2° incontro
Canova, 15 febbraio 2008
don Marcello Farina
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1) La prima diffusione del Cristianesimo
‘Nato in Palestina sul tronco della religione giudaica, e dunque appartenente al ceppo delle religioni orientali, già nella seconda metà del primo secolo il Cristianesimo non è più un fenomeno esclusivamente orientale e giudaico’ (G. Iossa, Il Cristianesimo antico, p. 47). La prima comunità cristiana – la Chiesa delle origini – nasce dalla fede post-paquale, che riconosce che Gesù di Nazareth non può essere “ricondotto” e interpretato all’interno della storia del suo popolo di provenienza. Essa, come si è già visto, ha cominciato a staccarsi dalla sua matrice giudaica ed è ormai, come Paolo di Tarso non si era mai stancato di affermare nella sua predica-zione e nelle sue lettere, Chiesa di giudei e pagani. Anzi, con le decisioni del Concilio di Gerusalemme (49 d.C.) e la caduta della città santa nella guerra giudaica contro i Romani (68-70 d.C.), essa sarebbe diventata sempre più Ecclesia ex gentibus, quelle genti che popolavano l’impero romano-ellenistico.
Se noi seguiamo il racconto di Luca negli Atti degli Apostoli, che è l’unica fonte che possediamo per questo periodo cruciale, ci ritroviamo all’interno di un discorso molto semplice e lineare. Nato in Palestina, e quindi giudaico nella sua origine, il Cristianesimo si diffonde nel mondo romano e attraverso le città greche giunge alla capitale dell’Impero. Gerusalemme – Atene – Roma: questo è il cammino, guidato da Dio, della predicazione cristiana. È idealmente in questo viaggio dell’annuncio cristiano della seconda metà del primo secolo che si costituisce, attraverso i testimoni della risurrezione del Signore, la Chiesa, come popolo pere-grinante verso il Regno di Dio. È in questo cammino che la composizione nella Chiesa si struttura e si modifica a seconda delle necessità. Si potrebbe dire: non a partire da schemi prefabbricati, che potessero essere ricondotti a Gesù di Nazareth. «La sua predicazione era tutta orientata a interpellare il suo popolo per conquistar-lo al proprio messaggio», non per istituire una Chiesa.
Per i primi cristiani Gesù è il fondamento, la ragione del loro ritrovarsi insieme, non il fondatore della comunità cristiana in un atto esterno e giuridico, addirittura corredato di un magistero, di un sacerdozio, dei sacramenti, di un corpo di dottrine. Purtroppo questa operazione di “ricondurre Gesù nel tempio”, tradendo i connotati essenziali della sua esistenza profetica vissuta nella più aperta “profanità” (laicità) è ancora presente nella storia del Cristianesimo e delle Chiese.
Invece l’assetto istituzionale della Chiesa è e deve rimanere opera delle mani degli uomini e delle donne nel corso della storia, soggetta, come ogni realtà umana, ai processi evolutivi di ogni “strutturazione” sociale, che sia conforme allo stile di vita di Gesù e al suo insegnamento, tanto più che l’evangelo è forza critico-creatrice di conversione anche strutturale.
Il “cammino-fondazione” della Chiesa primitiva, secondo Luca, è caratterizzato dall’iniziativa di Paolo. È Paolo che cerca prima le comunità giudaiche e predica nelle loro sinagoghe. Ma il mondo giudaico nel complesso lo respinge ed egli si rivolge allora a quello pagano, presso il quale riscuote un ben diverso successo. La Chiesa dunque diventa greca e raggiunge Roma.
In realtà lo schema lucano è fin troppo semplice. La componente giudaica ha continuato ad essere presente con un ruolo molto forte nel primo e nel secondo secolo. Ed è esistito anche un giudeo-cristianesimo che, dentro e fuori dell’impero, ha continuato a sostenere la necessità della legge. A Gerusalemme, soprattutto dopo la partenza di Pietro, il cosiddetto “partito di Giacomo” esprime proprio questa tendenza, così da dare alla chiesa palestinese una fisionomia tipicamente giudaica. E dopo la guerra contro Roma comunità giudeo-cristiane, legate quindi ancora all’osservanza della legge, continueranno a vivere in Siria e in Asia minore, anche se ormai ai margini della “grande Chiesa”. Addirittura l’impronta giudaica e la lingua aramaica vengono usate da gruppi di cristiani in oriente, fuori dall’impero romano, secondo una tradizione collegata ai nomi di Tommaso e di Addai, di cui restano tracce in cronache locali (La Cronaca di Addai e La Cronaca di Arbela).
Per il resto è vero che, come racconta Luca, la diffusione del Cristianesimo, ad opera soprattutto di Paolo, ha seguito le grandi vie di comunicazione che per-correvano l’impero romano per mare e per terra. Siria, Cilicia, Asia minore, Grecia e infine Italia sono state le aree fondamentali dell’azione di Paolo nei suoi continui viaggi missionari. Antiochia è stata il centro di irradiazione del Cristianesimo in questo periodo e poi Efeso, Smirne, Filippi, Tessalonica, Atene, Corinto, Roma. È da queste città che provengono infatti le manifestazioni più significative del pensiero e della letteratura cristiani di questo periodo: ad Antiochia devono quasi certamente la loro origine la Didachè e l’Ascensione di Isaia e lì è stato vescovo per alcuni anni Ignazio all’inizio del secondo secolo; ad Efeso è sicuramente legata la tradizione giovannea che si esprime nell’Apocalisse e nel quarto Vangelo e che sarà ripresa da Giustino e dai quartodecimani, cioè da coloro che celebravano la Pasqua sempre al 14 di Nìsan, cioè nel giorno della pasqua ebraica. Smirne avrà come vescovo per più di cinquant’anni Policarpo, così da diventare uno dei maggiori centri di irradiazione del Cristianesimo nel secondo secolo e Roma porta con sé le tracce profonde della presenza di Pietro e Paolo e poi di Clemente, “vescovo” alla fine del primo secolo, punto di riferimento per le comunità cristiane dell’epoca.
Attraverso il racconto lucano dell’attività missionaria di Paolo veniamo a cono-scere anche le modalità della diffusione della nuova religione. Lo si è già accennato sopra: prima Paolo si rivolge alle comunità giudaiche, cercandone il luogo di riunione; poi, respinto da esse, egli si rivolge ai pagani (ai “gentili”). Ma anche costoro a volte protestano contro l’attività missionaria di Paolo. Essi sembrano temere soprattutto per i loro interessi economici, strettamente legati alle forme di culto locali. È curioso poi il fatto che se le autorità locali, di fronte alle varie denunce contro Paolo, si mostrano poco propense ad accogliere quelle di parte giudaica, sono molto più sensibili invece nei confronti di quelle dei pagani, pur riservando in genere all’apostolo, che è cittadino romano, una certa considerazione.
2) Le prime comunità cristiane nel mondo pagano
Ma come vivono e come sono organizzate le prime comunità cristiane, le prime ‘chiese’? A dir il vero non ne sappiamo molto. La documentazione è scarsa e non sempre sicura. Le lettere di Paolo di Tarso sono scritti occasionali e toccano solo alcuni aspetti della vita della comunità; gli Atti degli Apostoli hanno i ‘limiti’ ricordati più volte sopra. Altri scritti sono ormai della fine del primo secolo (gli scritti ‘giovannei’, ecc.).
Il primo dato significativo è che le prime chiese nascono tutte in ambito cittadi-no e tendono ad assumere un aspetto greco-romano, a parte le frange consistenti di giudeo-cristianesimo in Siria e Palestina già ricordate sopra.
Nelle grandi città dell’Asia e della Grecia sono ormai sorte delle comunità che sono molto lontane dalle speranze messianiche e dalla tradizione legalistica della religione giudaica e che tendono a organizzarsi e a strutturarsi in forma autonoma secondo il modello o delle sinagoghe ellenistiche o di altre associazioni di culto. Sono in primo luogo le chiese che Paolo ha fondato, che portano con sé la sedi-mentazione della sua predicazione o, comunque, i problemi sollevati da essa: il conseguimento della salvezza mediante la fede e la libertà dei pagani dalla legge giudaica (mosaica); il valore salvifico della croce di Cristo e la speranza della risurrezione dai morti; la struttura carismatica della Chiesa di Cristo e il carattere cultuale della cena del Signore.
Ma in Asia minore, accanto ad esse, ci sono anche le chiese cui si è diretta la predicazione successiva dell’apostolo Giovanni. Le conosciamo per esempio dalle sette Lettere con cui si rivolge ad esse l’autore dell’Apocalisse: Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. Queste chiese ‘giovannee’ esprimono in effetti una tradizione diversa, non priva di tensioni e di contrasti con quella paolina, proprio perché maggiormente segnata dalla eredità giudaica (soprattutto dalla eredità ‘apocalittica’, che poi darà luogo a quella che viene definita dagli studiosi la “teologia Asiatica”, di Papia, di Giustino, di Ireneo). In realtà, anche queste comunità sono centrate sulla venerazione cultuale del Cristo morto e risorto come Salvatore e Signore dei credenti e sono fornite di regole di vita, di cerimonie e di strutture organizzative proprie, così da apparire come associazioni religiose di stampo ellenistico.
Per quanto, poi, sia estremamente difficile determinare con qualche precisione la composizione sociale delle prime comunità cristiane, sembra che i ceti mag-giormente contattati siano quelli degli artigiani, dei commercianti, degli stranieri (militari soprattutto) portati nelle varie città dell’impero romano dalla fortuna. Questi fedeli si riuniscono nelle case private, messe a disposizione dai membri più agiati della comunità per la preghiera, per le letture e per quelli che fin dall’inizio appaiono come i due riti principali della vita comunitaria: l’eucaristia e il battesimo. Intorno ad essi gravita l’intera vita religiosa comunitaria.
‘Anche se i particolari sono stati sempre oggetto di discussione tra gli studiosi, l’origine e la natura della eucaristia sembrano abbastanza chiare. L’eucaristia, nei primi tempi definita ancora spesso fractio panis (Atti 2, 42; 20, 7), è il ricordo attua-lizzante dell’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli. L’identificazione fatta da Gesù durante quella cena del pane e del vino con il suo corpo e il suo sangue dati in sacrificio per gli uomini e l’invito a ripetere il rito in memoria di lui (1 Cor, 11, 23-25: «Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, rese grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me”» sono stati infatti ripresi dai discepoli e interpretati come l’attualizzazione della salvezza data nella morte e risurrezione di Gesù. Come dice Paolo, l’eucaristia è il sacramento della memoria e della comunicazione della salvezza. «Ogni volta che mangiate questo pane e bevete il calice, annunciate la morte del Signore finché egli venga» (1 Cor. 11, 26). È il rito di partecipazione alla vita divina e di unione dei fedeli tra loro (1 Cor. 10, 16-17: «Il calice della benedizione che noi benediciamo non è comunione con il sangue di Cristo? Il pane che spezziamo non è comunione con il corpo di Cristo? Essendo uno solo il pane, noi siamo un corpo solo sebbene in molti, poiché partecipiamo tutti dello stesso pane»). Questa eucaristia, legata, come ho detto, al ricordo dell’ultima cena di Gesù con i suoi, ha luogo nei primi tempi, nelle case private, il primo giorno della settimana (il «giorno del Signore»), ancora nella cornice di un comune banchetto (l’agape) e si svolge in un atmosfera di esultanza escatologica per il ritorno imminente del Signore (maranathà). Gli inconvenienti frequentemente verificatisi nella celebrazione di questo banchetto e denunciati vigorosamente da Paolo nella 1 Lettera ai Corinzi provocano però abbastanza rapidamente il distacco dall’agape del rito sacramentale vero e proprio. Mentre il venir meno dell’entusiasmo escatologico determina una progressiva concentrazione della celebrazione sugli aspetti più schiettamente rituali e sacramentali di comunicazione della vita divina’ (G. Iossa, op. cit., pp. 55-56).
Più difficile è indicare l’origine del rito del battesimo. Durante la sua vita non sembra che Gesù abbia battezzato. Se lo ha fatto, come vuole indicare il vangelo di Giovanni, lo ha fatto all’inizio della sua attività, quando ancora collaborava con Giovanni Battista. E quello era un semplice rito di penitenza.
‘Il comando di impartire il battesimo (che una maggiore affinità può forse avere col battesimo impartito ai proseliti con la circoncisione) viene posto in realtà dai Vangeli sulla bocca del Cristo risorto (Mc. 16, 16; Mt. 28, 19). E il rito ha un carattere eminentemente cristologico (la formula trinitaria di Matteo 28, 19 costituisce uno sviluppo della tradizione) e squisitamente sacramentale. Secondo Luca, alla fine del discorso di Pentecoste, ai giudei che chiedono che cosa devono fare Pietro risponde: «Pentitevi e ognuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per ottenere il perdono dei vostri peccati; e riceverete il dono dello Spirito Santo» (Atti 2, 38). La comunità crede dunque che nel battesimo si realizzi in maniera efficace la comunicazione della salvezza operata dalla morte e risurrezione di Gesù. esso attua infatti la remissione dei peccati e comunica il dono dello Spirito. Somministrato per adesso soltanto agli adulti in seguito alla conversione, mediante una immersione in «acqua viva» (Didachè 7, 1; ma l’immersione ha ceduto rapidamente il passo a una più semplice aspersione) che simboleggia sepoltura e rinascita, il battesimo introduce i credenti alla vita nuova inaugurata dalla morte e risurrezione di Gesù. È perciò il rito fondamentale della iniziazione cristiana, l’ingresso nella comunità dei salvati da Cristo (Rom. 6, 3-4: «O non sapete che tutti quelli che fummo battezzati in Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte? Fummo dunque sepolti con lui per il battesimo nella morte perché, come Cristo fu risuscitato dai morti per la gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova») (G. Iossa, op. cit., pp. 56-57).
A questi due riti (segni-sacramenti) si aggiungono progressivamente altre cele-brazioni che lentamente sostituiscono quelle della tradizione giudaica. La celebrazione della domenica, innanzitutto che si aggiunge prima e si sostituisce poi al sabato, e che non è più la celebrazione del riposo di Dio e della creazione, ma il ricordo del giorno del Signore (‘dies dominica’ – Kyriakè heméra), memoria della risurrezione e attesa della parusia. E la celebrazione della Pasqua che, più ancora della domenica, non è soltanto più il ricordo della uscita degli Ebrei dall’Egitto e della liberazione dalla schiavitù del peccato, ma la celebrazione della morte e risur-rezione del Signore, vero agnello pasquale che con il suo sacrificio spirituale ha sostituito e abrogato il sacrificio materiale degli agnelli del tempio (1 Corinti 5, 7; Giovanni 19, 36).
A questi riti, e a quello della Pasqua in particolare si legano i digiuni, anch’essi accolti dalla tradizione giudaica, ma assunti a sottolineare la nuova vita spirituale introdotta dalla morte e risurrezione di Gesù di Nazareth.
Quanto alla vita e alla organizzazione delle comunità, colpisce anzitutto la solidarietà dei suoi membri. Non solo Luca mette in evidenza, come abbiamo visto, questi atteggiamenti, enfatizzandoli anche un poco, ma anche Paolo e perfino alcuni autori pagani come Plinio il Giovane e Luciano di Samosàta, che restano colpiti e impressionati da quegli atteggiamenti.
Tutto questo comporta ovviamente l’emergere sempre più evidente di una orga-nizzazione adeguata. Ed è anche questo un problema estremamente difficile. Si è già ricordato come, nei primi tempi della comunità delle origini, l’autorità risiedesse nelle mani dei Dodici (si veda l’elezione di Mattia narrata dagli Atti); poi accanto ai dodici si pongono i Sette, con funzioni non soltanto di assistenza, ma anche di missione ed evangelizzazione; e poi Giacomo, che dopo la partenza di Pietro, diventa il capo effettivo della comunità di Gerusalemme. E al Concilio di Gerusalemme, insieme agli apostoli, un ruolo significativo lo hanno “i presbiteri” (Atti 15, 2.4.6. 22-23).
‘Questa pluralità di funzioni ecclesiastiche si ritrova egualmente nelle comunità ellenistiche. In un primo tempo è probabile che nella vita delle comunità un ruolo assai significativo fosse svolto dagli apostoli e dai predicatori itineranti e che nella stessa comunità largo spazio fosse riservato ai detentori di doni straordinari dello Spirito. L’immagine di Chiesa della 1 Lettera ai Corinzi di Paolo comprende infatti apostoli, profeti e dottori (1 Cor. 12, 28-29), che saranno stati prevalentemente predicatori itineranti, e accenna alla presenza all’interno della comunità dei più svariati doni dello Spirito (guarigioni, profezia, glossolalia, ecc.). Ma piano piano l’entu-siasmo cede il passo all’organizzazione. Ai profeti e ai predicatori itineranti si aggiungono «presbiteri» e «vescovi» sedentari. E gradatamente, ma non senza contrasti (ad Antiochia per esempio la Didachè e l’Ascensione di Isaia sembrano testimoniare tensioni anche forti tra i persistenti gruppi profetici e questa più definita “gerarchia” ecclesiastica), il governo della comunità locale è assunto da un collegio di questi presbiteri, all’interno del quale, con sviluppi diversi da città a città, emerge la figura di un vescovo monarchico. Se le cosiddette Lettere pastorali (1 e 2 a Timoteo, a Tito) attribuite a Paolo, ma in realtà risalenti agli ultimi anni del primo secolo, già evidenziano uno sviluppo significativo della organizzazione ecclesiastica, con il loro riferimento a «vescovi» e «presbiteri» (ancora non distinti chiaramente tra loro), le lettere di Ignazio di Antiochia (circa del 110 d.C.) mostrano infatti che in Siria e in Asia minore già alla fine del primo secolo esiste la figura di un vescovo che governa la chiesa, mentre a Roma e in altre località dell’impero si mantiene più a lungo una forma di governo collegiale’ (G. Iossa, op. cit., pp. 58-59).
3) La formazione del Nuovo Testamento
Ma qual è la regola per la fede e la vita di queste comunità? Come si sa, i primi discepoli di Gesù non hanno messo subito per iscritto la storia e l’insegnamento del loro maestro. Essi affermano però che Gesù di Nazareth è il messia di Israele, nel quale si è realizzata l’attesa secolare del popolo ebraico, così che anche la Scrittura che essi conoscono e a cui continuano a fare riferimento (il Vecchio Testamento) ha trovato il suo compimento nella predicazione e nella vita stessa di Gesù (il Nuovo Testamento).
È per questo che gli stessi discepoli si spingono a raccontare le vicende della vita di Gesù fin nei minimi particolari (soprattutto della sua passione), anche per difendere quella memoria dalle accuse dei loro connazionali.
E a questo primo racconto della passione che è il più antico, si sono aggiunti poi progressivamente altri testi, come la raccolta di parole (i Loghia) di Gesù e le prime narrazioni di episodi della sua vita (parabole del regno, controversie con i farisei, storie di miracoli, discorso escatologico, ecc.) che poi entreranno a far parte del testo dei Vangeli.
Nella loro stesura definitiva i testi più antichi che noi oggi possediamo sono le lettere di Paolo. Tredici lettere si presentano come paoline, ma non sono tutte di Paolo. Di esse, oggi, soltanto sette vengono attribuite da quasi tutti gli studiosi all’apostolo di Tarso (la 1a lettera ai Tessalonicesi, la lettera ai Filippesi, la lettera ai Galati, le due lettere ai Corinzi, la lettera ai Romani e la lettera a Filemone). Queste sette lettere costituiscono il primo nucleo di quello che sarà il Nuovo Testamento. E al termine di un processo assai complesso di formazione letteraria, che va dalla predicazione orale dei primi discepoli, fino alla redazione di vere e proprie opere unitarie, a questo nucleo iniziale si aggiungono i quattro Vangeli (nell’ordine: Marco, Luca, Matteo e Gio-vanni).
Come si presentano questi Vangeli dal punto di vista di una storia del pensiero e della letteratura cristiani? Va subito detto che essi non possono essere considerati come vite di Gesù o comunque come opere di storia. L’intenzione dei Vangeli è eminentemente teologica. Essi vogliono testimoniare e confessare la fede della comunità in Gesù di Nazareth messia e figlio di Dio. Non quindi la figura di Gesù come è apparsa agli abitanti della Palestina durante la sua vicenda terrena (‘secondo la carne’), ma la figura di Gesù come è stata compresa dai discepoli nella fede dopo la risurrezione (‘secondo lo Spirito’). È la fede post-pasquale che ‘informa’ i Vangeli, così che in seguito si è posto il problema del rapporto tra il Gesù storico e il Cristo della fede! (a partire dall’Illuminismo).
Non è qui il caso di affrontare la grande questione della natura e dei rapporti tra questi vangeli. I primi tre presentano somiglianze così grandi, da poter essere stampati su tre colonne parallele per abbracciarli con un solo sguardo (sinossi, onde il nome di Sinottici). Probabilmente il Vangelo più antico è quello di Marco, scritto poco prima del 70 d.C., perché sembra non conoscere la distruzione di Gerusalemme. Egli stesso sembra a sua volta debitore a una fonte Q (Quelle, dal tedesco), più antica di Marco stesso. Poi vengono Luca e Matteo.
Il quarto Vangelo ha invece un carattere profondamente diverso, scritto alla fine del primo secolo. Studi recenti hanno mostrato in maniera inequivocabile l’origine squisitamente giudaica di molte idee del vangelo di Giovanni (a cominciare dalla famosa concezione del Logos), che si propone come la testimonianza della fede nella persona e nell’opera di Gesù, così come veniva colta nella comunità.
Le altre opere sono le lettere paoline discusse o non autentiche (2a Tessalonicesi, Efesini, Colossesi, 1 a e 2 a Timoteo, a Tito), le cosiddette “Lettere Cattoliche” (1 a e 2 a Pietro, Giacomo, Giuda, 1 a, 2 a, 3 a Giovanni), la Lettere agli Ebrei e, soprattutto, gli Atti degli Apostoli e l’Apocalisse di Giovanni.
‘Gli Atti degli Apostoli sono fondamentali per la nostra conoscenza del cristia-nesimo antico perché, pur non potendo essere considerati neppur essi una fonte storiografica in senso stretto (la loro intenzione è pur sempre principalmente teologica), non soltanto ci danno l’immagine della Chiesa di Luca (negli anni Ottanta), ma ci forniscono anche una serie di dati preziosissimi sulla comunità primitiva di Gerusalemme e la predicazione missionaria di Paolo. Pur con tutti i limiti che caratterizzano, come ho detto, la loro documentazione, è soltanto in base agli Atti degli Apostoli che possiamo tentare infatti di ricostruire le vicende principali della comunità primitiva e i momenti più significativi della missione paolina: gli ellenisti e Paolo; Pietro e Cornelio; la comunità di Antiochia; il concilio di Gerusalemme, nella prima parte; i viaggi di Paolo; i conflitti con giudei e pagani; il processo di Paolo; l’arrivo a Roma, nella seconda.
L’Apocalisse riveste anch’essa una grande importanza per la storia della Chiesa antica perché è l’unico testo del Nuovo Testamento che riprenda quella tradizione apocalittica giudaica (rappresentata nell’Antico Testamento dal libro di Daniele, a cui l’Apocalisse si ispira direttamente) che si caratterizza per la sua concezione drammatica della storia, vista come teatro dello scontro perenne tra i giusti e i peccatori, immagine di quello celeste tra Dio e Satana, di cui un aspetto particolarmente significativo è il conflitto dei credenti col potere politico, considerato uno strumento di Satana. È nell’Apocalisse, scritta con ogni probabilità subito dopo la “persecuzione” di Domiziano, e più in particolare nei capitoli 13 e 17, che appare infatti la famosa immagine (ripresa proprio da Daniele) delle due bestie (il potere politico e il potere religioso) che perseguitano i «santi», col miste-rioso riferimento al numero 666 (o 616) per quella che sale dal mare: una immagine dell’impero romano ben diversa da quella paolina della Lettera ai Romani, che ha alimentato in tutti i tempi l’opposizione religiosa dei cristiani al potere politico e dato via libera alla fantasia per trovare il significato nascosto di quel numero’ (G. Iossa, op. cit., pp. 67-68).
ALLEGATI
Mi sembra bello qui riprodurre due importanti testi del Cristianesimo delle origini, citati nella riflessione qui riportata: la Didachè e le Lettere di Ignazio di Antiochia.
a) DIDACHÈ
Il battesimo
Quanto al battesimo, battezzate in questo modo: dopo aver premesso tutte queste cose, battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nell’acqua viva. Se non hai acqua viva, immergi (il battezzando) in altra acqua; se non puoi nella fredda, immergilo nella calda. Se non avessi abbastanza né dell’una né dell’altra, versa tre volte sul capo dell’acqua nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Prima del battesimo digiunino il battezzante e il battezzando e anche altri se lo possono; al battezzando però, ordina che digiuni un giorno o due prima. (Didachè, 7, 1-4)
L’Eucarestia
Ogni domenica, giorno del Signore, radunati insieme, spezzate il pane e rendete grazie, dopo aver confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro. Chiunque abbia qualche lite con il suo compagno non si unisca a voi prima che entrambi si siano riconciliati, affinché non sia profanato il vostro sacrificio. Queste infatti sono le parole del Signore: «In ogni luogo e in ogni tempo mi sia offerto un sacrificio puro; poiché io sono un gran re – dice il Signore – e il mio nome è mirabile fra le genti». (Didachè, 14, 1-3)
b) IGNAZIO D’ANTIOCHIA
Il vescovo e i fedeli
Questi documenti di Ignazio che presentiamo sono tutti centrati sulla figura del vescovo, che con la scomparsa degli apostoli, da semplice capo del consiglio degli anziani o presbiteri, diviene la figura principale delle chiese locali, ereditando tutte le prerogative e i poteri degli apostoli. La Chiesa, in tal modo, da apostolica diventa episcopale e sempre più tende ad assumere l’aspetto di una istituzione organizzata secondo la tipica figura piramidale: troviamo così alla sommità il vescovo, quindi il consiglio dei presbiteri (= sacerdoti) e quello dei diaconi, infine la vasta comunità dei fedeli. La nota dominante di questi brani è così l’armonia (v. anche le metafore e il vocabolario tipicamente musicali) che tutti i componenti della Chiesa deve tenere uniti nell’amore reciproco.
Perciò è vostro dovere essere d’accordo con il pensiero del vostro vescovo, cosa che del resto voi fate. Infatti il vostro venerabile collegio sacerdotale, degno di Dio, è accordato al vescovo come le corde alla cetra; così nell’accordo dei vostri sentimenti e nell’armonia della vostra carità voi cantate Gesù Cristo. E ciascuno di voi partecipi a questo coro, affinché nell’armonia del vostro accordo, prendendo il tono di Dio nell’unità, cantiate ad una voce per mezzo del Cristo (un inno) al Padre, ed egli vi ascolti e vi riconosca dalle vostre buone opere come le membra del suo Figlio. È quindi utile per voi essere in una inseparabile unità, per partecipare costantemente a Dio. (Ignazio, Lettera agli Efesini, 4)
Così, poiché nelle persone che ho sopra nominato ho veduto ed amato nella fede tutta la vostra comunità, vi raccomando, procurate di fare ogni cosa in una divina concordia, sotto la guida del vescovo, che tiene il posto di Dio, dei presbiteri, che tengono il posto del senato degli apostoli, e dei diaconi, che mi sono così cari e ai quali è stato affidato il servizio di Gesù Cristo, il quale prima dei secoli era presso il Padre e si è manifestato alla fine. Tutti dunque regolate la vostra condotta su quella di Dio, rispettatevi l’un l’altro, e nessuno guardi il suo prossimo con gli occhi della carne, ma amatevi sempre l’un l’altro in Gesù Cristo. Non vi sia mai tra voi nulla che possa dividervi, ma unitevi al vescovo e a coloro che sono a voi preposti, a immagine e lezione di incorruttibilità. (Ignazio, Lettera ai Magnesii, 6)