso nella storia della Chiesa, che non rifiuta il passato, ma lo integra e lo perfeziona, adattandolo alla continua evoluzione dell’umanità.
Esso segna nuovi indirizzi dogmatici, disciplinari, pastorali.
Emerge una nuova concezione della rivelazione, che non consiste nella comunicazione astratta di verità sistematicamente formulate, quanto nel manifestarsi di Dio in modo vivo, vitale, personale nella storia degli uomini e l’invito a scrutare i segni dei tempi.

Una nuova concezione della Chiesa. Alla forte centralizzazione del C.V. I succede l’affermazione della collegialità. Non si tratta solo di affermazioni teoriche ma di un diverso orientamento attraverso il sinodo dei vescovi e la rivalutazione delle chiese locali.

L’ecclesiasticismo tipico del periodo post-tridentino è superato dalla Chiesa come popolo di Dio (cfr. responsabilità del laicato) della Lumen Gentium.
Il decreto sui presbiteri riconosce, accanto al sacerdozio ministeriale, quello comune dei fedeli.
Si apre la via alla partecipazione responsabile del laicato nei consigli pastorali…
Si presenta una Chiesa che non mette la sua fiducia nei privilegi e nell’appoggio dello Stato, ma nella grazia, nella forza della verità nella purezza della sua testimonianza. Una chiesa partecipe e solidale alle sofferenze di tutti, al servizio dell’umanità, senza soluzioni prefabbricate universalmente valide…

Tale spirito di povertà la spinge a riconoscere i suoi torti, superando il trionfalismo del passato e chiedendo perdono delle proprie colpe (cfr. D. U. 7; G. S. 36; U. R. 3 e 7).

La chiesa mostra una nuova fiducia nell’uomo.
Cfr. Dichiarazione sulla libertà religiosa che non si fonda più sull’ambigua e discussa distinzione fra tesi ed ipotesi, cioè non è più accetta come un male inevitabile del nostro tempo, ma come conseguenza necessaria della dignità della persona umana che Dio stesso ha creato psicologicamente libera, arbitra del suo destino, con il diritto a non essere coartata nelle sue decisioni più impegnative e intime, anche nell’ipotesi di mala fede, cioè di aperta ribellione a Dio.
Cfr. D. H. 8; L. G. 9-17; P. O. 2.

Iniziano ad andare in soffitta il giuridismo, il legalismo, l’appoggio al braccio secolare per la repressione della propaganda acattolica…

L’abolizione dell’Indice nel giugno 1966 affida alla libera responsabilità del cristiano adulto la decisione sulle sue letture.
Innovazioni nella prassi dell’astinenza settimanale dello stesso mese (21-23 giugno 1966). Si conferma l’astinenza obbligatoria per i venerdì di quaresima, lasciando libertà di scelta per gli altri venerdì.
Si supera il legalismo ma si cerca di far capire che i cristiani non si distinguono per una pratica esteriore ma per un comportamento di vita ( A Diogneto).

Alla prevenzione e alla repressione si sostituisce la paziente lenta difficile formazione delle coscienze.
I vari momenti della messa
Canto di ingresso
Risale a papa Celestino I (422-423). Finalità pastorale: concentrare i fedeli sulla celebrazione che si sta per fare mentre il celebrante si dirige all’altare.

Andiamo all’Ordo Romanus (V sec.): il papa dal suo palazzo del Laterano è arrivato in chiesa dove si svolge la celebrazione e in questo caso a Santa Maria Maggiore nel giorno di Pasqua.
E’ in sacrestia dove indossa i paramenti. Gli fanno i nomi dei lettori. La Schola ha preso posto davanti al presbiterio.
Quando tutto è a posto, il diacono che sta davanti alla porta della sacrestia fa segno che si può cominciare il canto di ingresso e il corteo si mette in cammino.

Durante il cammino si portano al papa il “Sancta”: cofanetto nel quale è stato conservato il pane consacrato (era pane casalingo) dopo l’ultima celebrazione. Il papa dopo aver visto e riverito il contenuto, prosegue il cammino.

Questi Sancta verranno versati nel calice al momento della frazione per essere consumati con gli altri appena consacrati.

Il canto ha quindi funzione meditativa per ciò che si sta per compiere. Tale celebrazione era prevista soprattutto per i momenti liturgici più importanti.

Ma con il passare del tempo, la processione di ingresso diventa sempre più pomposa che anche la funzione meditativa del canto ne fu compromessa.

Con la riforma del Concilio Vaticano II il canto di ingresso è diventato quello di apertura. E’ funzionale alla celebrazione e in relazione al tema della liturgia della parola dovrebbe essere scelto.

L’uso di portare l’incensiere all’inizio della processione è nell’Ordo Romanus e preso in prestito dall’uso civile dove le autorità si facevano precedere da portatori di incenso e ceri.

Agostino dice che il giorno di pasqua, entrato nella basilica, ha salutato i fedeli e si è seduto per ascoltare le letture. Non vi è menzione di un canto di ingresso né di un gloria né di una preghiera.
Bacio all’altare, saluto ai fedeli, atto penitenziale.
Col passare del tempo, il celebrante dopo l’ingresso si ferma chinando il capo davanti all’altare, inizialmente in silenzio, poi con una preghiera per i propri peccati (purità prima del sacrificio…retaggio veterotestamentario).

La formula iniziava con la parola “Confiteor”, poi si invocavano i santi locali.
E’ uno sviluppo della prassi penitenziale.

A partire dal X secolo c’è la possibilità della “commutazione”, cioè si può cambiare la soddisfazione ricevuta dopo la confessione. Nasce l’uso di far celebrare delle messe sia per i ministri che per i peccatori.

Da questo momento inizia a cambiare anche la teologia dell’eucaristia: diventa la discesa maestosa del Signore sull’altare con tutto il timore che ciò comporta.

Fino al Concilio Vaticano II l’apologia di inizio era recitata a voce bassa e solo fra i presbiteri, mentre quelle che riguardavano il popolo erano recitate prima dell’offertorio.

L’atto penitenziale presente ora nel messale romano è una novità perché riguarda tutta l’assemblea: ministri e fedeli.

Con probabilità questo momento vuole preparare l’assemblea all’ascolto e alla comprensione della Parola.
Attraverso la proclamazione della Parola, il Signore si rende presente nell’assemblea e quindi occorre preparasi adeguatamente.

Tale momento può essere soppresso in determinate circostanze (ad esempio nella domenica delle Palme perché è già prevista la processione) oppure può essere sostituito da altri gesti tipo l’aspersione con l’acqua benedetta.

Questo atto penitenziale non deve avere un grande ruolo, ad esempio nella domenica di Pasqua dovrebbe essere sostituito da un aspersione che ricorda il battesimo, la nuova nascita in Cristo.
In sintesi: più sulla gioia che sulla contrizione.
Tale atto penitenziale non ha valore di assoluzione sacramentale.
Bacio all’altare.
Nel messale di Pio V le preghiere ai piedi dell’altare (apologie) erano seguite dal bacio dell’altare, dalla lettura a bassa voce del canto di ingresso, dal Kyrie e dal gloria e dopo il celebrante salutava l’assemblea.
Da questo momento iniziava la liturgia della parola.

Ora, visto che l’atto penitenziale è di tutta l’assemblea, è normale salutarla fin dall’inizio come è normale baciare l’altare come primo gesto all’inizio della celebrazione.

Il bacio all’altare e all’evangelario sono presenti nell’Ordo I; il bacio all’evangelario è presente nelle messe con il vescovo.

L’Ordo I riporta anche che nelle messe con il papa, questi dia il bacio ai vescovi e al presbiterio prima della celebrazione.

Ciò è in contrasto con Giustino che prevede il bacio di pace a conclusione della preghiera universale, prima di portare all’altare il pane e il vino.
Kyrie eleison.
Relazione con la preghiera dei fedeli.

Nota nell’uso pagano come acclamazione di onore indirizzata all’imperatore o a un dio e non ha nulla della richiesta di perdono.

Da Eteria veniamo a sapere che a Gerusalemme, intorno al 400, alla fine dei vespri un diacono proponeva delle intenzioni, spesso erano nomi di persone, alle quali un gruppo di fanciulli rispondeva kyrie eleison.

Dalle Costituzioni apostoliche sappiamo che dopo il congedo dei diversi gruppi, catecumeni…, c’era un’intenzione cui i fedeli rispondevano kyrie eleison.
Gloria
Una delle più antiche composizioni della chiesa. Nella liturgia Bizantina era cantato nell’Uffico del mattino e così anche a Gerusalemme nel V secolo.

Sembra che sia stata introdotta nella messa di natale, cantato all’inizio della celebrazione, secondo l’indicazione di S. Leone (Sermone 6).
Con probabilità grazie al vangelo di Luca.

Abbiamo molte versioni del Gloria, oltre alle Costituzioni apostoliche, ma che hanno tendenze ariane e cioè presentano Cristo inferiore al Padre per cui le lodi vanno tutte al Padre e nulla a lui.
Abbiamo anche un testo nestoriano in siriano.

Il più antico manoscritto che lo riporta, nella liturgia dei mattutini e dei vespri, è l’Antifonario di Bangor. Il messale romano gli si avvicina.

Solo il vescovo intona quest’inno a natale. Il Liber pontificalis attribuisce a papa Simmaco (498-514) l’estensione del Gloria alle domeniche e alle feste dei martiri.

Anche il sacramentario gregoriano nota l’estensione, ma il canto è sempre riservato al vescovo.

Il Micrologio di Bernoldo di Costanza, fine XI secolo, dice che anche il prete può intonarlo quando lo fa il vescovo.

Ma dalla rubrica del gregoriano si sa che il prete lo poteva fare anche prima ma solo a pasqua.

Alla fine del XIII secolo, nel Pontificale di Guillaume Durand, troviamo che viene proibito in alcuni tempi dell’anno e in alcune celebrazioni.

Il messale romano lo ha abolito nelle celebrazioni semplici e feste minori.
Colletta.
E’ difficile dire quando è stata introdotta. Agostino non la conosceva e ai suoi tempi si iniziava direttamente con le letture.

Forse è stata introdotta all’epoca di Leone Magno (440-461).
Cambia la teologia della proclamazione della Parola.

Fino ad allora (cfr. Giustino) la prima preghiera dell’assemblea, a parte il Gloria a natale e il canto di ingresso, era situata nel momento della preghiera universale (Oratio fidelium).

Era l’ascolto della parola di Dio che provocava la preghiera dell’assemblea che si esprimeva in domande concrete per realizzare nella vita quotidiana quanto ascoltato…

L’introduzione della Colletta modifica questa teologia. L’assemblea prega il Signore prima di averlo ascoltato, diventa una preparazione all’ascolto.

“Colletta” indica non una preghiera ma una riunione.
Rimane difficile comprendere il significato originale in quanto le ipotesi sono molteplici.

Alcuni vedono nella Colletta una preghiera che conclude la litania cantata durante il corteo che dal luogo della riunione arriva al luogo della celebrazione.

Altri, sul modello della liturgia del Sabato santo, vi vedono una preghiera che attualizza quanto proclamato nelle letture.

Ipotesi più verosimile: preghiera personale dei fedeli che, sull’invito “Oremus”, si raccolgono e la loro preghiera personale si conclude nella Colletta che riunisce le preghiere di ciascuno.

Le preghiere romane erano rivolte al Padre con questi attributi: Onnipotente, Eterno, Clementissimo. La regola, nella preghiera ufficiale della comunità, è: “Sempre ad Patrem dirigatur oratio”.

Il celebrante prega con le mani alzate, posizione abituale della liturgia fin dall’antichità e non solo per colui che presiedeva, ma per tutta la comunità.

Una particolare ricchezza della chiesa romana era la creatività delle Collette e dei Prefazi.

Non mancavano i problemi dovuti a forme di stravaganza nella preghiera delle Collette per cui già Agostino se ne faceva testimone.

I Concili di Cartagine e di Milevi stabilirono che ci fossero delle commissioni apposite a cui sottoporre, per l’approvazione, le varie Collette preparate dalle comunità.

Oggi, il tema della Colletta dovrebbe essere collegato al contenuto delle Letture.
Parola di Dio ed Omelia.
Giustino, nella sua Apologia , descrive la liturgia della Parola e l’omelia ne faceva parte. Ciò proveniva dall’esperienza ebraica della liturgia sinagogale del sabato quando il rabbino spiegava le letture.

In Siria e in Abissinia avveniva così: lettura del Pentateuco, poi i Profeti, le Lettere, gli Atti degli Apostoli, i Vangeli.
La liturgia bizantina, a cui si adeguò l’Africa e Roma, invece: una lettura dall’A.T. e due dal N.T.

Il Concilio Vaticano II introduce il principio che la Scrittura andava messa a disposizione di tutti i fedeli per essere conosciuta e così si passa da un 30% dei passi inseriti fino ad allora nel messale a circa il 90% della riforma conciliare. E’ un passo assolutamente notevole e prezioso.

La Parola genera la fede e rende abili a comprendere e celebrare l’eucaristia.
L’Omelia è parte integrante della celebrazione: deve avere un linguaggio esegetico e un linguaggio liturgico, deve rendere vivo-attuale-dinamico il testo che deve essere illustrato, spiegato, reso significativo per l’uomo che ascolta.

L’ambone deve avere la sua dignità. La Parola non viene letta, ma proclamata.
Il Credo.
Il Credo è entrato tardi nella Messa Romana. Fu l’imperatore Enrico II a chiederne a papa Bendetto VIII (1014) l’introduzione.

Il Credo fu inserito nella Messa a partire dal 1110, ma il suo uso era limitato ad alcune feste e ad alcune domeniche. Nella Chiesa d’Oriente invece era cantato già da diversi secoli. Perché?

Il papa Benedetto VIII rispose che i problemi presi in esame nel Credo riguardavano le dispute teologiche della Chiesa d’Oriente e non di quella Latina. Era quindi logico che lo usassero loro.

In Oriente si erano sviluppate le eresie Cristologiche e Trinitarie, con i primi Concili ecumenici, mentre in Occidente l’eresia più grossa riguardava la Grazia, durante l’attività di Agostino soprattutto.

In Oriente, il canto del Credo era inizialmente riservato al battesimo per poi essere esteso a tutte le celebrazioni.
Fu introdotto da Timoteo di Costantinopoli verso il 515 e fu messo prima dell’eucaristia. Tale uso si diffuse in tutto l’Oriente per essere sancito definitivamente per legge dall’imperatore Giustino nel 568.

In Spagna fu introdotto verso la fine del 500 per contrastare l’eresia ariana (concilio di Toledo 589, provinciale e non ecumenico).
Questo “Credo” spagnolo veniva cantato prima del “Padre nostro”.
Fu introdotto anche il “filioque”, non accettato dal papa (occorre ricordare che il “filioque” è rifiutato dalla Chiesa d’Oriente).

Il messale di Stowe, messale celtico e risalente a circa il 600, mette il Credo a dopo il Vangelo e l’omelia, al momento dell’offertorio.

Carlo Magno, insieme a S. Paolino d’Aquileia, fece pressione su papa Leone III per l’accettazione del “filioque” al fine di combattere l’eresia dell’adozionismo (sinodo di Francoforte 794).

Il papa rispose che il Credo, a Roma, veniva letto e non cantato e che restava senza “filioque”.
Il Credo, con il “filioque”, entrò nella chiesa di Roma nel secolo XII, ma il papa non ne impose l’uso alle Chiese orientali.

Il Credo è musicalmente ricco. Esso, però, è la professione di fede di tutta l’assemblea e riservarlo solo al prete e alla “schola cantorum” avrebbe, di fatto, tagliato fuori il resto dell’assemblea. Questo è il motivo ecclesiologico per cui a Roma veniva recitato e non cantato.
Excursus: formazione storico-teologica del Credo
La prima eresia ad ampia diffusione e particolarmente problematica è quella che deriva dalla teologia di Ario.
L’Italia ha avuto a che fare con l’arianesimo, pensiamo a Ravenna (con lo splendido battistero ariano che fa da contro altare a quello Neoniano-ortodosso), ai Longobardi con le proprie capitali.

Ario era un prete di Alessandria d’Egitto. In questa città c’è sempre stata una numerosa e prospera comunità ebraica: ebrei di fede ma di cultura ellenistica. Ed è probabilmente la zona dove è avvenuta la traduzione dell’Antico Testamento dall’ebraico in greco (=LXX). Un livello culturale certamente molto alto.

Ario era preoccupato per il monoteismo: per lui parlare di un Figlio avente la stessa natura, la stessa essenza del Padre, significava mettere in crisi il monoteismo.

Ad un certo punto Ario elabora una cristologia da cui risulta l’inferiorità del Figlio rispetto al Padre. Ario elabora questa dottrina per evitare di incrinare il monoteismo.

C’è un solo Dio e si chiama Padre. Solo lui è “non-generato”, eterno.
Se solo il Padre è eterno allora il Figlio, il Verbo, il Logos, all’inizio non esisteva. Inizia ad esistere dal momento in cui è stato creato dal Padre.

Per Ario, il Padre è eterno, non è generato e il suo primo atto creativo è la creazione del Figlio. Il Figlio perciò non è contemporaneo al Padre (Ario era cristiano di fede, ma la sua cultura era greca), ma a lui successivo.

Ario ragionava così: se il Figlio viene generato dal Padre, riceve qualcosa dall’essere del Padre. Ma se il Padre comunica qualcosa di sé all’essere che ha generato, significa che il Padre perde qualcosa di sé e diventa meno Dio.
Se il Padre diventa meno Dio, tutto questo manda a monte la fede monoteistica. Ecco perché Ario esclude subito il verbo generare – che è una comunicazione del proprio essere/essenza, della propria natura – e usa il verbo creare.

Il Padre, quando crea, non comunica niente di sé, quindi resta Dio perfetto e immutabile. Per il mondo greco, Dio deve essere immutabile; se è immutabile è perfetto. Se Dio comunica qualcosa di sé, muta e quindi non è più un Dio perfetto.

Tutto questo nella Bibbia non esiste; esiste a partire dalla riflessione che affonda le radici nella filosofia greca del mondo ellenista. Non siamo ad Atene, siamo nel nord Africa e in Turchia. Quindi non è il greco che si parla ad Atene, a Corinto, a Epidauro…

Ripeto: Il Padre ha creato il Figlio e lo ha creato dal nulla. Il Figlio assume solo un corpo mortale, però non assume un’anima umana. Quando il Figlio diventa uomo, non è che diventa uomo totalmente: prende un corpo umano ma non un’anima umana.

Il motivo è questo: nell’uomo Gesù di Nazareth il posto dell’anima umana è preso dal Verbo, dal Figlio. Gesù ha un corpo umano come tutti, ma la sua anima non è umana bensì è il Verbo, il Logos.
Per Ario, il Figlio è inferiore al Padre e per dimostrare questa dottrina della inferiorità – con il Figlio creato e non generato e diverso dalla sostanza del Padre – trova una giustificazione nei Vangeli.

Ario dice: nel vangelo c’è scritto che Gesù non conosce la fine del mondo (i discepoli chiedono a Gesù: Quand’è che avverranno tutte queste cose dopo che Gesù aveva parlato di segni catastrofici. E Gesù risponde: Questo non lo sa neanche il Figlio, questo lo sa solo il Padre).

Riepilogo: Chi è che non conosce quando ci sarà la fine del mondo? Il Figlio. Ma se il Figlio non sa quando ci sarà la fine del mondo e lo sa soltanto il Padre, da ciò si deduce che il Figlio non è uguale al Padre. Ario è logico: ha dimostrato, Nuovo Testamento alla mano, che il Figlio è inferiore al Padre.
Anche i Testimoni di Geova fanno esattamente lo stesso discorso perché dal punto di vista cristologico, i Testimoni di Geova sono ariani.

Il pensiero di Ario mette in crisi il mondo cristiano e anche l’unità politica dell’Impero Romano. Costantino decide di mettere tutti d’accordo, anzi di costringerli a trovare un accordo a Nicea, nel 325.
Ario viene condannato quasi all’unanimità e inoltre decreta la pena di morte per chi avesse dato asilo agli Ariani.
Nicea non è molto distante dalla residenza che nel frattempo Costantino si sta facendo costruire a Nicomedia; quindi l’imperatore poteva tenere sotto controllo l’andamento del Concilio.

Dunque, il regista di tutto è stato l’imperatore Costantino: colui che ha promosso il Concilio di Nicea e colui che alla chiusura del Concilio dà un grande banchetto nel suo palazzo di Nicomedia e molti regali a tutti i vescovi che vi avevano partecipato.

Nella giornata conclusiva Costantino dice: “Ciò che hanno deciso 300 vescovi non è altro che la decisione di Dio, in quanto lo Spirito Santo, presente in questi uomini, ha loro manifestato il volere di Dio stesso”.

I 318 Padri riunitisi a Nicea stabilirono:

“Crediamo in un solo Dio Padre Onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, e in un solo Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, unigenito dal Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre (secondo i Greci consustanziale), mediante il quale tutto è stato fatto sia ciò che è in cielo, sia ciò che è in terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza Egli discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto, è risorto il terzo giorno, è salito nei cieli e verrà per giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo” Questo è Nicea con l’aggiunta di:
“Ma quelli che dicono: Vi fu un tempo in cui Egli non esisteva (Ario), prima che nascesse non era (Ario), è stato creato dal nulla (Ario), o quelli che dicono che il Figlio di Dio è di un’altra sostanza o di un’altra essenza rispetto al Padre, o che il Figlio di Dio è sotto messo a cambiamento o ad alterazione (Ario) questi la Chiesa cattolica apostolica condanna”.

E’ vero che questo testo condanna soprattutto la dottrina di Ario, ma anche altre tesi eterodosse.
Si parla di “creatore”; la creazione appartiene all’ambito della fede e non della scienza. Che Dio sia creatore lo dico come affermazione di fede, non come il risultato di un’indagine scientifica.

Che realtà sono “le cose visibili e invisibili”? Le cose visibili si identificano col mondo della materia; le cose invisibili nel mondo dello spirito.

Questa affermazione è contro il pensare gnostico-docetista e contro il dualismo di Marcione: quel modo di pensare per cui vi è una duplice divinità, un Dio autore del mondo dello spirito (delle cose invisibili) e un Dio autore del mondo della materia (delle cose visibili).

Abbiamo due divinità? Nicea dice: no, c’è un solo Dio che è autore dell’uno e dell’altro. Se l’unico Dio è colui che ha creato il mondo dello spirito e il mondo della materia, vuol dire che la materia non può più essere considerata un elemento negativo, ma positivo. Viene superato il dualismo ellenistico.

“Gesù Cristo, Figlio di Dio”: questo essere “Figlio di Dio” non viene spiegato secondo i criteri presenti nei vangeli e nel mondo biblico, ma secondo i criteri presenti nella teologia a partire dal contributo della filosofia greca.

“Generato dal Padre” = “della stessa sostanza del Padre”. Come la luce procede dalla luce, così è un Dio vero che procede da un Dio vero.
Nicea risponde ad Ario che il Figlio condivide la stessa sostanza del Padre. Quindi non è eterno solo il Padre, ma è eterno anche il Figlio. Non è onnipotente solo il Padre, ma è onnipotente anche il Figlio.

Viene tolto il verbo “creare” che indica disuguaglianza e viene scelto il verbo “generare” che significa comunicazione della propria sostanza.
Quando il Padre comunica qualcosa di sé al Figlio, il Padre non perde qualcosa di sé, non diventa meno Dio.

Per Ario:

DIO che crea il Figlio è solo il
PADRE

• La natura divina è solo quella del Padre.
• Eterno è solo il Padre.
• Dio Padre crea il Figlio.
• Il Figlio non fa parte della natura divina.
• Il Figlio non è eterno.

Per Nicea:

FIGLIO

DIO

PADRE

• Il Padre e il Figlio hanno la stessa natura: non sono
due divinità, ma la stessa identica divinità.
• Essendo un unico Dio, Padre e Figlio sono eterni.
• Le loro relazioni sono eterne, perché avvengono
all’interno della Trinità.
• Per dire questa relazione Padre-Figlio, si sceglie l’unico
verbo possibile: generare.

Noi parliamo di Persona all’interno della Trinità, ma già san Tommaso preferiva il termine “relazione”: cioè non Padre, ma paternità; non Figlio, ma filiazione. L’esistenza dell’uno è possibile solo se c’è effettivamente l’altro; ognuno si comprende in relazione con l’altro.

Nicea pone un problema la cui risoluzione dovrà aspettare San Tommaso d’Aquino:
“Un uomo e una donna non creano un figlio, lo generano. Ma il padre e la madre vengono logicamente e di fatto prima del figlio. Come si fa a spiegare questo con il generare del Padre?
Se la generazione avviene in Dio, significa che essa è eterna perché Dio è eterno. Allora, logicamente il Padre viene prima del Figlio, ma nei fatti no, perché il Padre e il Figlio sono la stessa identica sostanza.
Non è la natura del Padre che genera il Figlio, perché hanno la stessa natura, ma è la persona del Padre che lo genera; siccome avviene tra Padre e Figlio all’interno della stessa natura, anche il Figlio è eterno.

Nicea ha salvato due cose:
• l’unità divina, evitando il rischio della frantumazione del monoteismo;
• mettendo all’interno della divinità il Padre e il Figlio, salva anche la relazione tra i due.

Nicea termina con queste parole: “Crediamo nello Spirito Santo”, ma non va oltre a definirne la natura né il rapporto col Padre e il Figlio.

Già risolvere la questione del rapporto Padre e Figlio è stato difficile e problematico con scismi e lotte intestine, per cui mettersi a cercare una soluzione per la questione dello Spirito santo sarebbe stato veramente eccessivo.

Eppure alcuni autori cristiani della Cappadocia si erano spinti in una riflessione molto alta e quindi Nicea avrebbe potuto avere a disposizione dei testi importanti teologicamente.

Una curiosità sul Concilio di Nicea. Il canone 20 recita: “Poiché vi sono alcuni che di Domenica e nei giorni della Pentecoste si inginocchiano, per una completa uniformità è sembrato bene a questo Santo Concilio che le preghiere a Dio si facciano in piedi”.
Il discorso dell’inginocchiarsi, soprattutto al momento della consacrazione, risale al Medio Evo.

Il simbolo di fede di Nicea viene dichiarato ortodosso.
Nel 380 ci fu l’editto di Teodosio I°: l’unica religione ammessa nell’Impero Romano d’Oriente è quella cristiana cattolica (per cattolica si intende la fede di Nicea). Chi non la pensa come Nicea è fuori: perde la fede e viene esiliato. Con questo editto finisce la tolleranza che apparteneva all’editto di Milano (313), il quale non solo dava la libertà al cristianesimo, ma dava libertà religiosa in genere. E’ un editto di una tolleranza eccezionale per l’epoca storica (e anche per noi oggi); non viene detto che una religione è superiore alle altre, ma che tutte le religioni nell’Impero hanno diritto di cittadinanza e devono essere trattate allo stesso modo e nessuno deve essere costretto a credere in una religione se non lo vuole.

Dal 313 al 380 parecchie cose sono cambiate, dei vescovi sono cambiati. In Occidente abbiamo un vescovo molto importante. Diventa vescovo di Milano, prima ancora di essere battezzato, Ambrogio. Il vescovo Ambrogio è fondamentale nella lotta contro il paganesimo, e sarà quel vescovo che costringerà Teodosio a chiudere le Olimpiadi.
Costanzo e Teodosio I sono stati gli imperatori che hanno dato una sterzata per favorire, all’interno dell’Impero, la religione cristiana.

Nel 381, a Costantinopoli, viene convocato un nuovo Concilio ecumenico, dedicato essenzialmente alla discussione sullo Spirito Santo.
Ecco cosa scrive Costantinopoli 1:

“Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili: e in un solo signore Gesù Cristo, figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incarnato per opera dello Spirito Santo e da Maria vergine, e divenne uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, patì, fu sepolto e risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture, salì al cielo, siede alla destra del Padre: verrà nuovamente nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Crediamo anche nello Spirito Santo, che è signore e dà la vita, che procede dal Padre; che insieme al Padre e al Figlio deve essere adorato e glorificato, ed ha parlato per mezzo dei Profeti. Crediamo la Chiesa una, santa, cattolica (= universale, che ha aderito alla fede di Nicea) e apostolica. Crediamo un solo battesimo per la remissione dei peccati e aspettiamo la resurrezione dei morti, e la vita del secolo futuro. Amen”.

Dello Spirito Santo si afferma che:
• è Signore e dà la vita;
• procede dal Padre;
• insieme al Padre e al Figlio dev’essere adorato e glorificato;
• ha parlato per mezzo dei Profeti (il recupero della tradizione veterotestamentaria).

Non è detto esplicitamente che è Dio. Il Padre è Dio; il Figlio è della stessa sostanza del Padre, quindi è Dio; la stessa chiarezza non viene usata per lo Spirito Santo. Per lo Spirito Santo vengono usati degli attributi. Non viene detto chiaramente che lo Spirito Santo è Dio, ma vengono attribuiti allo Spirito Santo caratteristiche che appartengono all’ambito divino (insieme al Padre e al Figlio è adorato e glorificato).

Qui si forma quel “simbolo della fede/credo” che ancora oggi la Chiesa conserva e proclama.

Ora c’è la questione del “figlioque”, cioè lo Spirito Santo procede dal “Padre e dal Figlio”.

Politicamente questo Concilio ha fatto una scelta ben precisa.
Il Canone 3 dice: “Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma”.

Il Papa dell’epoca che sottoscrisse tutto il Concilio, non sottoscrisse questo Canone anche perché il vescovo di Roma giustificava il proprio primato sulla base della successione di Pietro.

Con il Concilio di Costantinopoli è stata risolta in parte la questione sullo Spirito Santo.

FIGLIO

DIO

PADRE SPIRITO SANTO

• Lo Spirito Santo ha la stessa essenza, la stessa natura di Dio.
• Anche lo Spirito Santo si pone in relazione.
• Sono tre relazioni che sono all’interno della divinità,
condividono la stessa divinità, fra di loro sono diverse.

C’è un piccolo problema: questo Spirito Santo è molto diverso da quello che emerge dal pensiero degli evangelisti.
E’ un tentativo di comprendere, servendosi anche del contributo del pensiero filosofico greco, in modo sistematico, quello che è contenuto nei vangeli.
Ma sono mondi culturali diversi: uno, quello semitico, racconta/descrive le cose; l’altro, quello greco, le sistematizza…

I Concili di Efeso e di Calcedonia riguardano Gesù di Nazareth, e precisamente il rapporto in lui tra la natura divina e quella umana.

Il terzo Concilio Ecumenico, tenutosi a Efeso nel 431, si rese necessario per risolvere le controversie cristologiche fra due scuole:
• quella antiochea di NESTORIO, patriarca di Costantinopoli, che accentuava l’aspetto della natura umana di Gesù, a spese di quella divina;
• quella alessandrina di CIRILLO, vescovo di Alessandria d’Egitto, che accentuava la divinità di Gesù a scapito di quella umana.

Come nel caso del Concilio di Nicea, se Gesù si fosse trovato ad Efeso probabilmente non avrebbe compreso quello che vi veniva deciso. Questo per dire che i testi dei Concili sono riflessioni teologiche; sono un tentativo di comprendere ancora più in profondità la realtà, l’intimità, l’essere di Gesù di Nazareth. Naturalmente la nostra è una comprensione parziale; noi conosciamo Dio, conosciamo Gesù di Nazareth solo umanamente e non divinamente se non per analogia.

I Concili non sono la fede; sono un tentativo teologico, di intelligenza critica, di comprensione della fede. Sono dottrine della fede, ma non la fede.

Il Concilio di Efeso non elabora un testo proprio, ma fa propria la II Lettera di Cirillo a Nestorio.

Mentre il concilio di Nicea risolve, per quel momento, il rapporto tra il Padre e il Figlio, il Concilio di Efeso analizza un altro aspetto: come fanno ad esistere in Gesù di Nazareth la natura umana e la natura divina; cosa significa quando si afferma che in Gesù vi sono due nature e una sola persona.

L’iconografia dei primi secoli, soprattutto l’arte bizantina (mosaico di Monreale a Palermo, quello di Cefalù), rappresentava Cristo Pantocratore benedicente con il pollice unito a due dita (anulare e mignolo): il pollice, simbolicamente, significa una sola persona; le altre due dita che si uniscono al pollice indicano la natura umana e la natura divina.

Secondo Nestorio, una natura per essere completa, integra, perfetta, deve anche avere una sua personalità. Non si può parlare di natura umana senza pensare ad un “io umano”.
Se si parla di natura divina, si deve presupporre anche un “Io divino”. In Gesù di Nazareth c’era, secondo Nestorio, una natura divina con un Io divino e una natura umana con un io umano.

Queste due nature, l’io umano e l’Io divino, si uniscono insieme e da questa unione ha origine un altro Io che si chiama Gesù di Nazareth. In Gesù, quindi, vi sono due nature complete e una persona.
In altre parole: Maria e Giuseppe diedero vita ad un uomo: natura umana più io umano.

La natura divina, l’Io divino, cioè il Figlio, prende possesso, in-abita questo uomo, per cui da questa in-abitazione, questo uomo diventa Gesù di Nazareth. Il Logos (il Verbo, il Figlio di Dio) non diventa uomo nel vero senso della parola, ma prende per sé un uomo già fatto. Ecco perché Maria può essere chiamata solo Madre di Gesù Cristo, non Madre di Dio, perché ciò che nasce da lei è semplicemente un uomo che poi viene assunto dal Figlio di Dio.
Il pensiero di Nestorio viene contrastato teologicamente dalla scuola alessandrina perché si avverte, infatti, un fondo di adozionismo. Fu condannato dal Concilio di Efeso, il quale accettò in toto il pensiero espresso da Cirillo di Alessandria (anche questo cristologicamente con forti limiti).

Cirillo affermava che una natura, per essere completa, integra, perfetta, non necessariamente deve avere un proprio “io”, una sua personalità. Cirillo e il Concilio di Efeso affermano che in Gesù di Nazareth c’è una natura umana integra, ma senza l’io umano, e una natura divina con l’Io divino. La natura umana si unisce a quella divina attraverso l’Io divino, che diventa l’unico soggetto in Gesù di Nazareth.
L’Io divino, in tal modo, è il soggetto ontologico interno alla natura umana.

L’azione in Maria viene da Dio e ciò che si forma in lei (embrione) è dal primo momento unità di natura umana e natura divina. Di conseguenza Maria può essere chiamata “Theotokos”, cioè Madre di Dio. Il soggetto essenziale, ontologico in Gesù di Nazareth è non l’io umano, ma l’Io divino.

Se Nestorio rischiava di incrinare la divinità di Gesù, Efeso e Cirillo rischiano di incrinare la sua umanità. Se all’interno di Gesù di Nazareth l’unico soggetto è l’Io divino, si rischia quello che noi abbiamo rischiato nella nostra catechesi per 2000 anni, cioè pensare a Gesù che camminava a un metro e mezzo dalla terra (ad esempio, per spiegare il digiuno di Gesù durato 40 giorni e 40 notti, si diceva che Gesù poteva resistere così a lungo perché era anche Dio…).
Per certi versi Efeso si allontana dal testo dei vangeli.

Il Concilio di Efeso dichiara come completo il testo del Credo di Nicea, condanna il nestorianesimo, accetta la tesi di Cirillo, ma, come abbiamo detto prima, lascia aperto un grande rischio.

Poco tempo dopo, alcuni studiosi cominciano a prendere il pensiero di Efeso e a portarlo fino alle estreme conseguenze. Uno di questi si chiamava Eutiche che è il padre del monofisismo (= una sola natura).

Secondo Eutiche, prima dell’incarnazione vi sono due nature, l’umana e la divina, che si possono ben distinguere ed individuare. Dopo l’incarnazione, resta una sola natura, l’altra non è distinguibile. Faccio un esempio:
lago di Garda – natura divina
bottiglia di olio in mano – natura umana.
Le due nature sono perfettamente distinguibili.
Verso l’olio nel lago. L’olio diventa acqua? No, resta olio, ma si “dissolve” nell’acqua.
Nel momento in cui la natura umana si unisce alla natura divina nella persona del Verbo, non scompare ma si dissolve e non è più rintracciabile.

Nel 451 si convoca un altro Concilio, questa volta a Calcedonia. E’ un Concilio importante perché ha messo un riparo alla deriva che il Concilio di Efeso avrebbe certamente provocato.

IL CONCILIO DI CALCEDONIA AFFERMA:

Seguendo i santi Padri, all’unanimità, noi insegniamo che si deve credere nell’unico Figlio e Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e completo nella sua umanità (qui viene approvata la linea di Efeso contro Nestorio), vero Dio e vero uomo, composto di anima razionale e di un corpo, consostanziale al Padre quanto alla divinità, e consostanziale a noi quanto all’umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato, generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria vergine e madre di Dio, secondo l’umanità, un solo e medesimo Cristo, Signore Figlio unigenito; da riconoscersi in due nature, inconfuse, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi; Egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo Figlio, unigenito, Dio, verbo e signore Gesù Cristo, come prima i profeti e poi lo stesso Gesù Cristo ci hanno insegnato di lui, e come ci ha trasmesso il simbolo dei padri.

Inconfuse = non fuse l’una nell’altra;
immutabili = l’una non diventa l’altra;
indivise = unite, non giustapposte una accanto all’altra o sopra l’altra;
inseparabili = Gesù resta sempre l’unità di questa unione, senza che sia mai stata eliminata la differenza delle due nature per la loro unione, anzi restando integra la proprietà di ciascuna natura, ognuna delle quali concorre nell’unica persona. Non divise in due persone: io umano e Io divino, ma unico Figlio unigenito.

In sintesi: due nature, umana e divina, unite ma non confuse, distinte ma non separate (ciò che è umano resta umano, ciò che è divino resta divino).

E’ chiaro che nel corso dei secoli ci sono stati dei problemi nel senso che, se Gesù è veramente uomo, vuol dire che nel corso della sua esistenza ha dovuto imparare certe cose. Ciò implica che non le sapeva. Possiamo ammettere in Gesù la nescenza (= non conoscenza)?

Se Gesù non conosceva il teorema di Pitagora, o non conosceva la geografia e apprendeva ciò che si sapeva ai suoi tempi (sull’estensione delle terre emerse, sulla forma della Terra, sulla sua posizione nell’Universo), allora forse Gesù poteva non conoscere qualcosa che riguardava il suo essere, il suo rapporto con Dio, o altre cose fondamentali in ordine alla salvezza?

Ecco che in seguito si arriverà a fare una formulazione dogmatica con la quale viene condannato chi afferma che Gesù era “ignorante” in qualche cosa.

Perché questa incapacità di accettare che Gesù qualche cosa non conoscesse e questo tentativo di difendere a tutti i costi una conoscenza universale di Gesù di Nazareth? Il punto di partenza è dato dalla cultura e dalla filosofia greca che sottostà a questa riflessione teologica.
Per il mondo greco il concetto di perfezione implicava la totalità. Se Dio è perfetto, lo è nella sua natura, nel suo essere, nella sua conoscenza. Se è perfetto, deve sapere tutto. Se Gesù è anche Dio, deve sapere tutto.
Ecco allora che si arriva a identificare l’essere, la coscienza, con la conoscenza.

Calcedonia, però, dice che ciò che è umano resta umano. E allora come risolvere questo problema?
Ecco la soluzione: quando Gesù dice di non sapere certe cose, non è perché non lo sa, ma fa finta di non saperle.

La filosofia greca, oltre a partire dal dato della perfezione, portava ad identificare in Gesù la coscienza con la sua volontà. Se Gesù è Dio, non può non sapere tutto; se ignora qualche cosa, significa che non è Dio. Questo nei vangeli non lo troviamo. Questo è un presupposto che appartiene ad un concetto di perfezione veicolato dal mondo greco.

Ripeto: un concetto di perfezione; una identità tra la coscienza, cioè tra l’essere, e la conoscenza in Gesù, per cui ad una perfetta coscienza deve corrispondere una perfetta conoscenza. O Gesù sa tutto e allora è Dio, o ignora qualcosa e allora Dio non è. La nescenza in Gesù non può essere.
E’ chiaro che un discorso del genere oggi dal punto di vista cristologico regge poco e risulta fortemente incompleto perché per riflettere su Gesù occorre, necessariamente, partire dai vangeli.
Preghiera dei fedeli.
Già nei primi secoli c’era chi legava questa preghiera alla liturgia della Parola e chi al momento eucaristico.
In Tertulliano abbiamo: preghiera universale, bacio della pace e poi la preparazione della mensa.

Allo stesso modo in Giustino: “Facciamo con fervore preghiere per voi e i vostri fratelli, in qualunque luogo si trovino. Quando le preghiere sono terminate, ci diamo il bacio della pace, poi inizia la preparazione della mensa” (Apologia).

La preghiera può esser vista in relazione alla Parola perché il mercoledì e il venerdì santo non vi era la liturgia eucaristica e il rito terminava con la preghiera dei fedeli.
In ogni caso, questa preghiera solenne dei fedeli è vista nell’ottica di conclusione della liturgia della pasqua.

Questa preghiera nasce in un contesto di legame con la preghiera ebraica delle “18 Benedizioni”: è una preghiera fatta dai fedeli ed è una richiesta di intervento rivolta a Dio (cfr. la chiesa che prega per la liberazione di Pietro in atti degli apostoli).

S. Policarpo, vescovo di Smirne e ucciso a Roma per la fede, durante il suo trasferimento scrisse una lettera ai cristiani di Roma affinché non intercedessero per impedire la sua morte.

Sempre Policarpo, nella sua lettera ai Filippesi (inizio II secolo), scrive: “Pregate per tutti i santi (ndr. cioè i cristiani), anche per i re e le autorità e i principi e coloro che vi odiano, i nemici della croce, così il frutto che porterete sarà visibile a tutti e voi sarete perfetti con lui”.

Grande importanza fu riconosciuta a questa preghiera fino al V secolo, poi vi fu un declino per ricomparire verso l’ottavo secolo.

La preghiera dei fedeli deve tener presente ed evidenziare il legame con le Letture e deve avere un rapporto con la vita di oggi e i bisogni della comunità.

Nei primi secoli questa preghiera era la prima perché non esisteva ancora la Colletta ed era la risposta della comunità all’invito della Parola di Dio.

Le intenzioni della preghiera devono sempre essere inserite nella storia della salvezza celebrata nell’eucaristia.
Preparazione eucaristica.
Giustino: “Quando cessiamo di pregare vengono portati vino, acqua e pane a chi presiede, il quale eleva la sua preghiera al cielo”.

Cipriano: “Bisogna mescolare acqua e vino, simbolo dell’umanità mista alla divinità” (ecco perché poche gocce d’acqua/umanità nell’abbondante vino/divinità).

Giustino: “Quanti sono nell’abbondanza, se vogliono, donano ciascuno quanto vuole e il ricavato viene posto ai piedi di chi presiede che assiste i poveri, i malati, i carcerati”.
Per Ippolito di Roma, al momento del battesimo, il battezzando non deve portare nulla con sé, salvo il pane per la mensa.

S. Cipriano fa dell’offerta un obbligo di coscienza per i fedeli che ne hanno la possibilità.

Per Ambrogio e Agostino, i fedeli devono portare il pane e il vino per partecipare al sacrificio. Il sacerdote è il ministro, lo strumento di questa offerta che l’assemblea fa di sé col pane e vino, elementi essenziali dell’eucaristia.

Le offerte, escluso pane-vino-acqua, erano fatte prima o dopo la messa? Non lo si sa.
Il Concilio di Ippona (393) fa obbligo di portare alla mensa solo il necessario, mentre il resto deve essere raccolto altrove.
Nascono così le “sacrestie” per immagazzinare il raccolto.

Lo stesso “lavaggio delle mani” era un atto concreto, necessario per ripulirsi dalla raccolta che il sacerdote stesso effettuava.
In seguito ha acquisito un altro significato: “Purificami Signore dai miei peccati…”

Il sacerdozio universale dei fedeli viene rappresentato proprio dall’Offertorio. Il fedele, grazie al battesimo, partecipa al rito dove il sacerdote è ministro dell’offerta dell’intera assemblea: “Mio e vostro sacrificio…”.

Per il sinodo di Elvira (Spagna) l’offerta non è permessa, perché inutile, a chi non fa la comunione.
In questo sinodo si instaura uno stretto legame fra. Offertorio-Preghiera Eucaristica-Comunione.

Oltre ai fedeli anche i religiosi e i preti, che facevano la comunione, dovevano fare l’offerta. Quindi tutti insieme offrono il sacrificio eucaristico.

Tutte le offerte venivano fatte senza preghiere e solo alla fine c’era la “oratio super oblata”, la preghiera sulle offerte.
Questa era una preghiera intermedia col compito di interpretare ciò che era stato fatto e preannunziare l’offerta sacrificale.
Tale preghiera era anche detta “segreta” perché il prete la recitava sottovoce. Con la riforma, viene proclamata ad alta voce.

L’Ordo Romanus prescriveva che deve essere il clero ad andare tra i fedeli a raccogliere le offerte perché il prete è al servizio della comunità.

Ma questo significato si è man mano perso e nel medioevo sono stati i fedeli ad andare verso il sacerdote, esprimendo in tal modo un’idea di Chiesa verticistica.

Inizialmente vi era anche l’incensamento delle offerte e dell’altare.

Altre forme. Vi erano anche due tipi di lavanda delle mani: papa e arcidiacono si lavavano le mani prima e dopo le offerte; per purificarsi nel primo caso e pulirsi nel secondo.
Questa raccolta era accompagnata spesso da preghiere penitenziali per accogliere la discesa maestosa del Signore.

Preparazione dell’altare.
Il suddiacono (ministero che non esiste più) prendeva la patena avvolta nel velo omerale e stava dietro il celebrante fino alla frazione del pane, quando la patena veniva esposta ai fedeli.
Oggi il nuovo “ordo” prevede che l’altare sia già preparato fin dall’inizio della messa.
Celebrazione Eucaristica.
S. Giustino (Apologia) allude per due volte alla Preghiera Eucaristica.
Com’è composta? Da una lode e un’azione di grazie al padre attraverso il Figlio e lo Spirito santo.
Tema principale di questa azione è la storia della salvezza dalla creazione al mistero pasquale.
Nell’ambito di questo tema, ogni sacerdote poteva inventarsi le formule in quanto vi era la più ampia creatività.

Ippolito (215) ci presenta il testo definitivo come veniva celebrato a Roma. E’ il testo più antico a disposizione.
Dopo il dialogo iniziale, una breve storia della salvezza che sfocia nella Cena-Passione-morte-Risurrezione di Gesù.
La preghiera al Padre di inviare lo Spirito santo sulla celebrazione perché tutti fossero fortificati.
Conclusione con la lode: “Per Cristo, a te sia gloria e onore con lo Spirito santo nella santa Chiesa”.
Seguiva la frazione del pane e la comunione.

Interessante ed essenziale il mutamento cristologico:

1) Mentre nella versione di Ippolito la storia della salvezza termina con il mistero pasquale di Gesù, nel nostro Canone si procede oltre, sino alla consumazione dei secoli (parusia), sino alla vita eterna.
2) In Ippolito, come in altri, i simboli del sacrificio eucaristico sono Abele-Abramo-Melchisedec e vengono menzionati alla fine; nel canone romano invece si trovano all’inizio perché alla fine c’è solo il sacrificio di cristo, quello assoluto-conclusivo-definitivo.
Prefazio.
E’ il dialogo che apre la Preghiera Eucaristica. Era presente in Ippolito e ricordato da Ambrogio. E’ un dialogo variabile, a volte ogni messa ne aveva uno.
Nel secolo XI furono ridotti a nove (per evitare una moltiplicazione rischiosa, in cui ognuno poteva inventarsi qualcosa).
Il Concilio Vaticano II li ha di nuovo moltiplicati per dire la ricchezza e l’universalità della Chiesa.
Santo.
E’ recitato alla fine del Prefazio. Non era presente in Ippolito. Papa Sisto V lo introduce verso il 530 riprendendolo dal profeta Isaia 6, 3: “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della tua gloria”.
Inizialmente era riservato alle messe solenni.
Canone.
Sono quattro: romano – secondo (breve) – terzo (domenicale) – quarto (lungo).

Canone romano.
Inizia con la preghiera di supplica allo Spirito santo. Questa preghiera costituisce un’insistenza nuova sull’offerta del sacrificio e sul significato dell’eucaristia e sottolinea due movimenti: uno nell’offerta del sacrificio al Signore e l’altro nella benevolenza di Dio su quelli che vi partecipano.

Il silenzio e la preghiera a bassa voce, assenti in origine, forse sono dovuti all’influenza della Chiesa Orientale dove, al momento della consacrazione, si frappone un telo (=separazione) tra sacerdote e assemblea per evidenziare che la consacrazione è azione sacerdotale e non dell’assemblea nella sua interezza.

Concetto, questo, che viene abbandonato dal Concilio Vaticano II, per il quale è l’assemblea il soggetto della celebrazione ed evidenziandolo con la enunciazione ad alta voce.

L’elevazione dell’ostia e del calice del calice al momento della consacrazione sottolineano la concezione del sacrificio della messa come discesa del Signore sull’altare.
Da qui, il desiderio dei fedeli di vedere.
Tale elevazione sottolinea l’efficacia immediata delle parole della consacrazione.

I Segni della Croce durante il Canone si moltiplicano ed hanno il significato non di vedere nella messa la riproduzione dell’ultima Cena e attraverso di essa l’attualizzazione del sacrifico del Calvario, ma la rappresentazione diretta del Calvario, la morte di Gesù in Croce, da simboleggiare il più possibile.
Non il Calvario mediato dalla Cena, ma il direttamente il Calvario.

Canone secondo (breve).
Ricalca la tradizione apostolica di Ippolito.
In Ippolito lo Spirito santo veniva menzionato come Colui che doveva agire per rafforzare la fede in chi partecipava dell’offerta del pane e del vino .
In questo canone, tale legame si è indebolito: prima della consacrazione si chiede l’intervento dello Spirito santo al fine della consacrazione stessa e dopo si chiede che tutti siamo radunati in un solo corpo.

In altre parole: non si proclama che proprio perché partecipiamo del pane e del vino, che lo Spirito santo ha trasformato, anche noi siamo trasformati e riuniti in un solo corpo.
Tale legame non è presente in nessuna della quattro Preghiere Eucaristiche.

Canone terzo (domenicale).
E’ simile alla seconda. Inizia con le parole “Padre veramente santo…” e continua con le relative motivazioni: creazione, dono della vita, santificazione di tutte le cose, azione continua con cui Dio raduna il suo popolo per un sacrificio puro e perfetto.

Quindi la preghiera allo Spirito santo che realizza l’opera di Dio: l’offerta pura a Dio non è possibile senza l’azione santificatrice dello Spirito santo e di qui l’invocazione affinché lo Spirito scenda a santificare il pane e il vino e a farli diventare, nella consacrazione, corpo e sangue di Cristo.

Le diverse intercessioni insistono sulla riconciliazione con Dio; la salvezza che deve estendersi al mondo intero; il rafforzamento della fede e della carità.

La preghiera per la Chiesa parte dal papa e dai vescovi per arrivare “al popolo che tu hai redento”.
E’ ancora una concezione di Chiesa verticistica e in dissonanza con la ecclesiologia della Lumen Gentium.
Si nota ancora il difficile cammino tra chi tira in avanti e chi spinge per tornare indietro.

Canone quarto (lungo).
E’ la preghiera più vicina alla benedizione ebraica. La storia della salvezza si dispiega in forma più articolata rispetto alle altre preghiere eucaristiche. Ha un proprio prefazio, strettamente legato ad essa.

Mistero della fede. Tale acclamazione evidenzia l’oggetto della nostra fede.
Tutta la celebrazione eucaristica è rivolta al Padre, mentre il mistero della fede si rivolge al Figlio.

Amen. Con questa acclamazione si conclude la preghiera eucaristica. Ha termine la parte centrale della celebrazione e ci si apre al suo culmine.
Tutta la celebrazione ha senso solo se sfocia nella comunione. E’ qui che si realizzano le parole di Gesù: “mangiate il mio corpo – bevete il mio sangue”.
Padre nostro.
E’ la prima preghiera dopo la dossologia (“Per Cristo, con Cristo…”) e la piccola elevazione e prepara alla comunione.

Questo non fu sempre il suo posto ed è stato S. Gregorio che lo ha voluto lì dove è oggi.
A Roma e nei riti ambrosiani aveva posto dopo la frazione del pane, ossia quando il rito sacrificale propriamente detto era finito e si era già entrati nei riti di comunione.
Rito di pace.
L’augurio della Pace è legato al bacio di pace, o bacio santo, che lo segue.
Nei primi tempi era posto all’inizio della celebrazione, non era legato alla comunione che segue, ma a ciò che la precede.
Era un segno che il popolo acconsentiva a quanto si era compiuto nei misteri.

Posto dopo la consacrazione, come ora, diventa una preparazione alla comunione alla luce di un perdono che ha in Cristo il suo fondamento.
Comunione.
La comunione dei ministri ha sempre preceduto quella dei fedeli.
Il prete deve farlo nelle due specie evidenziando il valore delle parole di Gesù: mangiare e bere.

Termina qui questo breve cammino all’interno della messa.
Ho sintetizzato alcuni elementi dei diversi canoni, ma questo è il lavoro che resta da fare per comprendere tutto il cammino teologico sottostante ai testi e le nuove e ricche prospettive teologiche.
[Antonio Lurgio]
novembre 2009 – marzo 2010