Canova, 18 marzo 2005 – 5° incontro
(Giovanni 1, 14)
(don Marcello Farina)
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1. GESÙ DI NAZARETH, PAROLA FATTA CARNE
La contemplazione, che la fede continuamente ci suggerisce sulla persona di Gesù di Nazareth, ci invita stavolta a immergerci nel mistero dell’Incarnazione, cioè a quell’azione straordinaria di Dio dentro la storia dell’uomo, che ci lascia in eredità una «Parola fatta carne»; una realtà, che appartiene simultaneamente alla stessa vita-esperienza del Dio biblico (che è un Dio che parla-crea: Dio disse… e la luce, il cielo, l’uomo fu…) e all’esperienza dell’uomo, le cui parole diventano il tramite privilegiato della comunicazione di esistenza, del dialogo tra le persone, capaci a loro volta di far vivere, oppure di distruggere, di essere seminatrici di mor-te. Il mistero della Parola, che la Bibbia ci mette davanti, interessa quindi la stessa possibilità di salvezza (“Egli era nel mondo… ma il mondo non l’ha riconosciuto”: Gv 1, 10), ma coglie anche la drammaticità del rapporto di ogni uomo con la “parola”, ad un tempo incombente su di lui e, insieme, prodotta da lui, un utensile per la vita ordinaria.
– Che fare di una «Parola-fatta-carne» di fronte ai 35 milioni di parole prodotte ogni giorno dai mass- media?
– Che fare di una «Parola-che-salva = Parola che guarisce» (Drewermann) di fronte a tante parole opache, svilite, “malate” del nostro tempo?
– Che fare di una «Parola-luce-vera» di fronte ai molti fraintendimenti che le parole dell’uomo portano con sé, anche lì dove dovrebbero portare chiarezza, indicare vie praticabili?
– Che fare, infine, di una «Parola-diventata-uomo», di fronte alle miriadi di parole vuote, semplici “nomina”, “Flatus vocis”, come diceva l’antica Scolastica, incapaci di comunicare vita, storia, coinvolgimento esistenziale?
I cristiani si scoprono destinatari di una “Parola-ó” che è portatrice di sal-vezza (è salvezza) e, insieme, dispensatori-comunicatori di quella stessa Parola, diventando nel mondo coloro che ne conservano la memoria e ne propongono la presenza, consapevoli che “la Parola di Dio è viva ed efficace ed è più tagliente di qualsiasi spada a doppio taglio…” (Ebrei 4, 12). Essi si scoprono “servi” della Parola, mai padroni di Essa, umili annunciatori e fedeli interpreti, per quanto lo possono, attraverso la vita, di ciò che la Parola continua a suggerire alla comunità, sollecitandone la conversione e la fedeltà dentro la storia.
2. PAROLE D’UOMO…
Ci sentiamo sempre più presi da un senso di smarrimento, quando cerchiamo di renderci conto del rapporto che si instaura tra la parola (le parole) e l’uomo (cia-scuno di noi), sia egli il comunicatore di parole o un semplice ascoltatore. Le parole sembrano entrare in una sempre più ampia «zona d’ombra», che le rende oscure, incapaci di dire.
Ciò capita per due motivi: sia a) a causa dei parlanti che non dicono, che non capiscono, sia b) a causa della parola in quanto tale.
a) Nel primo caso occorre renderci conto di tre fatti:
– Le parole, con gli attuali strumenti tecnici della comunicazione (non solo quella di massa), sembrano avere una vita propria, indipendentemente dai parlanti: si può perfino far finta di parlare (in playback), mentre invece quel che si trasmette è pre-confezionato, non è spontaneo e magari nemmeno in diretta. Vi sono situazioni sempre più numerose in cui, a confronto, appaiono esserci solo una parola, come una specie di cosa autonoma, e l’ascoltante. È la rottura dell’interazione comunicativa faccia a faccia.
– Il rapporto poi tra coloro che si comunicano parole è cambiato: la cre-dibilità affidata ad esse non è un dato automatico; colui che ascolta, crede, ob-bedisce, vuole avere uno spazio per una propria interpretazione, una propria decisione di conferma della lealtà o della differenziazione nei confronti di colui che parla. Ad esempio, molti che parlano, perché hanno l’autorità di parlare (o ritengono di averla) non si accorgono che forse hanno un codice culturale e di linguaggio diventato parzialmente diverso da quello di coloro che dovrebbero seguirli, ma – ancora più in radice – non si accorgono che è la loro autori-tà/autorevolezza che si è indebolita in quanto tale.
«Non si tratta infatti solo di un problema di contenuti delle parole che non dicono, ma del rapporto tra i comunicanti che non consente ai contenuti, magari capiti benissimo dagli ascoltanti, di produrre alcun effetto trasformativo (possono fare anzi l’effetto opposto di quello desiderato). Questo processo psicologico-sociale va letto anche in modo reciproco: colui che ha autorità e non ha fiducia nei suoi sottoposti, nei suoi “fedeli”, sente, ma non ascolta le parole che essi gli dicono, specialmente quelle parole con cui chiedono cose diverse da quelle che egli ha già decise, con cui pongono problemi che mettono in questione le cose. Si può anche dire: colui che non ascolta, di fatto anche se “a parole” o intenzionalmente può negarlo, non ha fiducia in chi gli parla. E l’ascolto è una delle pratiche culturali e spirituali che viene poco esercitata oggi, a tutti i livelli, sia alla base che al vertice delle istituzioni, politiche e religiose. Sono aspetti del processo di comunicazione che vanno riconosciuti e vagliati, distinguendoli ma senza separarli, senza pensare di poterli trattare e risolvere l’uno staccato dall’altro» (I. De Sandre, Le parole che non dicono, in Servitium, n. 89, p. 91).
– Infine ci si accorge che non c’è sintonia di aspettative rispetto ai discorsi che possono essere fatti: per esempio per uno che attende una parola di affetto, la parola razionale che l’altro eventualmente gli dice può non essere nemmeno capìta, o capìta, ma non accolta. E viceversa, uno si attende un sostegno di amicizia e riceve una spiegazione; un altro si attende una spiegazione e invece riceve un comando a credere anche senza capire, o una parola emotiva.
«Nel campo religioso, in particolare, l’istruzione cresce ma è ancora poco dif-fusa ed uti singulo, la comunicazione è poca e spesso solo dall’alto al basso, unidirezionale, i repertori linguistici sono di tipo teologico-razionale o di tipo rituale, al di fuori della familiarità e della padronanza dei ruoli quotidiani delle persone. Eppure le stesse persone, invece, nella vita normale si sentono di avere “più parola in capitolo”, vogliono “dire la loro”, farsi ascoltare. Il codice non è più così comune, il repertorio dei “catechismi” viene da molti associato in quanto tale al linguaggio dell’infanzia, il lessico teologico-ecclesiastico non viene capito, e il codice biblico è così ignorato e ritualizzato (e poco conosciuto dagli stessi preti) che non dice che pochissimo rispetto alla sua ricchezza, alla sua pluralità di stimoli. È il codice culturale (religioso) il primo problema, nel senso del linguaggio e nel senso delle aspettative di azione (e quindi anche di discorso e di senso)» (Ibidem, p. 92).
b) Nel secondo caso, cioè di fronte alla parola in quanto tale, ci accorgiamo:
– Vi sono parole che volutamente non sono più ascoltate, accolte, fatte proprie da chi pur le ascolta. La parola qui ha un controeffetto, la sua compren-sione produce delle scelte, che vogliono differenziarsi, stimola l’identità di chi ascolta a voler essere e fare altrimenti. Ad es. un allievo può ascoltare con attenzio-ne il maestro, ma decidere di pensare e di fare altrimenti: una sfida a se stesso ed al maestro, la decisione di lasciarlo, oppure di cercare di sconfiggerlo come maestro. (E dentro la Chiesa?).
– Vi sono parole che vogliono non dire, vogliono nascondere, parole che vengono taciute per interesse: parole che vogliono persuadere, senza che chi le ascolta abbia tutte le informazioni giuste per dare una risposta consapevole e libera.
«Le élites dominanti, i partiti politici, le chiese, sono stati lungo tutta la storia, e tuttora, fortemente criticati per questo tipo di parole, che sono state chiamate ideologiche. Ma non si tratta di volere delle parole purificate da qualsiasi interesse, quanto la scelta di non nasconderli, quegli interessi, in modo che gli altri possono valutarli, di non manomettere fatti e argomenti in disaccordo, di non nascondere le incompletezze della propria notizia. Il dialogo, come costruzione interattiva e di-scorsiva di un con-senso, è esattamente l’opposto della comunicazione che usa parole ideologiche» (Ibidem, p. 93).
– Vi sono parole banali, chiacchiere vuote, che cercano di riempire altri vuoti, parole che contengono messaggi superficiali, generici, futili, detti per mo-strarsi e per mostrare. Piccoli idoli, che nascono da una cultura dei simulacri, per le quali «lo scambio simbolico» tra persone potenzialmente intelligenti è ridotto ad uno «scambio di simulacri di vita» (il mercato delle parole!).
– Vi sono parole che dicono troppe cose. Viviamo in una cultura mondia-le, con una storia in sviluppo rapidissimo e di elevatissima complessità, nella quale, per certe parole, ai vecchi significati se ne sono aggiunti molti di nuovi. Si fatica ad adoperarle, perché gli altri possono capirle in modo diverso dal nostro, la loro plurivocità non consente più di dare messaggi precisi. Molte parole dell’etica, della spiritualità, della religione, possono essere così.
«Amore, alleanza, fiducia, libertà, verità, giustizia, compassione, bellezza. Bisogna riuscire a fare chiarezza sui molti significati per mettere a fuoco quello corretto per intendersi, ma forse bisogna anche non voler sopprimere la possibile ricchezza che la vita ha immesso, ha stratificato dentro quella parola plurivoca, senza cercare sempre la unidimensionalità del linguaggio, delle sfumature. Ogni parola contiene una genealogia, le esperienze di generazioni diverse di parlanti, che vanno conosciute, di cui va fatta memoria. Bisogna arrivare a dire parole più chiare e vitali, senza interrompere la comunicazione tra significati di tempi diversi, facendo tesoro anche delle tensioni che le diversità generazionali delle esperienze hanno fatto emergere» (Ibidem, pp. 94-95).
– Vi sono parole che non riescono ancora a dire. Ci sono infatti delle cose, dei problemi, dei vissuti, per i quali non abbiamo “le parole per dirlo” e pure vorremmo. Ma non ne siamo gli specialisti, non saremmo autorizzati a parlare, e pure ne sentiamo il bisogno, l’urgenza, la bellezza. Allora cerchiamo di appropriarci di parole nuove, di nuovi codici, cerchiamo radici più profonde, la memoria, la sapienza sedimentate (Ibidem, p. 95).
– Vi sono, infine, parole che non vogliono dire tutto, per sobrietà, che la-sciano libertà a chi le ascolta di andare avanti per proprio conto.
«Sono pensate e gettate come semi per coloro che sono disposti ad accoglierle nello stesso spirito, come semi, che devono morire, maturare e germogliare. Parole di testimonianza dello spirito, religioso o non-religioso che sia, parole che si offrono e non si impongono. Parole che non dicono tutto, non vogliono avvolgere in una argomentazione, che, in quanto tale, spesso non ha bisogno di coinvolgimento personale, ma solo di analisi e di obbedienza logica. Mostrano un cambiamento possibile, un allargamento dell’esperienza, che però dev’essere creato da chi ascolta, dalla sua presa di parole e dalla sua esperienza, di senso e di relazione» (Ibidem, p. 96).
3. LE PAROLE DELLA FEDE
Di fronte alle tante parole, di cui abbiamo cercato una certa identificazione e descrizione, dentro il mondo babelico della comunicazione e dei linguaggi del no-stro tempo, ci accorgiamo sempre di più della difficoltà di dire, e di ridire l’esperienza della fede. Ma se accettiamo di confrontarci con il Nuovo Testamento per identificare «quali parole» diventano significative per la “trasmissione” della stessa fede, noi ci accorgiamo che il problema si trova per un certo verso semplificato e, per un altro, aumentato, se non reso addirittura più complesso.
a) Il Nuovo Testamento (soprattutto in Marco, Giovanni, Paolo) conosce una prima risposta alla domanda «quali parole?»: La Parola è Cristo.
Il Vangelo di Marco e quello di Giovanni si aprono con un’affermazione esplicita che, pur nella diversità dei termini e dello stile (la diversa teologia) rinvia a una convinzione profonda del Nuovo Testamento, ossia che la parola espressiva di Dio sia Gesù Cristo. E su questa linea si muove anche il pensiero di Paolo.
1. All’inizio del Vangelo di Marco troviamo queste parole: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio (Mc 1, 1) …Gesù si recò nella Galilea pre-dicando il Vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo”» (Mc 1, 14-15).
Vangelo significa parola buona, lieta novella, annuncio atteso. E questo in un contesto di storia della salvezza, di dialogo tra Dio e l’uomo. L’annuncio di questo vangelo è il compito prioritario di Cristo. La buona parola predicata da Gesù appartiene dunque a Dio, e comunica che il tempo è compiuto ed il suo regno è vicino. Questa parola però, data da Dio agli uomini, e segnale di una prossimità ineludibile della sua azione tra di essi, è lo stesso Gesù Cristo: “vangelo di Dio”, ma anche, in definitiva, la buona notizia.
2. Il Vangelo di Giovanni è ancora più esplicito: in principio era il Logos, e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio (Gv 1, 1); e il Logos si fece carne (Gv 1, 14).
Emergono, qui, tre sottolineature importanti:
– Anzitutto, che la Parola è già all’inizio; che essa è vicina a Dio, che la Parola è Dio. Tra la Parola e Dio si dà un rapporto di prossimità e convergenza. Si potrebbe, se mai, aggiungere che, fin dall’inizio, la Parola è dialogica (trinitaria);
– Poi la Parola si è fatta, è, «carne»;
– Questa carne, infine, è la carne dell’uomo, la carne di un uomo: Gesù, il Cristo.
Scrive Karl Rahner: «Noi abbiamo pensato che l’uomo miserabile potesse essere solo un abbozzo primitivo e mal riuscito del superuomo, che deve ancora venire, perché è duro per noi tollerarci così come siamo, specialmente vicino agli altri. E non abbiamo torto, perché è difficile sopportare l’uomo, che sbaglia conti-nuamente e cade da un estremo all’altro.
Eppure lui – come canta la Chiesa nel suo inno più sublime – non ha sdegnato il seno della Vergine! È venuto nella sua creatura, nell’uomo (senza questa realtà delle realtà, avremmo il coraggio di credere che l’opera di Dio è riuscita?). Si è in-sinuato in tutti i limiti di questa creatura, che sembrava poter esistere solo ad una distanza infinita da lui: nei limiti del seno materno, di una patria decaduta e soggetta al dominio straniero, di un’epoca disgraziata, di un ambiente ristretto, di una politica sbagliata, di un corpo destinato alla morte, nel carcere dell’incomprensione, del monotono quotidiano, del completo insuccesso, nella notte oscura della desolazione e della morte. Non si è risparmiato. Eppure i limiti in cui è penetrato Dio devono avere una via d’uscita. Deve valere la pena di essere uomo, se Dio non si è accontentato di se stesso, ma ha voluto anche essere uno di noi, se questo non gli è sembrato troppo pericoloso o troppo meschino. L’umanità non è un gregge, ma una sacra famiglia, in cui Dio stesso è presente come un fratello. La tragedia della sua storia deve pur avere un lieto fine, se Dio non assiste impassibile a questa commedia dal trono della sua infinità, ma vi svolge una parte con la stessa serietà di noi tutti, che siamo obbligati a farlo, ci piaccia o no».
b) Questa Parola è oggetto di esperienza: si può vedere, udire, toccare; di conoscenza: si può cogliere con l’intelligenza, lo studio, si può contemplare, si può entrare in comunione con Lei. Ciò vuol dire che la Parola è sempre una parola immersa nella storia, che l’avvolge e, in qualche modo, la spiega. Ed è per quello che, per comprenderla, bisogna guardare alla sua storia, tutta intera, dall’inizio alla fine, fin dentro le pieghe e gli anfratti. Se la Parola è Gesù Cristo, tutto nella sua vicenda è significante, vangelo, dall’inizio alla fine. E per questo Paolo si sente autorizzato a interpretarla proprio cominciando dal suo compimento, cioè dalla Croce.
Per lui sono equivalenti le espressioni “predicare il Vangelo” e “predicare Cristo crocefisso”. Cristo è parola di Dio e lo è emblematicamente sulla croce, che diventa così non un semplice dire, ma una comunicazione d’essere, contenente per suo conto, paradossalmente, anche il silenzio. Parola e silenzio si incontrano nel Cristo crocefisso, quasi a ricordarci che la parola di Dio emerge dentro il silenzio e in silenzio ritorna e, quindi, a farci cogliere l’estrema «gradualità» necessaria per accompagnare ogni tentativo dell’uomo di esprimere la realtà di Dio, prima della sua compiuta manifestazione.
c) È la Croce che rende possibile capire le molte parole che Gesù ha det-to.
Le parole dell’uomo nascondono, anche quelle del credente, il pericolo di asse-gnare all’iniziativa di Dio, del suo Cristo, dei contenuti che vengono dall’uomo stesso. Anche le parole della fede non sono aliene da questo pericolo. Pietro confessa il Cristo, ma riempie questa confessione di contenuti mondani, nel senso della potenza e del successo, anziché del servizio e del dono di sé.
«La croce svela, quindi, non solo il volto di Dio, ma anche la radicale insufficienza della parola umana, continuamente minacciata dal fraintendimento. A ben vedere, però, dietro ai fraintendimenti e agli equivoci della parola umana, anche di quella che tenta di dire Dio, la parola religiosa, si nasconde un vizio di univocità: l’uomo pensa a Dio a partire da se stesso; l’uomo tende ad umanizzare Dio; l’uomo è incline a negare la trascendenza, l’essere-Altro di Dio, sebbene una simile tra-scendenza, o forse proprio per questo, si riveli nel cuore dell’immanenza.
La croce, denunciando i pericoli e mostrando la radice – molti non credono proprio per la croce! -, pone nel modo più acuto il problema linguistico, il problema del come dire Dio, offrendo anche alcuni criteri orientativi.
La croce è il momento in cui si svela il massimo del divino, accanto al massimo dell’uomo. Di qui deriva che la parola della croce è una parola essenzialmente aperta, non esclusiva ma solidale, capace di tenere insieme la comprensione dell’uomo e la diversità di Dio, la trascendenza accanto all’immanenza, la vicinanza e la distanza» (F. Riva, Parola, parole e silenzio nel Vangelo, in Servitium, n. 89, pp. 20-27).
3. ALCUNE REGOLE DEL DIRE
La Parola di Dio, che discende dal suo dire, dal suo essere e dal suo fare, si rivolge, infine, a stimolare il dire, l’essere e il fare dell’uomo. Essa si presenta con delle caratteristiche, che ci permettono di confrontare la sua efficacia con la mai esausta ricerca della comunicazione della fede, che non ci lascia mai soddisfatti pienamente.
Si può qui ricordare:
«La parola di Dio è essenziale, e questo, almeno, secondo una triplice dire-zione: è evangelicamente povera; raggiunge l’essenza, il profondo dell’essere di Dio, di Cristo, dell’uomo; dice tutto, senza impedire di approfondire ancora.
La parola di Dio è una parola aperta, che riesce ad evitare contemporaneamente sia la dispersione dei significati (l’equivoco) sia l’appiattimento degli stessi su di una dimensione univoca, che non tollera differenze possibili. Vive in una costitutiva polivalenza che trova unità a partire da un nucleo centrale, costituito dall’esperienza di Gesù come uomo e come Figlio di Dio.
La parola di Dio è dinamica ed efficace, capace di arrivare ad un dunque non solo nel discorso ma nella vita.
La parola di Dio è anche discreta, graduale, e rispettosa: dice tutto, ma non sciupa la gioia della scoperta; dice cose vitali, ma sa rispettare una crescita.
La parola di Dio è una parola attenta: non si misura sul solo contenuto ma an-che sul tempo e sul modo, senza però cadere nella logica delle convenienze e delle opportunità. Pur tenendo presente la situazione dell’uomo, il tempo ed il modo si valutano sulla necessità dell’annuncio della parola stessa, e non su altre, più o meno opportunistiche, considerazioni.
La parola di Dio è una parola bella, capace di coinvolgere e affascinare, capace di narrare e poetare, capace di alludere e meravigliare, sfruttando tuttavia non l’eccezionale, il mirabolante, la maschera o lo sconvolgente, ma l’essere e l’esperire quotidiano dell’uomo» (Ibidem, p. 26).