“SCRUTANDO L’AURORA” Riflessioni di don MARCELLO FARINA
Canova, 20 gennaio 2006 2° incontro – Scarica il testo in formato PDF

1. Questioni introduttive (uno stato d’animo condiviso)

Mi piace iniziare questa «difficile» e «intricata» riflessione con due frasi di Paul Ricoeur, il grande pensatore francese che ha dedicato una parte notevole della sua riflessione alla questione del male e del peccato originale.
Nell’opera intitolata Il conflitto delle interpretazioni egli scrive:
– «Il concetto di peccato originale è un falso sapere e deve essere infranto come sapere…».
– E poi: «Non si dirà mai abbastanza quanto male ha fatto alla cristianità l’interpretazione letterale, bisognerebbe dire “storicistica” del mito di Adamo; esso lo ha fatto cadere nella professione di una storia assurda e in speculazioni pseudo-razionali sulla trasmissione quasi biologica di una colpevolezza quasi giuridica per l’errore di un altro uomo, respinto lontano nella notte dei tempi, non si sa bene dove, tra il pitecantropo e l’uomo di Neanderthal. Contemporaneamente il tesoro nascosto del simbolo adamitico è stato superato…» (cfr. anche pag. 70 di Delumeau).
Il compito che si presenta davanti a ciascuno di noi, credenti o cercatori di Dio, laici o scettici nei confronti della tradizione biblica e, più avanti, teologica e filosofica, è, allora, urgente e chiede, ad un tempo, coraggio e competenza per dipanare questo intricato «topos” della storia e della cultura che ci ha accompagnato fino ad oggi.

2. Il peccato nell’umanità: un dato di esperienza da interpretare (a partire dalla vita quotidiana…)

La colpa e il male sono nell’umanità un dato di esperienza: sono pre-senti sempre e dappertutto. Nel cuore del problema opaco del male, di un male di fronte al quale l’uomo si sente in parte innocente, sta un male che l’uomo compie personalmente, perché fa esperienza di un disordine dentro di sé e della incapacità di fare il bene che desidera compiere e di evitare il male che non vuole commettere (cfr. Romani, 7)*. Questa esperienza attraversa tutti i secoli dell’umanità, fino a quel grido dell’eroe di Solženicyn, Oleg, di Reparto C, quando al giardino zoologico, sulla gabbia di un macaco, legge una scritta estemporanea secondo cui «una persona malvagia ha gettato del tabacco negli occhi dell’animale. Perché?… Perché così?… Perché senza una ragione?… Perché era un malvagio senza una ragione?» (p. 550, ed. Einaudi, Torino, 1973).
Di questo male degli uomini e negli uomini la rivelazione biblica parla come di un «peccato», vale a dire come di un male che non solo ricade sul colpevole e sulla società degli altri uomini, ma, in più, è rivolto contro Dio. Il peccato viene commesso di fronte a Dio e contro di lui: «Contro te, contro te solo, ho peccato» (Salmo 50, 6).
Senza dubbio il peccato è, innanzitutto, una realtà costituita da atti personali. Tuttavia, esso appare come qualcosa d’altro e di più che la somma dei peccati individuali, come una forza praticamente irresistibile che attraversa la storia dell’umanità. Ha come un’esistenza che penetra tra le pieghe di essa; è una realtà inglobante che esercita un potere sulla struttura stessa della storia dell’umanità.
Ogni religione si trova messa a confronto con questa esperienza: ciascuna deve cercare di renderne ragione, cosa particolarmente difficile, poiché il male e il peccato sono realtà tenebrose e opache da cui non si può trarre alcuna luce. Qui il nostro approfondimento riguarderà in particolare il male colpevole. La tradizione ebraico-cristiana, d’altra parte, rifiuta, eviden-temente,

a) l’idea che il peccato possa essere opera di Dio, così come essa rifiuta anche

b) il dualismo di due principi, quello del bene e quello del male. Nell’atto con il quale ci annuncia la salvezza in Gesù di Nazareth, essa ci rivela che il peccato è l’opera dell’uomo.

3. La tradizione patristica: dai padri greci ad Agostino

Si tratta di un passaggio importante della storia della teologia, che ci aiuta a capire il problema fin dal suo nascere.
Il primo padre della Chiesa a parlarne è Ireneo, uomo dell’Oriente, diventato, poi, vescovo di Lione. Nel suo famoso testo Contra haereses (Contro gli eretici, 178 d.C.) Ireneo afferma che il vero responsabile del peccato di Adamo è il serpente corruttore, anche lui creatura, ma creatura peccatrice. Adamo, per lui, è più vittima che colpevole, e gli uomini, dopo Adamo, sono i cittadini di un regime di cattività, di prigionia, al modo in cui un vincitore (il diavolo) tiene prigioniero l’esercito sconfitto (il popolo dei credenti). Questa cattività è, agli occhi di Ireneo, profondamente ingiusta, perché il demonio rapace non ha alcun diritto sull’umanità. Dio stesso prova pietà per l’uomo e non lo maledice; se lo punisce (con la sofferenza e con la morte) è perché non arrivi a disprezzare Dio e, anzi, riscopra la sua originaria libertà, mai perfetta, del resto, fin dal principio. L’obbedienza del Cristo a-vrebbe ricostruito la condizione originaria dell’umanità, dando a ciascuno la possibilità di riconoscere il proprio bisogno radicale di salvezza. Per Ireneo, perciò, non è tanto un «peccato», ma una «situazione» di degrado (di separazione da Dio) quella che viene redenta da Gesù di Nazareth e che ac-comuna tutti gli uomini. Per lui Dio permette la morte, con l’uscita dal giardi-no, perché il peccato non sia immortale!
È invece Agostino di Ippona, colui che usa il termine di «peccato originale» per descrivere la condizione iniziale dell’uomo. Egli, commentando abbondantemente Genesi 2 e 3, riflette sul peccato di Adamo, nel quale vede il peccato allo stato puro, l’orgoglio e l’avidità dell’essere umano in rivolta. C’è, nel peccato di orgoglio, tutta la grandezza negativa della libertà, creata per aderire a Dio. Agostino insiste molto anche sulle conseguenza negative di questo peccato nell’umanità stessa, con la sua dottrina della concupiscenza e della cupidigia che si potrebbe definire come il disordine del desiderio fondamentale dell’uomo, e ciò in tutti gli ambiti.
L’argomento di Agostino è estremamente semplice: la Chiesa battezza per la remissione dei peccati, tutto il Nuovo Testamento lo attesta; e se battezza anche i bambini, che non hanno potuto commettere alcun peccato personale, allora vuol dire che essa lo fa a causa del «peccato originale», cioè di uno stato, di una situazione in cui ciascuno, volente o nolente, si trova, che comporta, da una parte, una rottura della relazione di grazia con Dio e, dall’altra, un degrado dell’essere umano rispetto a ciò che egli dovrebbe essere, uno squilibrio, una sorta di maleficio interiore, che ogni essere umano ratifica peccando a sua volta.
I concilii locali successivi, di Cartagine del 418 (presente Agostino) e di Orange del 529 confermeranno la dottrina agostiniana.
Nel Medioevo si scontreranno due tendenze: quella di Anselmo e Tommaso d’Aquino che interpreteranno il peccato originale come l’assenza della giustizia originaria del momento della creazione, e quella di Pietro Lombardo, che definirà il peccato come squilibrio dell’egoismo, dell’orgoglio e della concupiscenza. A costui si riferirà Lutero, per affermare che il battesimo cancella sì il peccato, ma non la concupiscenza come «peccato» essa stessa. Il Concilio di Trento, dal canto suo, seguirà una via più prudente, affermando che il vero peccato è «la morte dell’anima», cioè il toglierle il rapporto con la vita di Dio, con la sua grazia, secondo le scelte proprie di cia-scuno.
4. Le difficoltà della coscienza moderna

La coscienza dei tempi moderni ha reagito contestando, da una parte l’interpretazione del racconto della Genesi, come se si trattasse di una storia verificabile (empirica) che dovrebbe essere collegata in una maniera o nell’altra al processo di ominizzazione e rifiutando, dall’altra, l’affermazione che questa caduta originale sia la causa pura e semplice di tutti i mali den-tro l’esperienza di vita dell’umanità. Oggi si riconosce finalmente che il racconto della Genesi è «un mito», nel senso positivo del termine, vale a dire una storia narrata per dare un insegnamento di fede inesprimibile in altri termini. C’è sempre di più in un racconto di questo genere, che nelle raziona-lizzazioni che se ne possono fare.
Nel nostro tempo, almeno da parte delle persone più pensose e avvertite (non, ad es., per gli estensori del Catechismo della Chiesa cattolica del 1993) il rapporto del nostro peccato con quello di Adamo viene compreso in modo nuovo e, certamente, più vicino ad un’esegesi approfondita e seria.
Possiamo fare nostre, ad esempio, le domande del teologo J. Moingt:
«Il nostro peccato è da attribuire ad Adamo, oppure il peccato di Adamo va attribuito all’uomo? Sta tutto qui. In altri termini: il trattato del peccato originale racconta un accidente della storia e quanto ne è risultato, e cioè una fatalità piuttosto che una storia, visto che l’insieme degli uomini, eccetto uno, non vi svolgerebbero alcun ruolo, se non quello della vittima innocente? Oppure racconta veramente la nostra storia, la storia di noi tutti, quella della libertà umana?»
Di fatto, non è forse proprio quest’ultima storia, quella che ci racconta la Scrittura? L’intento fondamentale dei racconti della creazione e della caduta (Genesi 1-3) ha l’obiettivo di sottolineare il «bene originale» della creazione in quanto questa esce dalle mani di Dio, un bene più originale del «male originale» (P. Ricoeur), che è proprio dell’uomo. La libertà dell’uomo, con un peccato scaturito dall’orgoglio di voler diventare Dio con le proprie forze, ha distrutto l’armonia della creazione originale e ha introdotto una serie di rotture: rottura con la natura; rottura tra l’uomo e la donna; rottura all’interno dell’essere umano stesso; rottura con Dio. Questa responsabilità è universale, e per questo motivo essa comincia con gli inizi dell’umanità. San Paolo farà riferimento a questa responsabilità «originale» al momento di proporre il suo grande parallelo antinomico tra Adamo e Cristo (Rom. 5, 12). Nello stesso senso, l’esegeta P. Grelot scrive: «In queste condizioni, il peccato di Adamo diventa, tutto insieme, la figura del dramma umano nella sua generalità e nella rappresentazione simbolica dell’evento originario che ne ha costituito il punto di partenza».
Il Vaticano II dice, a sua volta: «Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l’uomo, però, tentato dal maligno, fin dagli inizi della storia abusò della sua libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio […]. Quel che ci viene manifestato in questo modo dalla rivelazione divina, concorda con la stessa esperienza (Gaudium et Spes 13)».

5. Una “possibile” riflessione sul «senso» profondo
del racconto della Genesi

Vale la pena, da ultimo, di cercare di cogliere il «senso» più autentico del racconto biblico a partire dalla sensibilità e dalle conoscenze dell’uomo e della donna di oggi, con un linguaggio che si sforzi di interpretare uno dei passaggi più drammatici e significativi della storia dell’umanità.
In un bellissimo articolo contenuto nella rivista Concilium (Il peccato originale: un codice di fallibilità, 1/2004, ed. Queriniana) il teologo Hermann Häring si chiede qual è il significato del racconto di Genesi, ai capitoli 2 e 3 (i due racconti della creazione dell’uomo) e struttura la sua interpretazione in tre «passaggi» significativi:

a) «Esistere significa scegliere». Il testo della Genesi, infatti, non si preoccupa né del traviamento, né del peccato e nemmeno della colpa e del castigo. Viene, invece, raccontata un’esperienza umana di fondo che ci è di sfida e dalla quale non possiamo sottrarci. Si tratta, infatti, del problema della costrizione a scegliere e a organizzare la nostra vita in base alla propria responsabilità. Non possiamo mai avere tutto; la nostra vita è posta nelle nostre mani e non vale ricorrere indiscriminatamente alla volontà di Dio. Decidere significa anche rinunciare, confrontarsi con le alternative, costrin-gersi a scegliere.
Ripensando al peccato originale Sören Kierkegaard vedeva in Adamo la figura attuale dell’essere uomo. Nel giardino della felicità tra i molti alberi c’è appunto un unico albero «della conoscenza del bene e del male», cioè del compimento che suggerisce la soddisfazione di tutti i desideri. Ma l’idea di un paradiso in cui si soddisfino tutti i desideri si elimina da se stessa, poiché è nella natura delle cose che la ricerca umana della felicità imponga da sempre di intraprendere un viaggio faticoso e pericoloso.
Scrive Hermann Häring: «Esistere significa avere a che fare sempre anche con le scelte, i limiti e i pericoli. Ci attrae l’illusione che la felicità perfetta, la comprensione esauriente della realtà e una vita totalmente sicura siano a portata di mano qui e adesso. Ma proprio tale illusione, il peggior pericolo di ogni esistenza umana, cozza contro inevitabili ed essenziali esperienze quali la coercizione a scegliere, l’angoscia per la separazione, la fatica e il lavoro, i conflitti tra gli uomini e i rischi della sessualità, la sofferenza, i dolori e la morte. È oramai assodato che l’iniziazione a queste esperienze fondamentali del vivere umano – questa che costituisce la saggezza essenziale – si riscontra in ogni religione. Per cui, non appena tale saggezza sfuma sullo sfondo, faremo bene a richiamarla alla memoria riportandola in primo piano».
La Bibbia, con il racconto del peccato originale, non ha fatto altro che recepire quelle esperienze di fondo, traducibili nel fatto che anche nell’esistenza ben ordinata rimane un insopprimibile resto del caos: il paradiso hic et nunc non è possibile! Deve pagare questo prezzo chi vuole rallegrarsi di questo mondo e diventare felice in esso; chi vuole partecipare al lavoro per la riconciliazione dell’umanità. Si tratta della disponibilità ad ac-cettare i limiti di questo mondo e ad agire dentro di essi.

b) Non ci si può sottrarre alla «libertà». Di fronte al serpente che semina sfiducia e che instilla nella coppia dei “progenitori” la propria immaginazione («Diventerete come Dio») («Si aprirebbero i vostri occhi…»; «Non morirete affatto»), Adamo e Eva sono chiamati a uscire allo scoperto, a esercitare la loro libertà «soggettiva», ad assumere le loro responsabilità, come a dire che ogni atteggiamento di adesione ingenua a Dio deve essere accantonato. L’uomo (ogni uomo) sta ora davanti a Dio come chi si pone domande e prende decisioni in proposito. Certo, le domande si moltiplicano anche per noi e riguardano Dio stesso: gli si possono imputare le limitazioni del paradiso terrestre? O, in modo più chiaro, è egli forse interessato a mantenere piccolo l’uomo? Come si conciliano tra di loro la volontà di Dio e la libertà umana?

c) La storia umana si rivela come storia di perdizione e di distru-zione. L’uscita dal paradiso terrestre porta con sé fin dall’inizio il concetto-simbolo di «caduta», intesa come «disumanità», «malvagità», come «storie sciagurate», a partire dal racconto del fratricidio (Gen. 4), fino al racconto del diluvio universale (Gen. 6). La malvagità investe come una valanga non solo il mondo, ma anche i rapporti e la convivenza umani. In altri termini, come si diceva sopra, la storia umana si rivela come storia di perdizione e di distruzione. Si tratta della potenza del male che investe dal di dentro tutta la storia dell’uomo nel corso del tempo.
Come dirà Paolo nella Lettera ai Romani Cristo immetterà nella storia dell’umanità un «contro-movimento», per cui Adamo (e il suo peccato) sarà insieme confermato e contraddetto, in vista di una pienezza, che sarà compiuta quando Cristo stesso consegnerà al Padre l’intera storia umana e «Dio sarà tutto in tutti».
È molto bello quello che scrive a questo proposito Carlo Molari: «Accettare la condizione temporale da parte delle donne e degli uomini significa imparare a portare il male proprio e degli altri per poter raggiungere insieme quella pienezza di vita che, prefigurata nella profezia della Genesi, in Cristo è stata concretamente presentata, ma solo al termine del processo può avere completa attuazione» (su Esodo, n. 1, 2001, pp. 9-14).
E Theilard de Chardin chiama tutto questo «l’angosciante sforzo verso la luce e la coscienza».
Dal punto di vista pratico la consapevolezza della necessità del male e della sua provvisorietà si traduce nell’impegno redentivo. Portare il male del mondo è la possibilità offerta alle creature di essere parte attiva del processo salvifico. Mentre ogni resistenza e ogni pigrizia dell’umanità diventa impedimento al cammino della vita, ogni scelta positiva si traduce in una nuova opportunità di crescita, rende possibile un’irruzione di quella perfezione divina, che può essere accolta solo a piccoli frammenti, in forma quindi incompiuta e imperfetta, ma con tensione continua a quella pienezza di cui la potenza creatrice suscita nostalgia ovunque venga accolta.

6. Conclusione precaria, sempre aperta…

Siamo in cammino verso il paradiso terrestre. Nella Genesi non è descritta una perfezione già acquisita, bensì un traguardo da raggiungere. E anche la teologia (almeno quella più avveduta) sta modificando radicalmente il modo di considerare tutto il problema della “storia primitiva” dell’umanità e dell’origine del male. Si fa sempre più strada l’idea che occorra abbandonare una concezione statica degli inizi, che vede Dio creatore come colui che ha portato a compimento la sua creazione, lasciandola poi in balia del suo deterioramento, della sofferenza e della morte. In un orizzonte alternativo, dinamico ed evolutivo, la perfezione sta al termine del processo, come risultato di una progressiva accoglienza dell’azione creatrice, attraverso la quale Dio conduce l’umanità alla sua forma compiuta.
Scrive il teologo Th. Rey-Mermet: «No, l’umanità non è nata in paradiso terrestre. Quel cielo di felicità e di divina amicizia descritta da Genesi 3 è il modello della creazione: non è passato, ma futuro; non è dietro, ma davanti a noi. È il disegno di Dio per la fine dei tempi. È posto all’inizio della Bibbia perché si comincia sempre per definire il modello. Ma, nell’esecuzione, l’umanità non è iniziata con esseri perfetti poi decaduti, ma con umili abbozzi amorosamente perfezionati da Dio secondo le leggi di un lento sviluppo.
Questa è proprio la verità storica: “L’umanità non è iniziata con esseri perfetti poi decaduti”. Ma la Genesi ha annunciato sotto forma di una magnifica parabola sia il futuro che Dio ha concepito per essa, sia il difficile cammino che essa dovrà percorrere prima di giungere al traguardo» (in Delumeau, Scrutando l’aurora, p. 81).

ALLEGATO N. 1

Il Catechismo della Chiesa cattolica, e «il peccato originale»

Nel Catechismo della chiesa cattolica (CCC) sono presentate, come dati di fede tradizionale, le opinioni correnti della neoscolastica circa lo stato primitivo dell’uomo: “La Chiesa interpretando autenticamente il simbolismo biblico alla luce del Nuovo Testamento e della Tradizione, insegna che i nostri progenitori, Adamo ed Eva, sono stati costituiti in uno stato “di santità e di giustizia originali” (Concilio di Trento DS 1511). La grazia della santità originale era una “partecipazione alla vita divina” (LG 2)” (CCC n. 375).
La “giustizia originale” era costituita da una triplice armonia: “l’armonia interiore della persona umana, l’armonia tra l’uomo e la donna, infine l’armonia tra la prima coppia e tutta la creazione” (n. 376). In tale condizione, “l’uomo era integro e ordinato in tutto il suo essere, perché libero dalla triplice concupiscenza che lo rende schiavo dei piaceri dei sensi, della cupidigia dei beni terreni e dell’affermazione di sé contro gli imperativi della ragione” (CCC n. 377). In questa condizione, “finché fosse rimasto nell’intimità divina, l’uomo non avrebbe dovuto né morire, né soffrire” (n. 376) (3). Il cambiamento sarebbe avvenuto per il peccato commesso all’inizio della storia umana: “Per il peccato dei nostri progenitori andrà perduta tutta l’armonia della giustizia originale che Dio, nel suo disegno aveva previsto per l’uomo” (n. 379).
Le prove per sostenere una simile posizione sono due citazioni della Genesi, una per la morte: “…ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (2, 17); “…finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai” (3,19); e una per la sofferenza: “moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli” (3,16). Ora i biblisti interpretano queste affermazioni non come la descrizione di un cambiamento avvenuto nella struttura della persona umana, in seguito al peccato, bensì come indicazione delle conseguenze immediate delle eventuali scelte negative che sarebbero state compiute.
Nella Genesi non è descritta una perfezione già acquisita, bensì un traguardo da raggiungere. Anche la teologia ha modificato radicalmente il modo di considerare tutto il problema. Nell’orizzonte dinamico ed evolutivo, la perfezione sta al termine del processo come risultato di una progressiva accoglienza dell’azione creatrice, attraverso la quale Dio conduce l’umanità alla sua forma compiuta.

BIBLIOGRAFIA EZZENZIALE

PAUL RICOEUR: Il male, Morcelliana, Brescia, 1993.
AA. VV.: Il peccato originale: un condice di fallibilità, Concilium, 1/2004.
AA. VV.: L’ombra di Dio: stare dentro, oltre il male, Esodo, 1/2001.
JEAN DELUMEAU: Scrutando l’aurora, Un cristianesimo per domani, Ed. Messaggero, Padova, 2003.
AA. VV.: Il diavolo e l’Occidente, Morcelliana, Brescia, 2005.