Canova, 18 febbraio 2005 – 4° incontro
(don Marcello Farina)
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1. Introduzione

«C’è un uomo che desidera la vita
e che brami giorni per gustare il bene?» (Salmo 34, 13)

La domanda del salmista interpreta sicuramente l’istanza presente in o-gni donna, in ogni uomo, tutti alla ricerca di un modo di vivere la propria esistenza quotidiana che «salvi la vita», cioè la dispieghi, la dipani e la raccolga insieme, così da gustare ciò che è bello, buono e felice, in sé e attorno a sé.
La saggezza antica e recente ha sempre riconosciuto che la felicità è la motivazione ultima dell’agire umano. S. Agostino ha potuto scrivere: «Noi tutti bramiamo vivere felici, e tra gli uomini non c’è nessuno che neghi l’assenso a questa affermazione, anche prima che venga spiegata in tutta la sua portata». Sigmund Freud, dal canto suo, nell’opera Il malessere della civiltà si chiede: «Quali sono i progetti e gli obiettivi vitali, rivelati dal comportamento degli uomini?»; e risponde: «Si è certi di non sbagliare: essi aspirano alla felicità; gli uomini vogliono essere e rimanere felici!» In un’iscrizione egiziana, scoperta sulla tomba del faraone Ai, successore di Tut-ank-amon, nel XIV sec. a.C. si legge: «C’è un uomo amante della vita e desideroso di una vita felice?».
Certo, la domanda appartiene ad ogni persona, è specifica dell’umanità. Ed è una domanda che si colloca nella «ricerca di senso», cioè nella ricerca di un «giudizio globale, complessivo» sulla propria vita, che nemmeno la modernità ha messo in disparte, ma, anzi, ha fornito di una profondità e acutezza nuove: per vivere, la donna, l’uomo non può fare a meno di un significato e di un orientamento, di un riferimento e di una finalità, nei confronti dei suoi molteplici interessi e possibilità, delle sfac-cettate opportunità che la vita stessa gli offre.
Non c’è cammino degno di questo nome senza queste tre domande: Perché andare? Dove andare? Come andare? E oggi, se non vogliamo accelerare i nostri passi verso la barbarie (Petits pas vers la barbarie è il titolo di uno straordinario libro di Guy Coq e Isabelle Richebé), appare sempre più urgente la riscoperta di una «sapienza» che accompagni l’espansione quantitativa e produttiva nel nostro Occidente, e che, soprattut-to, accompagni le nostre società in questo periodo di disincanto e diso-rientamento.
È qui che si inserisce la domanda che vorremmo farci reciprocamente in questo quarto incontro del nostro viaggio all’interno della ricerca di fede: che cosa ha da dire, di fronte a queste domande, il Cristianesimo, che è nato come «vangelo», buona novella? È ancora una buona notizia?
In particolare il Nuovo Testamento vede inverata e realizzata la «buona notizia», cioè il vangelo, nell’esistenza umana vissuta come Gesù di Nazareth l’ha vissuta: una vita umana donata «per insegnarci a vivere in questo mondo»¸ come dice Paolo al suo discepolo Timoteo. Attraverso Gesù di Nazareth il Nuovo Testamento svela che la salvezza inizia e si innesta come arte del vivere qui sulla terra, perché la vita di Gesù nei giorni della sua esistenza terrena è stata “salvata” dalla forma stessa del suo vivere. C’è stata in Gesù una «pratica di umanità», conforme alla volontà di Dio, e questa pratica racconta la salvezza, il progetto di Dio di offrire a tutti beatitudine e gloria nel senso pieno della parola, a cominciare da una vita vissuta come «pienezza di umanità», come umanizzazione autentica.
Per il credente e per il cercatore di Dio non c’è contraddizione tra il vi-vere la vita così come ha fatto Gesù di Nazareth e il realizzare la propria umanità, il riuscire nella propria vita, perché questa è l’esistenza delle figlie e dei figli di Dio.

2. «PERCHÉ DIO SI È FATTO UOMO”» (Gesù, il volto umano di Dio!)
Cur Deus homo? (S. Anselmo).

La domanda sul perché Dio si è fatto uomo è risuonata ininter-rottamente lungo i secoli della fede cristiana e ha ricevuto sostanzialmente un’unica risposta, seppure in due forme distinte, una in Oriente e una in Occidente.
Nella tradizione orientale si è imposta la espressione di Atanasio (e poi Ireneo l’ha ripresa): «Dio si è fatto uomo, perché l’uomo diventi Dio»; mentre in Occidente si è diffusa l’espressione: «Dio si è fatto uomo, per salvare l’uomo». Ma si potrebbe riformulare oggi l’espressione così: «Dio si è fatto uomo, perché l’uomo diventi veramente umano».
Sì, Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazareth per mostrarci l’uomo autentico, l’uomo a sua immagine e somiglianza, e così insegnarci a vivere in pienezza, fino all’esperienza della gloria, come dice il quarto vangelo: «Si è fatto carne, ha abitato tra noi, ha mostrato la sua gloria» (Giovanni 1, 14).
Nel terzo secolo d.C., quando ormai la fede cristiana diventava consapevole della propria originalità, Ippollito, prete romano, così si esprimeva: «Noi sappiamo che il Verbo si è fatto uomo della nostra pasta (uomo come noi siamo uomini!), perché, se non fosse così, invano ci avrebbe domandato di imitarlo. Se l’uomo Gesù fosse stato di un’altra sostanza, come avrebbe potuto chiederci, a noi deboli per natura, di comportarci come lui si è comportato?».
La fede cristiana proclama dunque che Dio si è fatto umano, che Dio si è reso leggibile nella vita di un uomo, e che solo in un’esistenza pienamente umana Dio si è espresso in pienezza: l’uomo Gesù è per i cristiani «l’immagine del Dio invisibile» (Colossesi 1, 15), colui che ha raccontato Dio (Giovanni 1, 18), Figlio di Dio e Figlio dell’uomo contemporaneamente: Ecce homo (Giovanni 19, 5).
Gesù si è presentato, secondo la testimonianza dei vangeli, come uomo fino all’estremo, cioè fino alla fine, fino alla morte violenta e ingiusta, una morte “meritata” proprio dalla forma della sua esistenza umana, in cui le sue parole erano carne e sangue, il suo comportamento la negazione dell’autosufficienza e della pretesa di vivere per se stesso senza l’altro, le sue scelte un rifiuto della violenza e, invece, una vicinanza ai deboli, ai poveri, agli ultimi, alle vittime della storia, la sua difesa e la sua resistenza un restare fino alla fine un uomo di comunione, un uomo capace di amare.
Purtroppo molti cristiani l’hanno dimenticato da tempo: Gesù non si è manifestato come un Dio venuto con potenza e gloria tra gli uomini… la ‘forma’ della sua vita è quella di un’esistenza spesa e donata agli altri! È questa forma di vita che è vangelo, cioè buona notizia! L’esistenza di Gesù di Nazareth, un’esistenza nella libertà e vissuta per amore, è parsa alle donne e agli uomini che lo hanno incontrato dopo la sua risurrezione la vita stessa di Dio. Sì, quella vita è l’epifania di Dio per gli uomini ed è, al tempo stesso, l’epifania dell’uomo per tutta l’umanità. Dice il quarto vangelo: «In lui era la vita e quella vita era la luce degli uomini» (Giovanni 1, 4), cioè Gesù è stato un vero vivente e come tale può insegnare a vivere. Questo è avvenuto per chi gli è vissuto accanto, ma avviene anche oggi per quanti, conoscendo Gesù attraverso il vangelo, si sentono attratti e ispirati a lui attraverso la sequela.

3. VITA BUONA

La prima qualità che connota la vita di Gesù è certamente la bontà. D. Bonhöffer definisce Gesù l’uomo per gli altri: la sua esistenza è stata una pro-esistenza, una vita segnata dal dono di sé, dal servizio ai fratelli, una vita sempre tesa alla comunione: «Ha fatto bene ogni cosa: fa parlare i muti, fa udire i sordi» (Marco 7, 37); e Pietro nella sua predicazione dice: «Egli passò operando il bene, guarendo, liberando» (Atti 10, 38). Proprio per questa sua bontà Gesù fu chiamato «Maestro buono» (Marco 10, 17).
Tutta la tradizione cristiana ha sempre compreso questa bontà, espressa nelle forme più diverse:
– lavare i piedi ai discepoli mettendosi in posizione di servizio;
– riconoscere l’alterità di chi è prossimo fino ad amarlo con in-telligenza;
– spingere i sentimenti di accoglienza e di amore verso l’estraneo e addirittura verso il nemico e, comunque, sempre vivere l’amore e la carità sotto il segno della gratuità: questa è la vita secondo lo ‘stile’ di Gesù di Nazareth.
Il cristiano e il cercatore di Dio, sull’esempio di Gesù di Nazareth, sono essi stessi chiamati a fare della loro vita una pro-esistenza, cioè un’esistenza tesa a far vivere gli altri che stanno loro intorno. E questa pratica di una vita umana buona ci permette di conoscere qualcosa del mistero di Dio. (Ma questo non vale anche per tutte le altre religioni, o addirittura per le diverse sensibilità?). Senza questa pratica umanissima, quotidiana, di amore dell’altro, Dio è solo un’illusione immaginaria. (“Poiché non amano nessuno, credono di amare Dio”, dice don Primo Mazzolari!).
Certo, questa bontà della vita di Gesù, e dunque del suo discepolo, non è esente dalla sofferenza, dall’inimicizia, dal tradimento, dalla violenza e dalla morte. E non è esente neppure dall’ignominia e dal rifiuto, non solo da parte degli empi e dei potenti, ma anche della “gente”, magari della maggioranza… La croce ne è l’esito: quello di una vita vissuta per amore, per una “passione” intesa come disponibilità appassionata all’umanità dell’uomo e proprio per questo anche come “passione” di violenza e soffe-renza inaudite.
Ciò che ha portato Gesù alla condanna e alla morte è stata la sua interpretazione di Dio e della religione, e di conseguenza la sua interpretazione del potere nella storia. Lì è nato il conflitto, su questi temi la sua condanna. Va detto con forza: non è la croce che ha dato gloria al Crocefisso, ma è Gesù che ha saputo dare senso perfino a un simbolo infamante e orrendo come la croce!

4. VITA BELLA E BEATA

Va detto subito che gli scritti evangelici sono sobri nel narrare come Gesù è vissuto e la stessa ricerca esegetica cristiana non ha saputo dare granché spazio alla sua dimensione umana, alla sua arte di vivere. Così, anche per il prevalere dell’ideologia della croce, è stata prodotta l’immagine di una vita cristiana che, per essere autentica, dev’essere contrassegnata dalla militanza, dall’impegno e dal sacrificio, ritenuti incompatibili con una visione di bellezza e di felicità.
«In verità i vangeli, pur nella loro sobrietà, ci testimoniano una serie di tratti della vita di Gesù che mostrano la sua umanità semplice, fragile, delicata e, insieme, sapiente, ricca, capace di amicizia con la vita, capace di bellezza. Nella sua lotta contro ciò che è disumano, sciatto, insipido, nella lotta dell’amore, c’è stato spazio per una vita bella, non solo buona.
Sì, la vita di Gesù è stata un’esistenza umanamente bella! È stata la vita di un uomo povero, ma sempre una vita dignitosa, mai toccata dalle bruttezze, se non da quelle che gli altri gli buttavano addosso, una vita seriamente e responsabilmente vissuta, ma con sapienza e con la capacità di fruire di ciò che è evento di bellezza. Gesù non ha vissuto da isolato, ma ha conosciuto la gioia del vivere insieme, ha conosciuto la gioia dell’amicizia e dell’esperienza affettiva con Marta, Maria e Lazzaro, con Pietro, Giacomo e Giovanni, con il discepolo prediletto, persone con le quali egli sostava, vivendo l’avventura di chi conosce che cosa significhi ‘amare ed essere amato’. Come dimenticare che addirittura alla vigilia della sua condanna, quando ormai il cerchio si chiudeva intorno a lui, ha sentito il bisogno di fermarsi tra i suoi amici per gustare quella vicinanza umana che tanta gioia gli procurava? E dopo la risurrezione?
E come non cogliere l’eco della bellezza della sua vita, della sua capacità di gratuità e di contemplazione, del tempo passato a pensare e a meditare, in quelle sue creazioni sapienziali e letterarie che sono le parabole o i suoi aforismi? Non è racconto di bellezza come Gesù parla del fico che annuncia l’estate con le sue tenere gemme, come ci parla della chioccia che raduna i suoi pulcini, dei gigli dei campi tessuti più splendidamente dei vestiti di Salomone, delle donne che impastano la farina e il lievito, degli uccelli del cielo nutriti dal Padre?» (E. Bianchi).
Per creare queste immagini, perché si colga la loro profondità, ci vuole una vita bella, capace di cogliere sinfonicamente la propria esistenza, assieme a quella delle altre creature, delle altre persone. E poi quella sua arte nell’incontrare a tavola… Quanti banchetti e quanti incontri di comunione a tavola, fino a farsi chiamare “mangione e beone, amico di peccatori manifesti e di prostitute” (cfr. Matteo 11, 19 e Luca 7, 34). Per non parlare poi del suo atteggiamento verso i peccatori: non moralistico, non ses-suofobico… ma sempre teso a risvegliare in loro la novità di vita, la consapevolezza della loro capacità di amare, presente in ogni donna e in ogni uomo, “l’estetica” dei gesti d’amore!
Anche la sua libertà, che tanto scandalizzava gli uomini maestri di religione, è una forma di amore verso il prossimo e, insieme, la scoperta della bellezza della dignità di ogni uomo e di ogni donna. «Mi sia scusata questa annotazione: sovente mi sembra che la vita di Gesù sia stata molto più bella di quella di tanti che sono impegnati nella sua imitazione, di tanti seguaci che restano militanti e non diventano discepoli…» (E. Bianchi).
E, infine, non va dimenticato: questa vita di Gesù, buona e bella, è anche una vita beata, felice. Certo non in senso superficiale, mondano, ma nel suo senso più profondo, cioè proprio perché ne ha saputo cogliere «il senso del senso». Solo chi conosce una ragione per cui vale la pena di dare la vita, di perdere la propria vita, conosce anche la ragione per cui vale la pena di vivere. Gesù ha affermato più volte di vivere al servizio degli altri («Non sono venuto per essere servito…») gratuitamente e liberamente, e ha saputo leggere il male che si scaricava su di lui, fino alla morte violenta, come una necessità per chi vive per la verità, la giustizia e la solidarietà tra gli uomini.
Gesù ha conosciuto la beatitudine del povero, dell’affamato di giustizia, del mite e umile di cuore, del facitore di pace, perché ha trovato «sensate» queste situazioni umane. Egli ha dato corpo alle speranza sue e dei suoi discepoli e della folla che stava con lui e ha saputo comunicare che l’amore vince la morte e che il Padre vuole la vita e non la condanna dei suoi figli. Amore contro odio; vita contro morte; libertà contro servitù; salvezza contro condanna…
Così dovrebbe essere la vita cristiana: vita liberata da idoli alienanti, ma liberata anche dalle comprensioni svianti della religione, vita che porta il segno della speranza e della bellezza.
Hanno sempre ripetuto i grandi maestri della spiritualità cristiana: «O il Cristianesimo è filocalia, amore della bellezza, via pulchritudinis, via della bellezza, o non è»! Non era questa la convinzione di Dovstojevskij: «La bellezza salverà il mondo!»?