LA PRIMA PARTECIPAZIONE DEI CATTOLICI ALLA VITA POLITICA ITALIANA
CAPITOLO III
(1904-1922)
Canova, 20 febbraio 2009
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1. Tra delusioni e speranze

Il nuovo secolo, il Ventesimo, e il nuovo Papa, Pio X (1903-1914) portarono con sé fin dall’inizio, delle novità importanti per il mondo cattolico italiano. Il primo doveva fare i conti con i fenomeni sociali seguiti alla nascita della rivoluzione industriale in Italia (dagli anni ’80 dell’Ottocento) con lo sviluppo del movimento operaio e del partito socialista (1892), con le gravi crisi sociali ereditate da fine secolo, con una nuova esigenza di partecipazione alla vita politica delle masse, con la conseguente crisi dei partiti risorgimentali.
Il secondo, cioè Pio X (Giuseppe Sarto) avrebbe, invece, dovuto affrontare una «crisi di crescita» della Chiesa cattolica, promossa da quel movimento del rinnovamento cattolico, che avrebbe preso il nome di «Modernismo» e, per quel che riguardava il movimento cattolico italiano, dalla sua nuova collocazione all’interno delle modalità diverse di rappresentanza previste per esso dallo stesso Pontefice.
Infatti, come si ricorderà, due eventi accompagnarono l’elezione a Papa di Giuseppe Sarto, relativi al movimento cattolico italiano:
– lo scioglimento dell’Opera dei Congressi nel luglio del 1904,
– e la contemporanea abolizione (allentamento) parziale del non expedit, dopo trent’anni (1874-1904). (L’abolizione ufficiale sarà fatta il 12 novembre 1919).
La prima azione del Papa, dettata dalla sua ostilità nei confronti di don Murri e della sua «democrazia cristiana», la cui forza ideale stava imponendosi all’interno dell’Opera stessa, era stata accolta nel mondo cattolico con giudizi discordanti. Don Luigi Sturzo parlò di «fortunati e dolorosi eventi» che avevano solo fatto «scomparire quelle forme e quelle formule già cadute da un pezzo dall’animo dei cattolici riformisti» e che «lo spirito doveva ritenersi libero», non essendo più possibile tornare indietro; il vescovo Radini-Tedeschi parlò a sua volta di «giornate veramente dolorose» che rischiavano di compromettere «per il sospetto di pochi il gran bene» che si stava facendo; molti giovani democratici cristiani restarono a loro volta incerti sul da farsi e mentre alcuni di loro avrebbero finito coll’esplicare la loro attività nell’ambito del Gruppo economico-sociale rimasto in vita, altri si riunirono intorno a don Murri per costituire la Lega democratica nazionale, erede della «democrazia cristiana»; per Giuseppe Toniolo, invece, si doveva continuare nell’azione di prima, senza dare eccessiva importanza agli «influssi murriani».
Nel frattempo la Santa Sede aveva incaricato i gesuiti Pavissich, De Santi e Brandi di studiare la riorganizzazione del movimento cattolico italiano: le loro idee erano di model-larlo sul tipo di quello tedesco (partito politico del Zentrum e il Volksverein), ma esse parvero a Pio X ancora premature per l’Italia.
Ad ogni modo molti di quei concetti vennero accettati e trovarono posto nell’enciclica «Il fermo proposito» dell’11 giugno 1905. Essa accoglieva, sia pure con grossi limiti, il prin-cipio di una partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana (ecco perché si può parlare di parziale abolizione del non expedit!), ne chiarificava l’azione, costituendo tre associazioni distinte per le attività rispettivamente di formazione e propaganda, economiche e sociali e politico-ammini-strative.
È così che nascono le tre Unioni: l’Unione popolare, l’Unione economico-sociale e l’Unione elettorale, proprio sull’onda dell’enciclica del 1905.

a) L’Unione popolare, sull’esempio del Volksverein tedesco, doveva diventare la potente associazione che avrebbe stretto in unità di studio e di azione la grande massa dei cattolici italiana, guidata dai loro capi riconosciuti. In realtà i risultati, soprattutto quelli ri-guardanti la formazione culturale, non furono molti (si preferì, come sempre, la “pratica”!). I più rilevanti furono la costituzione dell’Unione fra le donne cattoliche d’Italia nel 1908; l’avvio delle Settimane Sociali; la fondazione di un periodico sociale popolare, «L’azione sociale»; e la celebrazione del Congresso di Genova nel 1908, in cui trattò dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica e della promozione sociale del popolo attraverso l’istruzione.

b) L’Unione economico-sociale era l’erede del Secondo Gruppo, quello economico, dell’Opera dei Congressi. Si tentò in tutti i modi di conservare l’Unione sotto la direzione gerarchica, dando ad essa anche l’assistente ecclesiastico.
Nel febbraio del 1911 vennero creati all’interno dell’Unione quattro segretariati generali, corrispondenti alle varie attività del movimento e cioè uno per i sindacati, uno per le casse rurali e le cooperative agricole, uno per le società operaie di mutuo soccorso, uno per le banche cattoliche. In questo contesto venne istituito a Bergamo il Segretariato delle unioni profes-sionali, il cui scopo era assai vicino a quello della Confederazione Generale del Lavoro, la CGL, creata nel 1906 dai socialisti a Milano per potenziare il movimento sindacale.

c) L’unione elettorale poi si concreterà nel Patto Gentiloni del 1913, cioè nelle al-leanze clerico-moderate. L’enciclica «Il fermo proposito» invitava i cattolici a prepararsi alla vita politica ed alla organizzazione di associazioni che avrebbero goduto di una certa libertà, ma sempre alle dipendenze della gerarchia, perché non potevano essere concepite «indipen-denti dal consiglio e dall’Alta Direzione dell’Autorità Ecclesiastica, specialmente poi in quanto devono tutte informarsi ai princìpi della dottrina e della morale cristiana; molto meno è possibile concepirle in opposizione più o meno aperta con la medesima autorità […]. È quindi conveniente che […] a questa materna vigilanza i cattolici si sottomettano, docili ed amorevoli figlioli. Per la qual cosa appare manifesto quanto fossero sconsigliati coloro, pochi in vero, che qui in Italia e sotto i nostri occhi, vollero accingersi ad una missione che non ebbero da noi, né da alcun altro dei Nostri Fratelli nell’Episcopato, e si fecero a promuoverla non solo senza il debito ossequio all’autorità ma perfino apertamente contro il volere di Lei, cercando di legittimare la loro disobbedienza con frivole distinzioni… Con estremo rammarico del Nostro cuore abbiamo dovuto condannare una simile tendenza ed arrestare autorevolmente il moto pernicioso che già si andava formando» (P. Bellu, Gli italiani alle urne, pp. 121-122).

L’enciclica invitava, poi, il clero «a mantenersi egualmente al di sopra di tutti gli umani interessi, di tutti i conflitti e di tutte le classi della società», e a non partecipare ad associazioni di tal genere, se non nei casi particolari e di intesa con i loro vescovi.
L’allusione al Murri e ai democratici cristiani autonomi era evidente. Ma proprio il Murri, dal canto suo, approvava questa presa di posizione, che gli pareva indicare l’invito al non-intervento dei preti nelle questioni politiche, anche se non gli piaceva l’alleanza con i moderati liberali predisposta ormai dai responsabili dell’Unione elettorale: se un’alleanza doveva essere fatta, non si vedeva perché bisognava escludere le sinistre, considerato che dal punto di vista religioso non avevano nulla da invidiare alle destre e, anzi, rappresentavano istanze sociali ben più autentiche di quelle dei moderati.
Don Romolo sperava, addirittura, in questa circostanza di ottenere un placet dalla Chie-sa per guidare i cattolici nella vita politica; ma la sua speranza fu vana, cosicché egli, vedendo boicottato il suo desiderio, senza badare ai suggerimenti di Sturzo, fondava a Bologna, nell’ottobre del 1905, la Lega Democratica nazionale, con uno statuto proprio. Da questo momento sarebbe divenuta sempre più precaria la posizione già tanto delicata del Murri, ormai ineluttabilmente avviato alla rottura completa con l’autorità ecclesiastica.
«Pio X, infatti, con l’enciclica Pieni l’animo del 28 luglio 1906 condannò la Lega De-mocratica e proibì ai sacerdoti l’adesione al movimento. Con questa disposizione veniva col-pito personalmente il Murri, il quale tuttavia continuò ad essere la guida principale della Lega. Gradatamente la Lega prese una posizione laica e separatista nei rapporti tra Stato e Chiesa e, in merito, nel settembre 1907 diffuse un programma di politica ecclesiastica (cfr. R. Murri, La politica clericale e la democrazia, 2a ed., Roma, 1910, pp. 260-263). Nelle elezioni del 1909 la Lega sostenne candidati radicali e socialisti e presentò come proprio candidato anche il Murri, che fu eletto nel collegio di Montegiorgio nelle Marche ed in quella legislatura alla Camera fu, come indipendente, tra le file dei radicali. Dopo l’elezione il Murri, che era già sospeso a divi-nis sin dal 1907, fu scomunicato, ed allora accentuò la sua linea politica laica e anticlericale in pieno contrasto con quella dei suoi stessi amici della Lega. In seguito a queste divergenze alcuni dei più quotati dirigenti della Lega si separarono da lui e costituirono la Lega democra-tico-cristiana, con a capo Eligio Cacciaguerra, la quale ebbe una certa diffusione in Romagna e poi confluì nel partito popolare. Da allora il Murri svolse la sua attività fuori del movimento cattolico. Morì nel 1944 riconciliato con la Chiesa» (P. Bellu, op. cit., p. 123).

2. La prima partecipazione alla vita politica dei cattolici italiani

Quanto, poi, alla partecipazione alla vita politica italiana da parte dei cattolici cui, come si è visto, invitava a suo modo l’Unione elettorale, va qui ricordato il «nuovo» clima politico instaurato dalla personalità più in vista della storia di questo inizio di secolo, Giovanni Giolitti, il cui ruolo sarebbe stato decisivo per l’inserimento dei partiti di massa nella vita politica italiana. Dal 1903 al 1914 Giolitti avrebbe assunto un ruolo decisivo nella guida alle trasfor-mazioni istituzionali e sociali della nazione.
Nella nuova situazione diventava comprensibile che alcuni gruppi di cattolici, soprattutto quelli dei settori borghesi, imprenditoriali, bancari e agrari, fossero favorevoli all’inse-rimento nella vita politica in funzione del rafforzamento delle posizioni moderate. In questo senso fecero la loro scelta: difesa dell’ordine costituito, antisocialismo, antiradicalismo, accettazione di fatto dell’ordine politico vigente, appoggio al Giolitti. Una tendenza, come si è visto, che era in netto contrasto con quanti – come i democratici cristiani – miravano all’inserimento nell’azione politica con un partito proprio.
Si arrivò così a una «conciliazione nell’indifferenza», come la chiama Jemolo, o a una «conciliazione silenziosa», come la chiama Spadolini, a «uno stato di distensione e tolleranza che introduce nelle vecchie leggi eversive e spogliatrici uno spirito nuovo, uno spirito di comprensione, di benevolenza, talvolta pure di amicizia». Certo, «i due poteri formalmente e dottrinalmente non si incontrano mai; ma nella pratica si possono fare tutte le transazioni possibili, purché non sorgano dissidi e non si verifichino attriti. Una politica, insomma, per essere franchi, di ipocrisia, perché si coopera di fatto, mentre di diritto si ignorano e sono addirittura in contrasto aperto» (P. Bellu, I cattolici alle urne, Della Torre, p. 99).
Nel 1904, Giolitti, dopo i tragici fatti di Buggerru in Sardegna, dove i carabinieri ave-vano ucciso tre minatori in sciopero, e dopo lo sciopero generale che ne era seguito, decise di sciogliere le Camere il 18 ottobre per le nuove elezioni del 6 novembre, con l’intento di inde-bolire l’estrema sinistra e di aggregare così i cattolici alla vita politica.
La lotta elettorale fu particolarmente intensa nell’Italia settentrionale, dove si presenta-rono diversi candidati cattolici nelle liste moderate, dando così inizio alle alleanze clerico-moderate (i «cattolici deputati»).
«Per tutta l’Italia era corsa rapida come una scintilla la parola d’ordine di entrare in lotta contro i partiti sovversivi. E dovunque i cattolici scesero in campo, alcuni alla spicciolata e altri meglio disciplinati, come la condizione e la improvvisa risoluzione poterono loro suggerire, il trionfo del partito dell’ordine fu assicurato oltre ogni aspettativa, e in tutti fu chiara la convinzione che un simile risultato era stato conseguito per il concorso delle riserve cat-toliche.
Dopo le elezioni, considerato come si erano svolte le cose e molte altre circostanze par-ticolari e locali, molti cattolici poterono in generale dichiararsi contenti dei risultati ottenuti. Il fine principale della loro azione, fermare il socialismo rivoluzionario sempre più avanzante, era stato raggiunto. Ma oltre a questo era loro apparsa più chiara la possibilità di una loro migliore affermazione in campo politico qualora si fossero organizzati meglio» (P. Bellu, op. cit., p. 106).
Ma il mondo cattolico non fu uniforme nel giudicare questa prima partecipazione alla vita politica. Ad esempio, «la corrente veneta, che faceva capo a La Riscossa di Breganze, difese a spada tratta l’inviolabilità del non expedit, accusando di ribellione tutti coloro che non l’avevano osservato, perché il non expedit era “una legge papale; ma una legge papale che trova la sua ragione d’essere nella legge naturale e divina” e neanche il papa avrebbe potuto revocarla – sosteneva – “finché non siasi resa alla Sede Apostolica tutta la giustizia che le si deve”.
Prima di citare le motivazioni di coloro che furono contrari e non approvarono l’opera dei cattolici che si erano recati alle urne, bisogna tenere presente un elemento molto impor-tante, a cui, sul momento, i favorevoli all’intervento, avevano badato poco. Si trattava di un accordo stipulato in alto, al vertice, tra alcuni esponenti cattolici e governativi senza un pro-gramma stabilito e concordato. I cattolici avevano promesso e dato effettivamente il loro con-tributo di voti che, come abbiamo visto, in alcuni casi era stato determinante. Ma i liberali che cosa assicuravano ai cattolici? Ufficialmente, niente. Non ci fu un programma studiato insieme, non una garanzia, non una contropartita. Si trattava in pratica di far affluire alle urne dei voti che andavano a vantaggio dei soli liberali» (P. Bellu, op. cit., p. 107).
Sul lato opposto, quello «progressista», si lamentava che i cattolici fossero andati alle urne, ma a vantaggio di altri; avevano fatto pesare sulla bilancia la loro forza, ma a favore del governo; s’erano mostrati, ma sparendo ancora di più, se fosse stato possibile come partito a sé. Don Sturzo definì il contributo dei cattolici opera di reazione, «sino alla prostituzione di un voto che nulla significa per sé, perché non ha programmi, non ha carattere, non ha vita, cedendo tutto questo col voto, cioè programma, carattere, vita al governo, ma vita in antago-nismo con gli interessi morali e religiosi che noi sosteniamo. […] Ma c’è di peggio; noi com-battiamo i socialisti, è vero, ma con le forze nostre e le nostre idee, che hanno un valore sociale democratico; invece appoggiando i moderati e i conservatori si è fatto opera di reazione, si è andato contro un complesso di aspirazioni e di vitalità, che rispondono al bisogno del proleta-riato, all’avvenire delle forze sociali cristiane».
Don Murri aveva chiamato la partecipazione dei cattolici moderati «il partito delle stampelle» e dopo le elezioni definì «un delitto» il gesto con cui i cattolici italiani avevano gettato lontano da sé il non expedit; i partecipanti erano chiamati «mercanti del cattolicesimo, poveri di spirito».
«Fu proprio allora che il Meda decise di accingersi alla fondazione di un partito politico, composto, articolato su una diversità di tendenze, interclassista e aconfessionale. Intermediario del Meda a Roma presso la curia fu Giovanni Mercati il quale, con l’aiuto, pare, del gesuita padre Pavissich, agiva con grande cautela, e altrettanta ne consigliava anche al Meda, sug-gerendogli di non dare alcuna pubblicità alla decisione prima di ottenere dalla Santa Sede almeno un’approvazione segreta del programma».
Ma proprio la Santa Sede agì con estrema durezza nei confronti di ogni tentativo auto-nomo di dar vita a gruppi organizzati di cattolici, che non rientrassero nell’Unione economica-sociale, l’unica rimasta dopo lo scioglimento dell’Opera dei Congressi, prima che si costi-tuissero, come si è visto, nel 1905 le tre Unioni, tra cui quella elettorale, interessata diretta-mente alla questione della partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana.
Ma anche dopo il 1905 molti cattolici sentirono un particolare disagio in riferimento sia alla norma che legava le scelte elettorali alla dipendenza dall’autorità ecclesiastica, sia alla mancanza della possibilità di un’azione comune, essendo loro assolutamente vietato di costi-tuirsi come gruppo autonomo.
Solo nelle elezioni del 1909 si sentì la necessità di un migliore coordinamento tra can-didati cattolici e di una miglior «consapevolezza» da parte degli elettori (cattolici), che pote-vano richiedere ai primi una «dichiarazione pubblica», che li impegnasse a combattere e ad opporsi a tutte quelle eventuali proposte di legge, che fossero presentate in odio ai princìpi religiosi dei cattolici e a propugnare, dal canto loro, i seguenti punti: «riaffermare il diritto della nazione all’istruzione cattolica nelle scuole pubbliche di tutti i gradi; favorire la libertà di insegnamento di fronte alle tendenze odierne del laicismo di Stato… difendere la scuola privata tenuta ora dai pubblici poteri in condizione di umiliante inferiorità con disposizioni sempre più vessatorie; sostenere quel programma minimo di carattere sociale che trova la sua base nel Vangelo…» (P. Bellu, op. cit., p. 132).
Troviamo qui i germi di quello che sarà poi il patto Gentiloni, che perfezionerà quanto qui era stato abbozzato.
Intanto, nelle elezioni del 1909, i cattolici eletti furono 16, tra cui Filippo Meda a Rho, ecc., ed essi dovettero subito sostenere una sorta di battaglia parlamentare per difendere la loro fedeltà allo Stato. Infatti, nelle sedute preliminari del nuovo Parlamento, due oratori vol-lero discutere, come argomento del dibattito, proprio l’ingresso dei cattolici nella vita politica e l’atteggiamento del governo in relazione a questo fatto. Il socialista Treves asserì che la partecipazione dei cattolici in campo politico costituiva un pericolo per la libertà e una mi-naccia per lo Stato. L’onorevole Cameroni (cattolico) ribatté che i cattolici, partecipando alla vita politica, non minacciavano né lo Stato né la libertà, anzi essi «amavano la patria». Mentre parlava si udì chiaramente una provocatoria frase: «Roma capitale!»; egli allora raccolse la provocazione ripetendo: «La patria tutta con Roma capitale… È assurdo chiedere ad un depu-tato italiano che siede in Roma, se riconosce Roma capitale d’Italia». Ma la stampa intransi-gente cominciò a cavillare se l’affermazione dovesse intendersi solo nel «fatto» o anche nel «diritto» e continuò con lunghe disquisizioni per parecchio tempo.
«Dopo le elezioni però, quando le cose furono più calme, e si potevano valutare le si-tuazioni con più chiarezza e spassionatamente, si vide ancor più palesemente come in alcuni collegi i vescovi, o novelli o digiuni di politica, s’erano lasciati abbindolare da candidati screditatissimi in ogni campo, i quali, andatisi a battere il petto davanti ad essi, ne avevano carpito il favore. In altri collegi, soggetti a più diocesi, alcuni vescovi avevano sospeso il non expedit per un candidato, altri per un altro, altri finalmente per nessuno, generando una gran confusione. Ad ogni modo in tutt’Italia i vescovi si erano esposti a sospetti di compromissione po-litica.
Di questa situazione si fece interprete presso il Papa Filippo Crispolti, invitato anche da molti amici; e la conseguenza fu che poco dopo si prese il provvedimento di sottrarre la que-stione ai vescovi ed attribuirla all’Unione Elettorale Cattolica Italiana della quale fu eletto presidente nel luglio il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni, noto per capacità organizzative e sostenitore della linea clerico-moderata, cioè del sostegno delle forze cattoliche alla classe politica liberale, prevalente allora nel movimento cattolico ufficiale. Questa linea implicava da parte dei cattolici organizzati una lotta per frenare l’avanzata dei socialisti, dei radicali e in generale delle forze laiche di estrema sinistra e di sinistra liberale; ma al tempo stesso, poiché permaneva il divieto papale di costituire un partito cattolico, l’azione elettorale dei cattolici mirava in sostanza ad appoggiare Giolitti e a condizionarne la politica, quanto più possibile, in senso clerico-moderato» (P. Bellu, op. cit., p. 136).
Il nuovo presidente si mise al lavoro con animo veramente indefesso, contribuendo alla stesura di un nuovo statuto per l’Unione elettorale, che sottraeva ai vescovi il controllo sui candidati e lo rimetteva direttamente nelle mani del Presidente e, tramite lui, in quelle dello stesso Papa. Intanto, tra il 1911 e il 1912 si diede spazio all’elaborazione di una nuova legge elettorale, che trovò intoppi a causa della guerra di Libia. Essa fu approvata il 29 giugno del 1912, con il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che sapessero leggere e scrivere (e l’avessero dimostrato con una prova!).
La paura che l’allargamento del suffragio portasse nuovo potere alle frange politiche estreme, rese il patto tra Giolitti e i cattolici ancora più importante. Dal canto loro questi ultimi, dopo lo sbandamento seguito alla soppressione dell’Opera dei Congressi, si erano grada-tamente ripresi e negli ultimi anni (dopo il 1907) avevano messo a punto una notevole orga-nizzazione, sia in campo economico, dove si era sviluppata l’organizzazione creditizia catto-lica, soprattutto tra i ceti rurali, sia in campo sociale, dove era andato sviluppandosi l’associa-zionismo tra i contadini, i mezzadri, i piccoli affittuari, i piccoli proprietari e i braccianti (tra il 1907 e il 1910 c’erano 364 leghe con 104.614 iscritti, tra industria e agricoltura).
Contemporaneamente, molto importante fu la penetrazione dei cattolici nel settore del lavoro delle industrie tessili, con l’organizzazione delle donne operaie, delle sarte, delle lavo-ranti a domicilio, delle domestiche: in questo settore, lo si è già visto, era sorta l’Unione delle donne cattoliche d’Italia e, più tardi, l’Opera per la protezione della giovane. Anche i set-tori impiegatizi pubblici e privati, come quelli dei commessi e degli impiegati delle ferrovie e delle poste, furono organizzati. Altra influenza di capitale importanza fu quella esercitata tra i maestri, i quali svolgevano un’opera di grande mediazione tra larghi strati popolari, con la costituzione dell’associazione magistrale cattolica “Nicolò Tommaseo” (19.000 iscritti nel 1913).
Tutte queste forze cattoliche, orientate con compattezza, avrebbero avuto un peso elet-torale determinante. E con l’approssimarsi delle elezioni, fissate per il 26 ottobre 1913, il Gentiloni stilò quei punti programmatici, che i candidati liberali avrebbero dovuto accogliere per ottenere l’appoggio dei cattolici. «I sette punti del patto non contenevano altro che le linee generali di un programma minimo dei cattolici italiani; linee generali che a volte erano in antitesi con quelle di altri gruppi politici: opposizione al divorzio ed a proposte di legge che tendessero a turbare la pace religiosa e a intralciare o screditare la scuola privata; tutela del diritto delle famiglie riguardo all’istruzione religiosa per i loro figli nelle scuole pubbliche; riconoscimento del diritto di parità alle organizzazioni economiche e sociali indipendente-mente dai princìpi religiosi ai quali esse si ispirassero» (P. Bellu, op. cit., p. 145).
La partecipazione alle elezioni fu inferiore alle previsioni e si attestò sul 60,4% degli aventi diritto (che erano 8.672.249, pari al 24,49% degli abitanti residenti in Italia!). L’esito poi lasciò molti punti interrogativi. Le accuse di brogli e di corruzione misero in forse parec-chie vittorie e, soprattutto, venne allo scoperto tutta la «trama» delle alleanze tra i liberali e il Gentiloni con i relativi patti e con i nomi dei candidati che li avevano sottoscritti. Fu un puti-ferio (qualcuno commentò più tardi: «fu una bomba atomica…»): ogni nome fu scrutato, inda-gato, discusso.
«Con ironia si commentava che la maggior parte dei membri, noti per le loro inclinazioni religiose o miscredenti, ligi alla massoneria, avevano consentito a combatterla in quel modo drastico. Infatti, liberali, moderati, radicali, socialisti, repubblicani, giornali d’ogni colore, da quello del Corriere della sera a quello de Il Messaggero, da quello della Perseveranza a quello de l’Avanti!, si scagliarono contro il capo dell’UECI e contro i cattolici stessi e, non bastando gli estranei, scesero in campo anche i “gentilonizzati”, come furono chiamati i deputati eletti con l’aiuto dei cattolici e firmatari del patto: si smentirono, si confermarono i patti in una maniera a volte poco decorosa. Anche in campo cattolico ci furono forti reazioni, soprattutto tra i cattolici sociali (organizzatori di leghe operaie e di cooperative contadine), e tra gli aderenti all’ala democratica cristiana» (Ibidem, p. 150).

Nel complesso rimase un senso di amarezza, sia nei cattolici, sia nei candidati liberali e moderati. Questo senso di disagio lo avvertirono in modo particolare Sturzo e Meda, i quali da questi avvenimenti ricevettero ulteriore conferma che il patto Gentiloni e simili espedienti erano inadeguati e che i cattolici avevano ormai bisogno di un partito proprio, autonomo,
aconfessionale, che permettesse loro di inserirsi attivamente con un preciso programma nella vita nazionale.
Gli ultimi anni del Giolitti, poi, dopo le elezioni del 1909, videro il progressivo incrinarsi di quel delicato equilibrio, da lui costruito con il tacito accordo dei socialisti riformisti, con l’appoggio condizionato delle diverse frange del Partito liberale e con il sostegno elettorale del mondo cattolico tramite le alleanze clerico-moderate. Gli elementi di crisi furono in particolare due: la guerra di Libia e il programma di ulteriori riforme messo in atto dal Giolitti nel 1912.
Benché fosse personalmente poco entusiasta delle imprese coloniali, Giolitti ritenne che non poteva resistere alle crescenti forze che premevano in senso colonialista, pensando così di poter attenuare o annullare la loro opposizione facendo propri i loro programmi. L’impresa era voluta da vasti settori dell’industria pesante e del mondo bancario, anche cattolico. Diversi settori del variegato mondo socialista si pronunciavano apertamente in favore della guerra: alcuni, perché pensavano a un possibile sbocco per la sovrabbondante manodopera contadina meridionale; altri, come il sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola, perché cercavano nella guerra la rivincita contro i riformisti. Soprattutto, però, l’impresa di Libia era voluta dai nazionalisti, che avevano da tempo innescato una violenta e sanguigna polemica contro il sistema giolittiano e, più in generale, contro il sistema democratico-liberale.
Le conseguenze della guerra di Libia non furono quelle che il Giolitti aveva sperato. Il nazionalismo si fece più aggressivo e il partito socialista fu percorso da un’ondata di polemiche e di conflitti che portò al prevalere dell’ala antimonarchica, anticlericale, antigiolittiana (Mussolini e l’«Avanti!»). Egli, nel frattempo, volle affrontare con decisione alcuni nodi critici della società italiana, presentando un progetto di imposta progressiva sul reddito e sulle suc-cessioni, attuando la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita, la riforma scolastica Credaro e, appunto, introducendo il suffragio universale maschile. Di fronte alle resistenze a questa politica e, come si è già visto, alle delusioni del patto Gentiloni, Giolitti pensò di uscire per qualche tempo di scena, cedendo le redini del governo al conservatore Salandra (1914), mentre la situazione sociale del paese si deteriorava. Nel giugno ci fu la «settimana rossa» con lo sciopero generale, guidato da uomini diversi, ma animati da una comune velleità rivo-luzionaria: Mussolini, l’anarchico Malatesta, il giovane repubblicano Pietro Nenni.
La repressione seguì immancabile; ma ormai la situazione italiana veniva coinvolta nella tragica stagione, che sarebbe iniziata a luglio, della prima guerra mondiale (1914-1918).
Nel lungo e combattuto dibattito, seguito in Italia dopo la dichiarazione della sua neu-tralità, il 4 agosto 1914, i cattolici presentarono una certa varietà di posizioni.
«In generale, tra i cattolici non ebbero molto seguito gli entusiasmi interventisti; ma il prevalente neutralismo cattolico fu di un tipo tutto particolare. Da una parte prevaleva l’obbedienza verso il neoeletto pontefice Benedetto XV (1914-1922), che aveva assunto subito un atteggiamento pacifista e contrario alla guerra, da lui denunciata come frutto dello scate-narsi degli egoismi nazionali e di classe, e del “materialismo” imperante nel mondo moderno. Dall’altra parte c’era la preoccupazione di mostrare che i cattolici italiani erano ormai cittadini leali e obbedienti alle legittime autorità dello Stato, cui toccava decidere qual era il bene della nazione. Quest’appello alla disciplina dei cattolici, lontana sia dagli entusiasmi interventistici sia dal neutralismo assoluto dei socialisti, si tradusse, al momento in cui fu scelta dal governo italiano la via dell’intervento, in un indiretto appoggio alle forze interventiste» (F. Traniello, op. cit., p. 323; cfr. anche Scoppola, Dal Neoguelfismo alla Democrazia cristiana, Studium, p. 145).

3. Il tormentato dopoguerra e la ripresa della attività del mondo cattolico italiano:
la nascita del Partito Popolare italiano

Un primo accenno, per questo periodo, non può non riguardare la pesante eredità della guerra, le sue perdite umane e materiali e il fragile assetto politico che ne seguì, soprattutto in Europa.
«Le perdite che le parti contrapposte avevano subìto erano state spaventose. Secondo le attendibili stime fatte dal Dipartimento della guerra USA, i morti ammontavano a 8.538.315. Di questi, quelli del campo alleato erano: 1.700.000 per la Russia, 1.357.800 per la Francia, 908.371 per la Gran Bretagna (incluse le forze dell’Impero), 650.000 per l’Italia, 126.000 per gli USA, 335.706 per la Romania, 45.000 per la Serbia; in totale, compresi anche la Grecia, il Portogallo e il Montenegro, il campo antitedesco aveva perduto 5.152.115 uomini. Le perdite dello schieramento raccolto intorno alla Germania ammontavano a 3.386.200 così suddivise: 1.773.700 per la Germania, 1.200.000 per l’Austria-Ungheria, 325.000 per la Turchia, 87.500 per la Bulgaria. Ai morti andavano aggiunti per entrambi i campi ben 21.219.452 feriti. I mo-bilitati erano stati 65.038.810, con un massimo per la Russia di circa 12 milioni e per la Ger-mania di 11 milioni. L’Italia aveva mobilitato 5.615.000 uomini, la Francia quasi 8 milioni e mezzo, la Gran Bretagna (incluso l’Impero) quasi 9 milioni. Come si vede, l’Europa aveva subìto perdite assolutamente micidiali. E non basta a questo punto tenere presente soltanto il numero dei morti e dei feriti; bisogna pensare che questi erano nella quasi totalità uomini fra i 20 e i 40 anni. La loro scomparsa o invalidità significava la perdita di enormi energie umane fisiche e intellettuali. Accanto alle perdite umane, fonte di tante sofferenze morali, vi era poi la perdita di gigantesche quantità di beni materiali. I trasporti, i macchinari delle aziende erano stati sottoposti ad una usura continua, senza la possibilità di provvedere adeguatamente al loro rinnovo. I bilanci di tutti gli Stati europei erano più o meno dissestati, i debiti fortissimi. Gli stessi paesi vincitori erano in debito soprattutto con gli Stati Uniti. Inoltre la guerra aveva modificato profondamente le correnti del commercio internazionale, creando condizioni di debolezza per l’Europa. I paesi dell’Intesa, mentre crollava il commercio intereuropeo, ave-vano aumentato in modo fortissimo le proprie importazioni specie dalle Americhe, senza poterle pareggiare con le proprie esportazioni. I due Stati che trassero maggior profitto da questa “eclissi” dell’Europa furono le due grandi potenze extraeuropee: gli Stati Uniti e il Giappone» (Massimo L. Salvadori, Storia dell’età contemporanea, vol. 2°, Löscher, pp. 556-557).
Per quel che riguarda l’Italia, essa, paradossalmente, usciva dal conflitto mondiale, da un lato, come una delle grandi potenze vincitrici, dall’altro, in preda ad una crisi di enorme portata. Lo sforzo, sostenuto dagli Italiani durante la guerra, era stato gigantesco, se conside-rato dal punto di vista delle potenzialità interne, ma sicuramente modesto, se paragonato a quello compiuto da Francia e Gran Bretagna, tanto che, al tavolo della pace e delle trattative per i compensi, i veri «grandi» europei e gli statunitensi trattarono l’Italia come una potenza di secondo rango, gettando in uno stato di frustrazione profonda quei gruppi che avevano voluto e sostenuto l’intervento in guerra alla luce di speranze di grandi risultati. Inoltre, a differenza che in Francia e in Inghilterra, le masse popolari non avevano sentito affatto la guerra come una guerra nazionale e patriottica, bensì come una fonte di sofferenze ingiustificate volute dalla classe dirigente o, comunque, da una minoranza.
Fu così che nel 1919 la polemica tra «interventisti» e «neutralisti» riprese violenta. I primi chiedevano l’esaudimento delle promesse del trattato di Londra del 1915 (la Dalmazia, Fiume, larghe zone dell’Anatolia, ingrandimenti coloniali), sostenuti anche, a Parigi, dal primo ministro Vittorio Emanuele Orlando e dal ministro degli esteri Sonnino, ma non ottennero alcun risultato, cosicché si parlò di «vittoria mutilata», dando spazio alle ulteriori rimostranze dei nazionalisti (D’Annunzio e Fiume, 12 settembre 1919). I secondi mettevano l’accendo sulle conseguenze «sociali» della guerra, che aveva impoverito enormemente la nazione.
«Il dopoguerra vide infatti la società italiana profondamente mutata. Anzitutto il bilan-cio dello Stato mostrava un deficit pauroso: nel 1918-19 il deficit ammontava a 23.345 milio-ni, mentre nel 1913-14 era di 214 milioni. Il debito pubblico raggiunse cifre altissime. La moneta si deprezzava sempre più. I risparmiatori piccoli e medi vedevano i loro capitali fati-cosamente accumulati polverizzarsi e perdere sovente ogni valore, mentre le tasse crescevano notevolmente. Lo stesso discorso valeva per i piccoli possessori di alloggi o di terreni dati in affitto, soggetti a blocco. Tutto ciò mentre i prezzi salivano velocemente. Anche la massa degli impiegati statali riceveva salari che non tenevano dietro all’aumento della vita. La piccola e media borghesia insomma, che aveva fornito i quadri degli ufficiali di complemento all’esercito, da un lato si trovava esaltata dal patriottismo e orgogliosa della guerra vinta e dall’altro, impoveritasi durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, era afferrata da un profondo senso di delusione per le proprie crescenti difficoltà economiche e per la debolezza dell’Italia nelle trattative con gli alleati al tavolo della pace, che non procurarono facili ric-chezze in colonie o protettorati ricchi di materie prime. Molti ufficiali piccolo-borghesi, che si erano abituati al comando durante la guerra, quando vennero smobilitati si trovarono disoc-cupati ed emarginati socialmente in un sistema produttivo troppo debole per offrire lavoro a tutti» (M.L. Salvadori, op. cit., p. 580-581).
In questo clima confuso e di grave disagio sociale, i cattolici riprendono la loro attività sia nell’ambito «sociale» sia in quello più propriamente politico.
Il 16 marzo del 1918, ancora in piena guerra, il segretario generale delle Unioni profes-sionali cattoliche, Giambattista Valente, convocava a Roma i rappresentanti di nove sindacati cattolici a base nazionale e quelli di 26 uffici del lavoro esistenti nelle principali città italiane, dando vita alla CIL, Confederazione Italiana dei Lavoratori, il sindacato cattolico con 150 mila iscritti. (Accanto alla CGL, nata nel 1906, all’USI – Unione sindacale italiana, nata nel 1912 da una costola della CGL e alla UIL, Unione italiana del lavoro, nata nel 1918 per opera degli interventisti). Il suo sviluppo fu enorme se si pensa che già nel 1920 i suoi iscritti supe-rarono il milione.
La CIL professava la libertà nei confronti dei partiti politici, l’equidistanza tra capitali-smo e collettivismo, il rifiuto della lotta di classe, il perseguimento dell’«idealità cristiana», che vuole che «tutti gli uomini siano fratelli e solidali nel bene e nel progresso».
«Per quanto riguarda la composizione sociale della CIL occorre però osservare come il 75% fossero agricoltori. Parlando del primo Congresso della CIL tenuto a Pisa nel marzo di quell’anno così il Valente scriverà nelle sue memorie: “gli demmo il nome di Congresso ope-raio, anche se buona parte degli intervenuti rappresentavano categorie rurali”. E su 900.000 contadini iscritti soltanto 100.000 erano braccianti, gli altri mezzadri, affittuari o piccoli pro-prietari, mentre la CGL, che contava un numero pressoché uguale di iscritti nel settore agrico-lo, aveva più di 700.000 salariati. Tra i salariati organizzati dalla CIL attraverso la Federazione italiana lavoratori agricoli vanno particolarmente ricordate le mondine che, per l’opera appassionata di Giuseppina Scanni, ebbero anche alcune Case della risaiuola nei luoghi della monda e un giornaletto particolare, La Risaiola. Il mondo rurale – soprattutto nella sua parte moderata – era ancora abbastanza tradizionalmente legato all’ambiente cattolico ed era logico che i sindacati cattolici avessero lì il maggior numero di iscritti. Non si deve però pensare che i sindacati agricoli cattolici accettassero sempre o facilmente le condizioni poste dai padroni a differenza di quelli socialisti. Le leghe bianche del Cremonese, guidate dall’on. Miglioli, da Giuseppe Cappi e da Piero Brugnoli, avevano dato vita proprio nell’estate del 1920 ai consigli di fattoria e nel 1922 dopo mesi e mesi di sciopero otterranno, in collaborazione al partito socialista e la Camera del lavoro, il noto “lodo Bianchi” entrato nella storia del sindacalismo per la sua carica innovatrice che sanciva la fine del salariato (anche i braccianti avrebbero partecipato alla divisione dei profitti) e l’instaurazione di un regime associazionistico avente come fine la gestione congiunta del podere. Anche se purtroppo per non attuarlo i proprietari ricorsero – e con effetto – alle squadre fasciste di Farinacci».
«Accanto alla Confederazione dei lavoratori italiani e molto più potente di essa due altre organizzazioni economiche di ispirazione cristiana agirono in quegli anni in Italia, entrambe costituitesi tra il 1918 e il 1919 e resesi entrambe autonome nei confronti dell’Unione popolare nel cui ambito avevano prima operato, e cioè la Confederazione cooperativa italiana e la Confederazione mutualità e previdenza.

a) La prima, con sede a Roma e segretario generale Ercole Chiri, aveva raggruppato la Federazione nazionale cooperative di consumo, la Federazione casse rurali, e la Federazione nazionale cooperative agricole di produzione e di lavoro. Alla fine del 1920 la Confederazione cooperativa italiana contava 3.200 cooperative di consumo, 2.116 casse rurali, 800 unioni agricole per acquisti o per fittanze collettive, 694 cooperative di lavoro, 40 cooperative di pescatori e 525 cooperative varie costituite con speciali convenzioni da ex combattenti. Era un bel risultato nei due primi decenni del secolo, ottenuto sulla spinta che l’Opera dei Congressi prima e l’Unione economico-sociale poi, avevano dato al movimento cooperativistico. Poco dopo però, per la particolare impostazione data alla politica creditizia favorevole alle grosse concentrazioni bancarie, le istituzioni cooperative e in modo particolare le casse rurali diminuirono notevolmente, ancor prima che la rete, costituita con tanta pazienza, fosse d’un sol colpo distrutta dal fascismo.

b) La seconda, la Confederazione mutualità e previdenza sociale, con sede a Geno-va, raccoglieva quasi 2.000 società di mutuo soccorso. Le mutue erano di due tipi: casse di mutuo soccorso fra lavoratori di diverse categorie abitanti nella stessa parrocchia, o mutue di malattia fra lavoratori della stessa categoria. Le mutue, questa forma così primordiale, ma anche così facile e perciò più sentita e realizzata, di solidarietà e organizzazione, erano tal-mente capillari che in alcune province venete come a Padova o a Vicenza ne esisteva una per ogni comune, mentre quelle di Milano, Bergamo e Brescia ne avevano una ogni due, o altre, come Cremona, Ascoli Piceno, Siena e Napoli una ogni tre. Anche zone di solito refrattarie al movimento operaio vi erano in qualche modo entrate proprio attraverso questi organismi. La Confederazione della mutualità costituì così un ente di servizi assistenziali e previdenziali autorganizzati e gestiti dai lavoratori stessi, vera scuola di democrazia. Anch’essa però fu distrutta dalla legislazione fascista, statalizzatrice pure delle forme previdenziali».
Accanto alla febbrile attività sindacale si sviluppò, così, l’attività politica con la nascita del Partito Popolare italiano (18 gennaio 1919). Con la sua costituzione si deve considerare conclusa la storia del «movimento cattolico», se per esso si intende quel complesso movimento religioso, sociale e politico, nato dal conflitto tra la Chiesa e lo Stato italiano.
Va qui ricordato che una parte determinante nella nascita del nuovo partito la ebbe l’avvento al pontificato di Benedetto XV (1914-1922), che aveva una visione assai chiara dei problemi e dei compiti che si ponevano alla Chiesa nella nuova fase storica aperta con il tre-mendo conflitto mondiale. A questo scopo egli aveva istituito una Giunta direttiva del-l’Azione cattolica che coordinasse efficacemente i vari rami dell’attività dei cattolici e vide chiara l’opportunità che l’attività politica e sindacale non restasse chiusa negli schemi angusti di un’organizzazione a base religiosa, ma si inserisse efficacemente nel vasto mondo del pro-gresso sociale e popolare cui la guerra aveva dato l’avvio.
Fu così che Luigi Sturzo ottenne senza difficoltà l’autorizzazione a creare un partito di cattolici, aconfessionale nel suo programma e indipendente dalla gerarchia. Il 18 gennaio 1919 venne dato alla stampa, unitamente all’«Appello ai liberi e ai forti» il programma del Partito Popolare italiano.
Quanto al programma, si può notare che esso mantiene, per un verso, quelle tradizionali rivendicazioni dei cattolici, che avevano già formato l’oggetto delle loro richieste al tempo delle alleanze clerico-moderate (integrità della famiglia, libertà di insegnamento, libertà nel-l’attività sindacale), rimarcando ora, ad esempio, l’incremento e la difesa della piccola pro-prietà rurale, tanto attesa dai contadini.
Dall’altro verso, il programma di Sturzo va oltre, proponendo che il Partito Popolare di-venga strumento di un profondo rinnovamento dello Stato, che porti al superamento della sua base individualistica e borghese, alla rivalutazione di tutte le forze sociali e di tutti quegli organismi intermedi fra l’individuo e lo Stato che erano rimasti privi di spazio nello Stato bor-ghese. «Così vediamo fortemente riaffermata la libertà e l’autonomia degli enti locali, vediamo ribadito il principio della libertà delle iniziative di assistenza e beneficenza e subito dopo affermata la libertà della Chiesa, la quale esigenza, dunque, non ha qui un significato propriamente religioso, ma è stata tradotta in termini politici e inserita in un complesso quadro di rivendicazioni e di autonomie e libertà contro lo Stato esclusivista e accentratore» (P. Scoppola, op. cit., pp. 154-155).
Accanto a tutto questo, il programma richiedeva una riforma tributaria ispirata a criteri progressivi, l’affermazione di una riforma elettorale che estendesse il diritto di voto alle donne e introducesse il sistema proporzionale (contro il maggioritario-uninominale esistente), allo scopo di spezzare, specie nel Sud, le clientele locali, fondate sui favori amministrativi. «Al blocco di potere che aveva caratterizzato il periodo giolittiano – fondato sull’alleanza, come si è già visto, della grande industria del Nord con le frange più avanzate del mondo operaio e con il potere centrale – Sturzo tende a contrapporre un nuovo “blocco storico”, fondato sull’intesa fra mondo contadino e ceti medi, che dia spazio alle esigenze e ai problemi non risolti del Mezzogiorno» (P. Scoppola, op. cit., p. 155).
Il primo Congresso del Partito Popolare si tenne a Bologna dal 14 al 16 giugno 1919. Lì furono ampiamente discusse e approfondite le linee ideologiche e programmatiche del partito, con particolare riferimento alla aconfessionalità del partito. E proprio questo problema rivelò chiaramente la presenza, tra le file dei popolari, di tre anime culturali e politiche: quella dei clerico-moderati, che non avrebbe disdegnato la continuazione della collaborazione con i liberali, quella sturziana, centrista, proponitrice di una «moderata intransigenza» e quella di Guido Miglioli, di sinistra, che chiedeva un’intransigenza assoluta di fronte ad ogni alleanza con i liberali.
Il travaglio, come si vede, delle correnti dentro il Partito Popolare, incominciava subito. Fu soprattutto il discorso di Miglioli a dare l’idea dei forti contrasti già esistenti e, insieme, della vivacità e consistenza dell’ala sinistra. Miglioli denunciava l’affarismo bancario, il capi-talismo industriale, il militarismo, tanto da provocare l’interruzione del padre Gemelli, ex socialista: «Tu hai parlato come parla un socialista e non come parla un cristiano». La sua corrente, in seguito, nel successivo Congresso di Napoli del 1920, ottenne un discreto succes-so, anche se non poté agire apertamente, per il divieto di dar vita a correnti organizzate nel partito. Poiché, allora, due seguaci di Miglioli, Speranzini e Cocchi, si rifiutarono di obbedire, essi furono espulsi dal partito e fondarono il Partito cristiano del lavoro, appoggiato dal periodico Bandiera bianca, che però non ebbe alcun peso nella vita del paese.
Intanto anche i membri della Lega democratica cristiana (Murri) non avevano voluto entrare nel nuovo partito, temendone il confessionalismo e il moderatismo. Nell’aprile del 1919 alcuni di loro, con a capo Giuseppe Donati, avevano fondato il Partito democratico cristiano italiano, che però ebbe breve vita e fu sciolto nel 1920, quando molti membri, tra cui il Donati, confluirono nel PPI rinforzando l’anima della sinistra cattolica.
Sarebbe qui difficile tracciare la complessa vicenda della collaborazione popolare ai vari governi che si succedettero in quegli anni tormentati della nostra vita politica: dai due governi Nitti, al governo Giolitti, al governo Bonomi e, infine, dopo il famoso «veto» popolare al ri-torno di Giolitti, ai due governi Facta. Si trattò di una collaborazione certo non consona alle esigenze più profonde del partito, imposta tuttavia dalle circostanze politiche.
Solo qualche accenno può bastare:
– il 16 novembre 1919, alle prime elezioni cui partecipano, i popolari ebbero il 20,5% dei voti validi e 100 deputati (i socialisti il 34,5% e 156 deputati);
– nelle elezioni del maggio 1921, volute dal Giolitti, i popolari ottennero 107 depu-tati, 123 i socialisti, 15 i comunisti (e 35 deputati fascisti!), ma fu allora che, in mancanza di un accordo tra loro e i socialisti, ebbe l’incarico di formare il nuovo governo il luogotenente di Giolitti, dopo un brevissimo tentativo di Bonomi, cioè l’onorevole Facta.
Ma si era ormai alla vigilia della marcia su Roma.

I cattolici trentini nei primi due decenni del Novecento (1904-1922)

1. L’episcopato di Celestino Endrici (1904-1940)

All’inizio del ventesimo secolo, lo si è ricordato nelle considerazioni conclusive dell’incontro precedente, alcuni fatti significativi hanno contribuito a dare al movimento cattolico trentino un’impronta che sarebbe durata a lungo nel corso dei decenni successivi. Essi sono:
a) Innanzitutto la vittoria degli «intransigenti» o dei «confessionali» all’interno del movimento cooperativistico, guidato ormai da don G.B. Panizza e dall’ingegner Emanuele Lanzarotti dopo la morte di don Guetti (+ 1898). Ciò significava la salvaguardia della «società cristiana» anche attraverso le attività sociali legate alle cooperative e alle casse rurali, che dovevano essere guidate solo da cattolici.
b) Poi la nascita, prima, dell’Unione politica popolare trentina (1904) e, subito dopo, del Partito popolare Trentino (1905 – PPT) ad opera di Alcide Degasperi (1881-1954), che divenne di fatto (nonostante l’opzione “aconfessionale” di Degasperi) l’unica via praticata dai cattolici trentini per la loro partecipazione alla vita politica.
c) Infine il ruolo centrale che venne ad assumere con Celestino Endrici il Comitato diocesano di Azione cattolica, nato nel 1898, al tempo del vescovo Valussi, affidato da En-drici al suo amico fidato, compagno di studi a Roma, don Guido de Gentili (1870-1945). Esso era già stato presentato, come si è visto nel precedente incontro, come un organismo avente lo scopo «di dare maggiore, più stabile e più regolare sviluppo al movimento e all’organiz-zazione cattolica, di riunire le forze cattoliche e coordinarne l’azione».
Nasceva così con Endrici quel «sistema a tripla rotaia», come venne chiamato, che
univa insieme attività pastorale, attività sociale, attività politica, guidato da tre uomini, Endrici appunto, de Gentili e Degasperi. Tutti gli altri erano comprimari, utili a ricondurre l’attività dei cattolici trentini, preti e laici, all’unico scopo di «instaurare omnia in Christo», che era anche il motto di Pio X.
Se si possono fare qui alcune osservazioni di fondo, si può affermare che proprio questa rigida e «onnicoinvolgente» struttura permise al movimento cattolico trentino di agire con grande unità e uniformità. Esso aveva il suo punto di forza nella curia diocesana e nelle cam-pagne, mentre stentò ad affermarsi nei pochi centri urbani.
I suoi punti di debolezza, a partire già dal 1906, riguardarono l’attenzione per la que-stione operaia, nonostante gli sforzi compiuti dallo stesso Degasperi con i segantini della val di Fiemme e poi da don Costante Dallabrida nel 1907 nel campo dell’organizzazione dei la-voratori delle fabbriche (i tabaccai di Sacco, i ferrovieri). Le stesse SAOC, come si è visto (Società Agricole Operaie Cattoliche), ebbero vita breve e travagliata.
Qualche fatica vi fu nel campo delle unioni professionali nel campo industriale, mentre fiorirono quelle nel mondo contadino, anche contro la Lega dei contadini di Patrizio Bosetti di Isera, di ispirazione laico-socialista. Si è già parlato della nascita della «Società magistrale trentina» del 1899.
Per il resto il movimento cattolico trentino fu indubbiamente – come scrive Severino Vareschi (Storia del Trentino, vol. 5°, cit., p. 831) – una grande avventura del cattolicesimo locale e un momento di una sua forte presenza nel sociale. Guidati da quella sorta di «trium-virato» (mi si passi la parola), laici e preti erano impegnati a costruire una società tutta cri-stiana, i primi attraverso l’attività sociale e politica in particolare, i secondi attraverso l’educazione morale e religiosa dei fedeli, di cui erano le guide indiscusse.
Nel secondo «Katholikentag» (Congresso cattolico) del 1912 (il primo si era celebrato nel 1902) nel discorso di introduzione il vescovo Endrici ricordava quel era lo scopo di quella celebrazione: si trattava di «rievocare lo spirito cristiano che deve informare l’azione cattolica, che deve cooperare a quella restaurazione sociale in Cristo che è la base fondamentale dell’azione cattolica della Chiesa». E don Guido de Gentili, concludendo il Congresso, ricor-dava che «l’uomo oltre che nel sacrario intimo della coscienza e dell’attività individuale, deve seguire la legge divina nella famiglia, nella scuola, in tutte le manifestazioni pubbliche della vita… A questa norma nulla si sottrae: non il vincolo coniugale, non l’insegnamento, non l’educazione, non i contratti, non la legislazione!».

2. Il primo dopoguerra (1918-1922)

Il tempo di guerra, tra il 1914 e il 1918, bloccò temporaneamente il prosieguo del pro-gramma pastorale di Celestino Endrici e, di conseguenza, rallentò per ovvie ragioni anche l’attività sociale e politica del movimento cattolico trentino.
E l’immediato dopoguerra fu terribile, per un territorio conteso, diventato teatro di guerra in gran parte dei suoi confini con l’Italia. «In Trentino la guerra aveva comportato sia per il territorio che per le strutture, danni materiali enormi, e per le popolazioni un profondo sconvolgimento morale e sociale: 60.000 furono i maschi trentini nati tra il 1871 e il 1897 arruolati nell’esercito austriaco, mentre l’entrata in guerra dell’Italia nel maggio del 1915 fece del territorio della provincia, in modo particolare della fascia periferica, un immediato terreno di guerra. Nei primi anni Venti la valutazione dei danni di guerra nel territorio trentino oscillò tra poco più di 3 milioni e poco meno di 4 milioni di lire italiane. Più gravi ancora furono i danni sul tessuto sociale e nel vissuto delle persone: al momento dello scoppio della guerra con l’Italia più di 70.000 trentini vennero forzosamente trasferiti dall’autorità militare in varie regioni dell’Austria, della Boemia e della Moravia; di questi, 1.600 vennero internati e confinati per motivi politici. Altri 35.000 avevano dovuto abbandonare nelle stesse settimane i territori più meridionali del paese, occupati dal regio esercito italiano, a loro volta trasferiti in varie regioni italiane, alle volte in condizioni anche peggiori» (Severino Vareschi, op. cit., vol. 6°, p. 281).
Se la ricostruzione materiale fu lenta e faticosa, quella sociale e morale fu ancora più impegnativa. Già provati dalle deportazioni e dai combattimenti sul campo, uomini e donne dovettero superare le tentazioni dello scoraggiamento e del disfattismo. In quel contesto la preoccupazione e l’impegno del vescovo Endrici furono soprattutto per il recupero, accanto alla pace sociale, del carattere integralmente cattolico della società trentina e della valenza pubblica e istituzionale del Cattolicesimo in questa regione. Si trattava anche di «difendere» quella caratteristica di fronte al nuovo Stato, l’Italia, la cui tradizione anticlericale e fortemente massonica faceva temere il peggio circa il futuro status giuridico della Chiesa e delle asso-ciazioni cattoliche, come pure delle loro imprese e proprietà.
Si cominciò con la scuola, per difendere i consigli scolastici provinciali, distrettuali e comunali, dove forte era l’influenza del clero e per salvaguardare l’insegnamento della reli-gione nella scuola pubblica. Se la prima questione sarebbe stata risolta successivamente con la abolizione di quei consigli da parte del Fascismo, per l’insegnamento della religione nella scuola Endrici mobilitò la base cattolica, costituendo le Associazioni parrocchiali di Padri di famiglia, costituite in Federazioni nel 1919, con 90 società e 15.000 soci, che nel 1923 sareb-bero diventati 40.000. Si rinnovò il legame con i maestri cattolici, riuniti nell’associa-zione «Niccolò Tommaseo» che aveva carattere nazionale.
La questione scolastica fece da catalizzatore anche alla mobilitazione e la ripresa di tutto il movimento cattolico trentino. «Il 23 novembre 1918, neanche tre settimane dopo l’entrata dell’esercito italiano a Trento, era in edicola “Il nuovo Trentino”, il quotidiano cattolico locale che si collegava anche nella testata al giornale cattolico d’anteguerra, affidato anche questa volta alla direzione di Alcide Degasperi e destinato a fungere, come già allora, da organo del Comitato diocesano di Azione Cattolica, anch’esso nuovamente presieduto da mons. Guido de Gentili. Segretario era don Giulio Delugan…
Altro terreno su cui il movimento cattolico doveva presentarsi con tempestività era quello dell’opera di ricostruzione e dell’organizzazione del lavoro. I consorzi cooperativi di smercio e consumo, come pure quelli di credito, non erano scomparsi del tutto durante la guerra. Ora si trattava di ripartire per ricuperare tutta la straordinaria operatività che il movi-mento cattolico aveva espresso in quel settore già prima della guerra. Così fu: già alla fine del 1920 le cooperative di consumo avevano superato, con 269, il numero di consorzi dell’anteguerra, e a fine 1921 erano 292 con 36.000 soci. Altrettanto vistosa era stata la ripresa del credito cooperativo, con la sua valenza decisiva per l’economia e per la ripresa sociale in generale. Nella primavera del 1922 il nuovo presidente della Federazione, monsignor Giacomo Regensburger, parlava di avvenuto “assanamento delle perdite prodotte alle casse rurali dalla svalutazione dei titoli austro-ungarici”. La situazione e l’urgenza della ricostruzione ponevano al movimento cooperativistico cattolico il compito di cimentarsi anche sul terreno delle cooperative di lavoro, che nell’anteguerra era rimasto quasi inesplorato, lasciato all’iniziativa dei socialisti. A fine ottobre 1919 risultavano costituite 30 cooperative di lavoro, ma nel febbraio dell’anno seguente erano 69, con 5.569 soci. L’organo promotore era anche qui il Comitato diocesano, in particolare attraverso il Segretariato del popolo, pure esso di ascendenza prebellica.
Importantissimo divenne anche l’impegno pastorale nei confronti della gioventù. Nel novembre 1919 si discusse all’interno del Comitato diocesano per “venire a un’intesa sul modo di organizzare la gioventù cristiana”. Si trattava di riavviare e intensificare l’erezione di ricreatori parrocchiali e circoli giovanili. Nel marzo 1920 la situazione non appariva molto soddisfacente e il mese seguente venne messo a punto uno statuto “tipo” per i circoli che an-davano sorgendo. Nel febbraio 1919 era sorto, ad esempio a Trento, il circolo “Juventus”, e nel novembre dello stesso anno a Rovereto il circolo “Benedetto XV”. Nella primavera 1920 venne costituita la Federazione dei circoli giovanili, supportata economicamente dal Comitato dioce-sano, dalla Banca Cattolica e dal SAIT.
In questo modo si andava ricostituendo – come prima e più di prima – il sistema che Alcide Degasperi aveva definito “a tripla rotaia”, costituito da circoli di Azione Cattolica (con il Comitato diocesano), opere economico-sociali e partito. Anche su quest’ultimo terreno occorreva essere tempestivi. Nel gennaio 1919 venne fondato anche in Italia, per iniziativa di don Luigi Sturzo, il Partito Popolare Italiano. I popolari trentini, reduci da un ultimo scampolo di attività parlamentare a partire dal maggio 1917 nel Parlamento di Vienna, vennero subito coinvolti nell’omonimo raggruppamento italiano. Nel giugno 1919 Guido de Gentili parlò nel primo congresso del PPI e Degasperi nel secondo a Napoli, nell’aprile 1920. Anche a questo riguardo Endrici, nella lettera ai decani del luglio 1919, mise all’opera il clero. In ottobre si tenne a Trento l’assemblea costitutiva del Partito Popolare del Trentino, avendo come prossimi impegni la ricostituzione della rappresentanza elettiva provinciale e il mantenimento della pressione sul governo italiano in vista dell’opera di ricostruzione e per il risarcimento dei danni di guerra; inoltre la rappresentazione, presso il governo medesimo, dei bisogni e delle lamentele della popolazione trentina; infine la promozione di istituzioni amministrative autonome in regione. Quest’ultimo punto rimarrà solo una speranza, affossata dall’applicazione nel 1923, ormai in epoca fascista, della comune legislazione provinciale italiana.
Le forze politiche trentine si contarono per la prima volta in maniera precisa nelle ele-zioni politiche nazionali del 15 maggio 1921. Su sette seggi, cinque andarono ai popolari, con 35.921 voti, due ai socialisti, con 20.392 voti. Se il risultato era consolante per i popolari, i socialisti avevano compiuto un balzo nettissimo rispetto all’anteguerra e costituivano attual-mente il 30% dell’elettorato. Per di più risultavano il primo partito in tutte le città della pro-vincia: Trento, Rovereto, Riva, Levico, Arco, Ala. Liberali e bosettiani non avevano ottenuto rappresentanza. Per il mondo cattolico trentino, e in particolare per Endrici e per il Comitato diocesano, le elezioni del 1921 furono dunque anche un campanello d’allarme ed evidenzia-rono molto chiaramente gli impegni che attendevano il mondo cattolico» (Severino Vareschi, op. cit., pp. 285-287, passim).