Canova, 21 gennaio 2005 – 3° incontro
(Aspetti nodali della fede oggi)
(don Marcello Farina)
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1. Dire che il modo di vivere la fede oggi è profondamente mutato per molti di noi è dire un’ovvietà, così come dire che è necessaria sempre di più una fede personale matura, che possa “far fronte” alle infinite domande che la interpellano da ogni parte.
Mi piace l’avvio del libro «Problemi di fede della nuova generazione» di K. Rahner – K.H. Weger:
«Ciò che m’inquieta – e che costituirà il tema di questo scambio di idee – non è tanto il ‘che cosa’, il contenuto della fede cristiana, bensì il ‘perché’ della fede. So bene che il problema del perché non può essere posto senza tener conto del contenuto, e avremo occasione d’interrogarci sugli stessi contenuti di fede. Riguardo a questi ultimi posso cioè essere generoso e gretto al medesimo tempo. Gretto se un asserto di fede non mi vuole entra-re in testa ed esige di essere semplicemente creduto, perché sta scritto che qui ci si deve fermare. E generoso soprattutto perché un paio di dogmi in più o in meno non fanno alcuna differenza. Se invece di sette i sacramenti fosse-ro dieci, il mio ‘nerbo di fede’ non verrebbe nemmeno sfiorato. Ma il ‘per-ché’ della fede! A me sembra che stia qui una delle radici della rassegna-zione. La vera fede non dovrebbe forse ardere? Non dovrebbe spingere sulle strade? Non dovrebbe cercare di convincere gli altri, e non perché pretende di avere ad ogni costo ragione, non perché fede saccente, ma perché convinta di aver trovato il senso e fatto esperienza della felicità? o per lo meno perché si sente contenta ed ha raggiunto una tranquillità interiore?»
Così almeno “dovrebbe essere” per noi. Ma obiettivamente possiamo dire che ai nostri giorni è proprio sempre così? O non è forse vero che molti cristiani, fin dall’adolescenza non credono più? Anzi, sembra persino che questa “estraneità” di fronte alla fede si acutizzi nell’età matura.
Ecco, dall’altra parte, le tensioni che il credente oggi esperimenta nell’esercizio della fede sono così numerose e frequenti, che anche solo tentarne una rassegna diventa un’impresa difficile. Abbiamo già parlato, ad esempio, del clima di indifferenza (il “pluralismo dell’indifferenza”) e di pluralismo religioso in cui spesso si trovano a vivere; ma non va dimenticato il “silenzio” di Dio, cioè la difficoltà di molti a coglierne la voce e la presen-za (“Dov’eri Dio?”); si tenga presente anche la tendenza a considerare la fede come un atteggiamento del tutto individuale e, correlativamente, l’impre-parazione di molte comunità ecclesiali di fronte al compito di me-diare la fede in modo convincente; per non parlare, poi, della storia del “popolo di Dio”, cioè della Chiesa in generale, sempre santa e sempre peccatrice. Più analiticamente:

– la prima difficoltà è dunque il clima di indifferenza e il plurali-smo religioso, in cui il cristiano oggi si trova a vivere. È finito il “regime di cristianità”, che in qualche modo ha agevolato la vita di fede. I cristiani, anche in Occidente, sono ormai una minoranza. Si fanno sempre più sentire i rischi dei condizionamenti introdotti dalla “secolarizzazione”, che veicolano uno stile di vita contrario al Cristianesimo e un’indifferenza religiosa diffusa.

– In questa stessa linea si colloca la difficoltà a cogliere la presenza di Dio nella propria vita. È il grande tema dell’«assenza di Dio». Ciò può accadere per svariati motivi. C’è chi considera Dio come assente perché riscontra nel mondo o anche nella propria vita la presenza di grandi ingiustizie o di sofferenze inspiegabili, che insinuano il pensiero che Dio sia indifferente di fronte ad esse o non voglia o non possa intervenire. Ma gli ostacoli possono derivare anche dal lavoro di ogni giorno, spesso ripetitivo o meramente esecutivo, oppure logorante e spersonalizzante. Così per le persone è difficile cogliersi come “collaboratori alla costruzione del Regno di Dio” ed esse si sentono private di un valido stimolo a cogliere nel quotidiano un rimando
a lui.

– Altre volte le difficoltà hanno radici più profonde. Può essere sia l’ambiente circostante ostile che rende difficile la fede, oppure, addirittura, il temperamento spirituale. C’è, anche tra di noi, chi, pur essendo pro-fondamente credente, non si sente affatto “trasportato” dalla sua fede, né in qualche modo riesce a sperimentarla. Per costui credere spesso comporta una fatica che ogni giorno si rinnova, legata al superamento delle difficoltà che continuamente incontra. Oppure, come si è già detto, un altro grande ostacolo è la tendenza dell’uomo di oggi a considerare la fede come una scelta del tutto individuale, una faccenda privata, che “serve” solo nell’ambito della propria coscienza, senza apertura alla comunità.

– Non da ultimo, per molti credenti o cercatori di Dio è la storia del-la Chiesa che fa ostacolo alla comunicazione della fede. Non solo la ric-chezza delle Chiese, ma la loro fedeltà al vangelo, il loro essere presenza profetica dentro la storia dell’uomo. (Le cinque paure ricorrenti nella vita della Chiesa: la verità, la libertà, la democrazia, l’amore, la donna).
A questo punto una domanda si impone: è “ragionevole” credere? Il tutto si articola in diverse questioni: è necessario avere delle “prove” per aderire alla fede e quali possono essere le loro caratteristiche? L’uomo con-temporaneo è ancora in grado di riconoscerne la validità, anche in tempi di “pensiero debole”? La credibilità del cristianesimo si può cogliere anche al di fuori della fede? Diventa sempre più chiaro che oggi, più che mai, un cristia-no maturo non può sottrarsi al compito di spiegare i motivi che lo portano a credere, cioè a portare delle “prove”.
Come ai tempi della Chiesa primitiva, anche ai nostri giorni sono ne-cessarie delle “prove”. Allora, come oggi, erano e sono necessari dei “segni” che mostrassero e mostrino la solidità della fede del credente. Si tratta, come si può vedere, di “prove” di tipo speciale, legate ai detti e ai fatti della vita di Gesù di Nazareth e all’evento della sua risurrezione, così come i discepoli la testimoniano. Il valore cioè delle “prove” nasce da due premesse-precomprensioni: che il Dio della Bibbia, il Dio della storia del popolo si sia rivelato in Gesù di Nazareth, come testimoniano coloro che sono vissuti con lui; egli solo è la “pietra” su cui si fonda la fede, e nessun altro. Di conseguenza, poiché si tratta di una testimonianza (magari confermata con il martirio), la fede non ha la certezza delle “dimostrazioni matematiche”, ma “si fida” di uomini e donne credenti. Ciò è davvero straordinario: il valore delle “prove” della fede passa attraverso l’esperienza comunitaria: il cristiano percepisce la ragionevolezza della sua fede principalmente confrontandosi con le ragioni che sostengono la fede degli altri credenti. È perché egli esperimenta la bellezza, la gioia della fede, l’«equilibrio» che essa compie nella vita di tanti credenti che può “provare” a credere. Che può imparare l’irresistibilità della figura di Gesù di Nazareth per sé e per la propria vita.

2. GESÙ DI NAZARETH È LA PROVA DELLA FEDE

È in questo contesto che mi pare importante fermarci un poco sulla figura di Gesù di Nazareth. È appena uscito in Francia un interessante libro di Maurice Bellet, intitolato “La quarta ipotesi. Sull’avvenire del Cristianesi-mo” (Parigi 2001), dove l’autore ipotizza che l’annuncio cristiano, anzi Cristo stesso, sono minacciati di estinzione. E questo acuto osservatore “interno” alla fede cristiana, con la sua rara capacità di provocazione, delinea quattro ipotesi per l’avvenire del Cristianesimo:
– la prima non fa che prendere atto della scomparsa del fenomeno cristiano: «il Cristianesimo scompare e con esso il Cristo della fede… Se ne va. Svanisce. È indolore. Non ci si pensa neanche più. Scomparso»; restano delle tracce, monumenti, opere d’arte, forse qualche elemento d’inconscio collettivo e un nucleo consistente di adepti…;

– la seconda ipotesi delinea una dissoluzione: l’apporto dei valori evangelici entra a far parte del patrimonio comune dell’umanità come un anello di una tradizione più grande, una componente di un sistema di pen-siero e nulla più: «Gesù può anche trovarsi un posto, come nel pantheon indù»: è forse quello che alcuni vogliono veder fissato nero su bianco nella “carta” dell’Europa?;

– la terza ipotesi è che il Cristianesimo continui attraverso una dialettica fatta di conservazione, di restaurazione e di aggiornamento, in cui opzioni anche opposte – Bellet cita Pio IX e Giovanni XXIII, canonizzati insieme – permangano “interne a uno stesso insieme” fondamentalmente invariato;

– infine la quarta ipotesi, quella che già il titolo del libro fa emergere come la più approfondita, quella verso la quale si orienta l’attesa dell’autore: qualcosa conosce inesorabilmente la fine, «qualcosa muore e non sappiamo fin dove questa morte scende in noi». È la fine di un sistema religioso, legato all’età moderna dell’Occidente da un rapporto di interdi-pendenza. Ma con questa morte si arriva come a un capolinea, dove non si sa se la ripartenza sarà verso il peggio o verso il meglio; l’unica cosa che si sa è che questo dipende in massima parte da noi. È qui che va posto l’interrogativo brutale: “Cristo ha un futuro?” Lì dove un mondo finisce, in questa sorta di ‘ground-zero’ della cristianità, non tutto è perduto: l’evangelo può lì apparire come evangelo, cioè come parola inaugurale che apre lo spazio di vita? Il paradosso è grande, perché l’evangelo è vecchio… Ma forse il tempo delle cose capitali non è retto dalla cronologia; forse la ripeti-zione può essere la ripetizione dell’inaudito, così come dopo tutto, la nascita di ogni uomo è una ripetizione banale e, ogni volta, l’inaudito. Scrive Enzo Bianchi: «Sono convinto che un cristianesimo che sappia rinunciare a ogni forma di potere diverso dalla parola disarmata, che faccia prevalere la compassione sulla Legge, che riesca a parlare al cuore di ogni uomo, facendogli intravedere che la morte non è l’ultima parola, potrà essere un canto, una voce sempre più ascoltata. Ma questo richiede che i cristiani si esercitino a essere quelle sentinelle della libertà, della giustizia e della pace che Giovanni Paolo II ha più volte evocato nella sua chiaroveggente visione sul futuro del Cristianesimo. Certo, non va percorsa la strada di quanti, nella loro fede incerta, si aggrappano a false certezze, ricercano un’identità cristiana contro altre vie religiose, sperano in forti mobilitazioni e preferiscono annunciare una babele prossima ventura dovuta all’incontro tra le religioni, piuttosto che operare perché ci sia una nuova pentecoste».
In un mondo, che è spesso sopraffatto dall’angoscia, forse c’è ancora posto per un cristianesimo che sappia ripresentare l’inaudito di una buona notizia, l’inatteso ritrovamento di un senso non solo per una singola vita, ma per la stessa convivenza civile, forse c’è ancora posto per dei cristiani liberati dalle paure e aperti a una speranza per tutti.

3. COME GUARDARE AGLI UOMINI E ALLE DONNE DI OGGI?

Le considerazioni fin qui sviluppate rendono quanto mai attuale la do-manda di Gesù: «Ma quando verrà, il Figlio dell’uomo troverà ancora la fede sulla terra?» (Luca 18, 8). Se la situazione della fede oggi è quella che abbiamo abbozzato, con quali occhi guardare ai credenti incerti e dubbiosi o agli scettici che talvolta incontriamo?
Vale la pena di pensare che la risposta appropriata sia: dobbiamo impe-gnarci a guardare la realtà, la vita, la storia con gli occhi misericordiosi di Dio. Ciò significa principalmente che dobbiamo cercare di capire le difficoltà che molti incontrano nel loro cammino verso Dio. E di cogliere l’atteggiamento di Dio nei confronti degli uomini e delle donne di “poca fede”.
Gesù di Nazareth mostra un’enorme pazienza con i discepoli e le folle, cui spesso rimprovera di avere “poca fede” (Matteo 6, 30; 8, 26 ecc. ecc.). Le parole che egli rivolge agli apostoli: «Se aveste fede quanto un granello di senape…» (Luca 17, 6) si riferiscono proprio a questa situazione di incertezza. E questo atteggiamento di pazienza, di attesa fiduciosa, Gesù lo manifesta anche dopo la risurrezione, come risulta dall’incontro con i discepoli di Emmaus (Luca 24, 25-27) e con Tommaso (Giovanni 20, 27).
Egli non giudica, anzi guarda con simpatia e compassione chi ha biso-gno di aiuto per maturare la propria fede, (di)mostrando che Dio non abban-dona nessuno e, anzi, a chi non lo conosce, egli apre vie d’accesso impensabili, a lui solo note.
In realtà la rivelazione ci avverte che i cammini della fede sono nu-merosi e diversi: la storia della salvezza racchiude tutte “le storie” della maturazione della fede che Dio ha predisposto per ciascuno e per il popolo. Insomma, «le vie che conducono alla fede sono tante quanti sono gli uomi-ni» (Romano Guardini). Possiamo persino immaginare che, come accadde a Giacobbe, per aderire a Dio nella fede, l’uomo di oggi spesso debba lottare con lui.
Dio parla ad ogni uomo in modo diverso, rispettando i tempi di matura-zione, la cultura, le chiusure, i tentennamenti, i ripensamenti. In breve: Dio guarda con attenzione amorosa l’uomo che si avvia sul cammino della fede e il suo dialogo con lui, sotterraneo e misterioso, dura tutta la vita.
Assecondare questo dialogo sotterraneo è il compito di chi crede, di chi accetta di farsi testimone della fede. La “compagnia” della fede è, spes-so, il compito più importante e prezioso di chi vuole essere discepolo di Gesù di Nazareth. Recuperare “tracce di fede” rimaste, anche se stanche; sollecitare “nostalgie” ormai sedimentate, ma riaffioranti in determinati momenti; non approfittare dei momento di debolezza delle persone, ma far sentire che nessuna esperienza di vita è insignificante e disprezzabile; osare ogni tanto dire che il Dio cristiano è “il dio dei vivi e non dei morti”, e sulla sua parola si può davvero gettare le reti per sperimentare una vita “sensata”.
Quando sentiamo parlare di “nuova evangelizzazione” (almeno da vent’anni a questa parte) non possiamo pensarla allora, semplicemente, come una “nuova inculturazione”, visto il fallimento-oscuramento delle “grandi narrazioni” precedenti, ma come un atteggiamento di grande accoglienza e di rispetto per la “fragilità” e la “debolezza” della umanità di oggi.
Una delle sfide più urgenti è proprio il prendere coscienza della “gravi-tà” dell’impegno. Ma non deve mancare “una strategia missionaria”, cioè una consapevolezza nuova riguardo agli strumenti e ai linguaggi, che possono di nuovo suscitare la fede in un contesto storico che non le offre più un appoggio negli ambienti vitali dell’uomo e della donna nostri con-temporanei.

APPENDICE 1

Da: Eugen Biser, La svolta della fede, ed. Morcelliana, pp. 76-77

“Così viene ora alla luce anche il motivo della domanda. Non si tratta, come nel caso della domanda posta strettamente nell’ambito di argomentazioni dimostrative, di curiosità intellettuale, poiché essa in questo caso si collega con un desiderio di sicurezza fondamentale, volto al «tempo e all’eternità». No, si tratta del desiderio, insito in ogni uomo, di maggiore felicità, di maggiore comprensione, di maggiore umanità! Da ciò è alimentata l’aspettativa che noi rivolgiamo alla fede e di ciò si nutre anche la domanda ora nuovamente posta nel suo significato fondamentale: «Perché crediamo?».
A partire da questa aspettativa di si-gnificato, già ora è possibile dare una risposta, prima di ogni ulteriore approfondimento del problema, per quanto essa possa apparire indeterminata in questo stadio del procedimento di pensiero. E questa risposta chiede già da ora di essere ascoltata nella sua indeterminatezza. Essa è: crediamo perché ci sentiamo chiamati a qualcosa di più grande di quanto il mondo dei fatti, degli affari, dei doveri, il mondo delle piccole felicità, dei vantaggi di breve respiro e delle delusioni che seguono a ogni successo riescano ad offrire. Crediamo perché ci sentiamo alle strette nella unidimensionalità del nostro spazio di vita dominato dagli obblighi, minacciato da manipolazioni e disseminato di frustrazioni; crediamo perché il mondo non ci è ancora stato chiarito fino in fondo con la sua interpretazione scientifica, perché esso tiene in serbo possibilità fino ad ora sconosciute, tesori nascosti di conoscenza, di felicità e di prove superate; crediamo perché per noi le forze della repressione, dello sfruttamento, dell’umiliazione e della eliminazione non possono avere l’ultima parola, perché pensiamo dell’uomo meglio di quanto corrisponde alla sua valutazione di fatto, perché la sua vicenda per noi va oltre il pozzo oscuro sul cui bordo egli, questo recipiente di insoddisfatte nostalgie, va in mille pezzi.
Crediamo dunque perché per noi, al di là delle situazioni contingenti – e già in mezzo ad esse –, ci deve essere uno spazio di respiro, non certo un’isola dei beati, ma uno spazio in cui non ci sentiamo estranei, uno spazio in cui domina la buona volontà, uno spazio di nostalgie colmate e di promesse mantenute. Crediamo perché non ci lasciamo sottrarre la fiducia nella forza della ragione, nella vittoria del giusto e nella attuazione della pace. E crediamo di fronte a tutte le cose perché ci ripromet-tiamo tutto ciò non, o non primariamente, dalla nostra intelligenza, dalla nostra creatività, dalla nostra disponibilità al rischio e dalla nostra energia, bensì dall’avvicinamento di questo mondo al compendio dell’essenza divina della misericordia, della sapienza e dell’amore. Crediamo perché nella fede ci diviene chiaro che questo avvicinamento non parte da noi ma da Dio il quale, venendoci incontro nell’evento della comunicazione di sé stesso, è il fondamento e il motivo più profondo della nostra fede. Riferito al punto di partenza, ciò significa: credia-
mo perché in nessun luogo come nell’atto della fede diveniamo consapevoli dell’utopia del nostro proprio esistere, dello stimolo al superamento di noi stessi connaturato a questo esistere, della nostra innata vocazione a qualcosa di più grande di quanto abbiamo effettivamente raggiunto e siamo. Crediamo dunque perché dall’utopia della fede aspettiamo la risposta alla domanda che noi non tanto poniamo quanto piuttosto rappresentiamo”.

APPENDICE 2

Luis Evely, Un Natale ingombrante

Io mi dico spesso: basterebbe che Gesù si presentasse veramente a casa nostra il giorno di Natale perché non ci sia più alcuna festa di Natale. Sì, basterebbe che Gesù venisse veramente nella nostra famiglia perché le nostre feste siano rovinate.
Immaginate che Gesù si inviti a casa nostra nelle vesti di rifugiati senza tetto, di immigrati muniti di un foglio di requisizione, di un giovane delinquente che esce dalla prigione dopo aver scontato la pena, o semplicemente di una vecchia zia (senza eredità) o di un vecchio zio (non d’America) malato e che verrebbe da noi per essere curato e per morire; ebbene la festa sarebbe finita, il nostro Natale andrebbe a monte.
Quale imbarazzo, quali fastidi, quali lamentele, quali reazioni! Vostro marito brontolerebbe, vostra moglie protesterebbe e i figli dichiarerebbero di andare altrove a festeggiare il Natale, in un posto più gioioso e più tranquillo. E voi restereste soli, senza nessuno che vi approvi.
Tolleriamo agevolmente nei nostri presepi un Gesù Bambino di gesso: non è importuno, non è esigente: non parla! Ma se soltanto fosse un piccolo bambino straniero che grida, che sporca, affatica e ci sveglia di notte, saremmo profondamente spaventati e perderemmo ogni «sentimento» religioso.
Il vero Cristo, il vero Dio è terribilmente ingombrante. È per questo che ce ne siamo sbarazzati in quel tempo e che noi trove-remmo molto bene i modi per sbarazzarce-ne nel nostro.
Ci volgiamo con nostalgia al Natale. Ci lamentiamo di non aver vissuto in quel tempo dove si poteva vedere, toccare, accogliere il Cristo. Ma ci dimentichiamo che quello fu il tempo in cui quasi nessuno lo ha riconosciuto, amato, venerato.
Dimentichiamo, soprattutto, che questo tempo continua, che pure per noi il Verbo si fa carne ed abita tra noi, sempre povero, sempre sospetto, sempre misconosciuto.
Pensate: se gli albergatori di Betlemme avessero saputo chi bussava alla loro porta l’avrebbero aperta. Erano persone religiose come noi. Ma hanno creduto che Maria e Giuseppe fossero due barboni, due immigrati, due sconosciuti, due importuni, allora non li hanno accolti, come faremmo anche noi. Siamo troppo ragionevoli, troppo prudenti, troppo presi da noi stessi. Come credere che Dio può presentarsi in simile veste? Nelle nostre case confortevoli, tutto è occupato e non ci manca nulla, anche se il Signore non è lì. Perché il Signore non è qui che con il povero, il vecchio, lo straniero.